Gianfranco Becchina, imprenditore di Castel Vetrano, è stato un trafficante d’antichità. Non si vogliono qui delineare la sua biografia o i suoi guai con la giustizia. Basterà segnalare come, indagato a lungo dalla Procura di Roma, non sia stato mai condannato, dal momento che il reato di cui veniva accusato è caduto in prescrizione. Oggi, dunque, egli si professa innocente. E tale va considerato in uno Stato di diritto
Questo tuttavia non può impedire in generale una considerazione: gli scavatori clandestini e i mercanti che agiscono illecitamente SONO dei fuorilegge.
Invito a guardare dal minuto 5.54 il video qui sotto:
È necessario che scavatori clandestini e mercanti d’arte raccontino la loro versione dei fatti, soprattutto se questa è inserita all’interno di una regia che si sofferma su bucoliche immagini di un signore avanti negli anni, che cammina per campi e uliveti, come un saggio contadino d’altri tempi? Di qui alla costruzione di una figura che da fuorilegge diventa eroe il passo è breve. Temo che i non addetti ai lavori, nel vedere questo servizio televisivo, abbiano avuto un impulso di simpatia nei confronti del “vecchietto”. E questo la giornalista avrebbe dovuto saperlo ed evitarlo.
Al Becchina è stato concesso, in modo estremamente fuorviante, dichiarare come prima frase: “Trovo CRUDELE se domani scavo e trovo un pezzo archeologico che io lo devo dare allo Stato”. Ecco, anche il Becchina trova crudeli le LEGGI DELLO STATO. E in più offre una sponda al più facile dei luoghi comuni, secondo il quale gran parte delle persone ritiene che l’impossessarsi di un manufatto archeologico sia cosa da niente, ritiene troppo crudeli le leggi sui beni culturali e tende a pensare che un reperto archeologico sia tutelato meglio in casa propria piuttosto che in un magazzino di un museo, delegittimando non solo il concetto di tutela così come garantita dall’art. 9 della Costituzione, ma anche il lavoro di tutte le persone che tutti i giorni, dopo anni di formazione, si occupano con abnegazione della salvaguardia del patrimonio culturale.
E che dire quando, a sfregio delle leggi del Paese in cui il Becchina sta rilasciando l’intervista, cambia le carte in tavola e risponde alla giornalista: “Che me ne frega dell’Italia”, lasciando intendere che in altri paesi è possibile quello che non si può fare da noi. Cosa peraltro falsa o quanto meno non del tutto veritiera. L’arte manipolatoria ha ancora effetto sull’ascoltatore attraverso il ribaltamento degli argomenti e l’idea di relatività delle leggi in base al paese di applicazione. Anche in questo caso, da parte della giornalista non vi sono rettifiche, non vi è alcun riferimento non solo alle ragioni etiche e morali o sociali sulla protezione del cultural heritage, ma neppure alle convenzioni internazionali in essere almeno dal 1970.
Anche su fatti acclarati e passati in giudicato, la giornalista ripete che “SECONDO l’accusa, Becchina AVREBBE acquistato migliaia di opere illegalmente…”.
L’uso del condizionale non fa bene alla verità dei fatti: mette in ombra e indebolisce gli argomenti esposti nella seconda parte del servizio (l’intervista ai carabinieri del Nucleo Tutela, così come del funzionario della soprintendenza). Becchina, i suoi gatti e la sua tenuta di campagna, le sue dichiarazioni senza alcun contraddittorio, montate al centro del servizio giornalistico, rimangono purtroppo nell’immaginario del telespettatore e veicolano ancora una volta l’immagine distorta e falsa del tombarolo che salva quell’antico vaso che lo Stato non sarebbe in grado di tutelare.
Tocca a noi riportare i fatti nel loro vera dimensione, iniziando a raccontarli come si sono realmente svolti. “Perché le parole sono importanti”, appunto.