Le conoscenze acquisite dallo studio di questo periodo, consentono di immaginare una condizione geografica diversa dall’attuale; la navigabilità del Celone va raccordata a quella degli altri fiumi, il Candelaro ed il Cervaro, che costituivano il collegamento primario fra centri come Arpi, Cupola-Beccarini e Salapia. Ignote sono le ragioni che resero necessaria, nel VI a.C., l’edificazione di mura imponenti per cingere, unendosi al corso del Cervaro, il vasto insediamento; sta di fatto che da quel momento, le comunità locali, pur essendo distanti, si aggregarono tra loro occupando un territorio pari a circa 200 ettari.
Le testimonianze archeologiche ricavate da alcuni saggi nel 1980, hanno portato alla luce reperti ceramici dell’area magnogreca, a conferma dell’apertura del centro dalla metà del VI a.C., oltre che all’area campana etruschizzata, alla Magna Grecia.
Inoltre, la scoperta di numerosi impianti funerari ipogei di pregevole fattura, databili al IV e III secolo, fa pensare che in questo intervallo di tempo Arpi abbia vissuto, grazie ad una ricca aristocrazia terriera, il suo momento di massima fioritura.
Per l’ età Romana invece, le fonti e i dati risultano scarsi; sono forse attribuibili a questo periodo due tombe a camera, ma che, con maggiore probabilità, appartengono ad epoche più antiche poi riutilizzate per sepolture ad incinerazione.
Gli itinerari tardoantichi conservano, con l’insistenza del centro, il ricordo della sua importanza ancora in età tarda. Sicuramente limitata nelle sue forme di sviluppo per l’impaludamento del Celone, la città continuava ad avere una funzione nodale tra l’entroterra ed il mare, ma il ruolo di Arpi in questi secoli appartiene ad un capitolo ancora interamente da indagare.
L’antica Arpi oggigiorno insiste su un’area a 8 km da Foggia, nel Tavoliere delle Puglie. Essa costituisce il campo di una delle devastazioni del patrimonio archeologico più capillare e selvaggia di tutti i tempi; tale fenomeno la accomuna a molti altri siti della stessa regione, trovando eguali in Italia solo nei bacini di tradizione dello scavo clandestino come l’Etruria, la Campania e la Sicilia.
Questa vastissima zona dauna avrebbe potuto trarre vantaggio dal fatto che il suo territorio non si sia conservato come centro a continuità di vita, risparmiando così i problemi della convivenza tra antico e presente che affliggono altre città pugliesi come Taranto, Brindisi e Canosa.
Inoltre l’attività di scavo clandestino, una volta rispettosa dei tempi dell’agricoltura, non ha avuto negli ultimi anni né regole né limiti, stagionali o giornalieri: ad esempio le norme CEE per regolamentare le produzioni cerearicole hanno fatto sì che terreni altamente produttivi dal punto di vista archeologico siano rimasti anche per cinque anni successivi senza coltivazioni e quindi a disposizione continua della ricerca illegale.
Lo scavo clandestino ad Arpi è incentivato principalmente dalla ricchezza delle necropoli, numerose e localizzate in luoghi diversi; esse si caratterizzano per la deposizione di materiali metallici e soprattutto di vasi di classi ceramiche di grande pregio particolarmente richiesti dal mercato antiquario.
Inoltre non viene rispettata neanche la struttura architettonica delle tombe, anch’essa commercializzata una volta immessa nel traffico clandestino.
Le devastazioni ad Arpi hanno inizio nei primi anni ’70 per proseguire recidivamente fino alla metà degli anni ’80, epoca in cui viene toccato l’apice di tale fenomeno e periodo in cui le organizzazioni di scavo diventano vere e proprie società per delinquere.
Da circa trent’anni dunque Arpi è stata di fatto consegnata nelle mani degli scavatori clandestini che hanno potenziato le loro attività illecite lasciando senza strumenti di intervento gli organismi preposti alla prevenzione, alla ricerca e alla conservazione. Nel settembre del 1980, grazie alla segnalazione di un appassionato di antichità arpane, il sig. Aldo Salvini, la Soprintendenza viene a conoscenza di una tomba a camera di importanza monumentale devastata dagli scavatori di frodo; l’interesse da parte della stessa Soprintendenza portò alla constatazione di tale fenomeno e ad un progetto di salvaguardia e recupero del sito da svolgersi nel corso degli anni.
Un intervento preliminare risale all’estate del 1985, seguito da una consistente campagna di scavo avvenuta nel 1989; l’intervallo tra le due fasi di ricerca è da attribuire alla difficoltà di disporre della strada di accesso al terreno, alla inesistenza di un cospicuo finanziamento e alla opportunità di attuare un progetto di ampio respiro.
