Il nome Josef Sudek (1896 – 1976) dirà poco a molti di noi. Forse questo fotografo cecoslovacco sarebbe caduto nel dimenticatoio se la Grande Guerra non gli avesse tolto il braccio destro. Prima del 1915 aveva iniziato un’onesta carriera da rilegatore, ma dopo, sebbene avesse avuto la fortuna di uscirne vivo, non avrebbe potuto fare alcun tipo di lavoro con una tale menomazione. Ecco che quindi si trasferisce in una Praga massacrata dai bombardamenti ed inizia un percorso di ricostruzione personale, che sembra scorrere parallelo ai faticosi interventi urbani post-bellici. Grazie ad un amico si avvicina alla tecnica fotografica fino alla decisione di iscriversi alla Scuola di Arti Grafiche (1922). Acuto osservatore degli effetti luministici della natura e delle architetture, si specializzerà su temi neoromantici e si farà conoscere soprattutto per questo stile. Ma esiste una produzione più intima, perché a lui manca il braccio destro come a Praga mancano palazzi e monumenti, per una causa comune: la guerra. È ospite dell’Istituto per Invalidi di Guerra, i suoi compagni sono informi sopravvissuti come lui. Questa dolorosa fratellanza emerge dai dettagli delle circa 400 foto che Josef Sudek fece dopo il terribile incendio dell’8 maggio 1945, effetto dell’offensiva tedesca. Nelle sue opere vi è contemporaneamente un senso di impotenza ed una ricerca estetica nel disordine della guerra inflitto ai simboli della cultura. Il colpo di grazia ad una città già in briciole arrivò per errore: gli alleati bombardarono Praga invece di Dresda. Emblema di questo nuovo trauma il bombardamento del monastero benedettino di Emmaus, una sorta di “Montecassino” praghese.
40 sono le foto esposte alla mostra, divise in 3 sezioni: Piazza della Città Vecchia e Municipio, il deposito di statue e campane da fondere, confiscate a Maniny, le rovine del Monastero di Emmaus.
A colpire il visitatore è soprattutto la seconda sezione: il deposito di metalli allestito sotto al ponte Libensky dai nazisti, in modo che potessero essere imbarcati verso le fonderie tedesche, raccoglieva tutto ciò che si potesse trasformare in armi: campane di tutte le epoche e di tutte le dimensioni, statue di monumenti pubblici, decorazioni di palazzi, ecc. Alcuni corpi di bronzo scomposti, accatastati in modo casuale e penoso conservano la fierezza nei volti dei politici e dei letterati nazionali, nelle ali spiegate delle vittorie liberty. Pochi superstiti e poche braccia anche tra di “loro”: quello che Sudek documenta è ciò che rimane del milione e mezzo di tonnellate di metalli persi per sempre.
Il deposito dei metalli a Maniny (Foto J.Sudek. Fonte: www.sudekproject.cz)
53 scatti del fotografo accompagnati da testi esplicativi confluirono in un calendario settimanale del 1946 prodotto dalla casa editrice di Vaclav Polacek con un titolo più che esauriente: “Calendario di Praga 1946. Perdite culturali di Praga. 1939-1945”. Un video nella mostra consente di vederne un esemplare mentre viene sfogliato. In un primo momento l’accostamento città distrutta/agenda appare stridente, ma poco più tardi, mentre il video scorre e con lui le pagine, ci si rende conto dell’assoluta modernità di questa iniziativa e di quanta tenacia ebbe questo popolo.
La mostra è visitabile fino al 7 ottobre 2018: si tratta di un progetto transnazionale (www.sudekproject.cz) nato su impulso del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca sul tema della documentazione fotografica delle opere d’arte da parte dell’artista, il cui archivio si trova all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca. Prossima tappa, Parigi.