Sorvegliato e indagato sin dalla fine degli anni ’70, gli vennero già sequestrati dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale cinque magazzini colmi di beni archeologici, nascosti a Basilea, in Svizzera: i reperti vennero recuperati dal TPC, mentre Becchina non è mi stato condannato, essendo intervenuta la prescrizione che, di fatto, ha comportato l’estinzione del reato.
L’ultimo avvenimento, durante il quale si è verificato un incendio sospetto in cui è andata perduta una grande quantità di materiale cartaceo, testimonia ulteriori collegamenti fra Becchina e il superlatitante Matteo Messina Denaro, boss indiscusso di Cosa Nostra.
Grazie al contributo di alcuni collaboratori di giustizia, continua ad accrescersi la nostra conoscenza sulla fitta rete di contatti che gestisce il traffico illecito internazionale del patrimonio culturale italiano (e non solo). Il suddetto traffico veniva gestito dal Becchina, il quale, prima di immettere i beni rubati nel mercato internazionale, li faceva pervenire in Svizzera, Stato che ben conosceva avendoci trascorso parte della sua vita, dapprima lavorando in un albergo e, in seguito, come titolare di una galleria d’arte.
Il cosiddetto “amore per l’archeologia”, che governa le intenzioni e gli interessi della famiglia Messina Denaro, si sviluppa a partire dagli anni ’70. L’Efebo di Selinunte e il Satiro di Mazzara del Vallo rappresentano solamente due fra i casi più noti di furti o tentativi di furto, come nel secondo caso, su commissione organizzati dalla nota cosca trapanese: è difficile, se non impossibile, conoscere precisamente il quantitativo di opere d’arte e di beni archeologici (beni decontestualizzati e privi d’identità, ma dall’ingente valore economico) che ci sono stati irrimediabilmente sottratti al territorio italiano.