Lo scavo del 1989 nell’Ipogeo della Medusa, denominato così per la rappresentazione sul blocco centrale del frontone della testa della famosa Gorgone, fu eseguito da una consistente disponibilità di mezzi che furono utilizzati per la rimozione dall’ingresso della tomba dei blocchi di copertura del vestibolo, già divelti dall’ intervento dei tombaroli negli anni precedenti.
La tomba della Medusa
La tomba a camera è costruita con blocchi regolari di tufo; il dromòs, a piano inclinato lungo circa dieci metri, presenta le pareti realizzate differentemente su i due lati. Nel suo tratto iniziale si nota l’impiego di qualche coppo a sezione semicircolare ribassata; sullo zoccolo poggiano grandi blocchi regolari su tre filari nel tratto finale, nel mediano su due.
Sulle pareti sono stesi quattro strati di intonaco, dei quali solo il più antico presenta resti di colore scuro omogeneo. Il tratto finale del dromòs prossimo alla fronte presenta un’alta zona chiara in basso e una zona superiore di colore scuro. Il pavimento, a piano inclinato, presenta tre livelli di rifacimento: l’inferiore è ricavato nel banco naturale, i due successivi invece sono costituiti da strati di calcare intervallati da terreno; nello strato intermedio sono stati rinvenuti frammenti a vernice nera e un peso da telaio.
Nel banco naturale, prima della sistemazione dell’accesso all’ impianto funerario, era alloggiata una tomba a grotticella distrutta al momento della costruzione del dromòs, conservando però sepoltura e corredo.
Le fronte tetrastila è costituita da quattro colonne di tufo cilindriche poggianti su basi di tipo attico, le laterali non interamente a vista, con soglia continua, sono sormontate da capitelli di tipo ionico trasversale figurati; sostenuto da questi vi è un architrave, forse dipinto, sormontato da un fregio dorico e dal frontone con la testa di Medusa. La porta a cui conduce il lungo dromòs è a due ante, ciascuna di forma rettangolare, in pietra calcarea con residui policromi gialli, neri e rossi. Il vestibolo è a pianta rettangolare con pareti costruite e dipinte: la decorazione pittorica presenta dal basso verso l’alto una zona chiara, succeduta da una rossa e da una cornice in stucco a dentelli. L’ architrave, probabilmente dipinto e trafugato è continuo anche su una delle pareti del vestibolo e presenta una scena figurata di cerbero. La copertura, sconvolta dallo scavo abusivo, era originariamente ottenuta dall’accostamento di blocchi trasversali all’architrave; l’accesso all’interno è chiuso dalla porta litica dipinta.
L’ interno si sviluppa in tre ambienti: uno centrale, dell’altezza di circa 3 metri e largo 2 e mezzo, collegato a due celle laterali, rettangolari con due lati leggermente concavi. Il soffitto è a volta a botte, con blocchi disposti nel senso della lunghezza.
Internamente la porta è fiancheggiata da capitelli di tipo ionico , privati della parte figurata con testa femminile dall’ intervento dei tombaroli. Il pavimento infine era in cocciopisto con emblema centrale policromo.
L’indagine effettuata dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia nel 1989 constatò che lo scavo clandestino aveva interessato inizialmente la parte superiore della tomba, con l’apertura praticata nella volta della cella e nel vano di accesso; successivamente l’opera furtiva era passata alle zone più interessanti della struttura.
Furono asportati il frontone, i capitelli e l’architrave.
Alcune delle componenti dell’ipogeo trafugate furono recuperate, fortuitamente, dai carabinieri della caserma di Schiava (Av) che, intervenuti per un incidente nella provincia campana, rinvennero, in una delle autovetture, diverse strutture architettoniche proprie della Tomba della Medusa.
Da questo evento le autorità ebbero un interesse maggiore per la struttura funeraria che fino ad allora era del tutto abbandonata. Si cercò di effettuare un recupero archeologico della zona dell’Ipogeo, con un progetto di musealizzazione dell’area che rientrava nel programma di “umanizzazione” della rete autostradale.
Dal 1989 quindi il monumento non è stato reinterrato, ma sottoposto ad interventi di valorizzazione e fruzione.
Quello di Arpi e nella fattispecie l’Ipogeo della Medusa, è solo uno dei casi emblematici per la Daunia e per l’intera Puglia; l’impostazione totale sull’area, a partire dal 1987-1988, del vincolo archeologico ai sensi della legge 1089/39, ha consentito una protezione solo relativa della zona.
C’è da dire piuttosto che non si sono applicate strategie preventive nei confronti dello scavo abusivo quali l’esproprio dei suoli e gli interventi di scavo su scala estensiva; non si è compreso che anche la disoccupazione che si riversa nello scavo abusivo avrebbe potuto e potrebbe ancora essere compensata da un ampio impiego nelle voci di lavoro che ruotano attorno ad un serio progetto di valorizzazione di un’area archeologica.