Ciò che interessa maggiormente di questo episodio, con l’immediata contestazione dei lavori e il tempestivo risarcimento degli ambienti, è l’interesse alla salvaguardia degli affreschi di Raffaello, già riconosciuto all’epoca (cosa tutt’altro che scontata) come ‘il’ magister, rinunciando al più utile ammodernamento stilistico.
Nel XVI secolo, quindi, nel Palazzo Vaticano, entravano in gioco nuove logiche di tutela delle opere d’arte in rapporto a necessità pratiche, funzionali e di rappresentanza. Le stesse dinamiche le ritroviamo oggi nei Musei Vaticani, uno dei complessi espositivi più importanti al mondo che ospita circa 6 milioni di utenti all’anno. Numeri impressionanti, entusiasmanti, che poche altre istituzioni internazionali possono vantare ma che al tempo stesso pongono però molteplici e talora imprevedibili sfide che i grandi musei sono chiamati tempestivamente ad affrontare: dalla salvaguardia degli ambienti alla sicurezza, dalla manutenzione ordinaria e straordinaria alla gestione dei flussi.
Quanto incide quindi il turismo di massa sulla conservazione delle opere d’arte nei musei? E cosa fare per prevenire conseguenze disastrose non solo per gli oggetti ma anche per gli ambienti in cui sono esposti e conservati?
Quale luogo migliore per parlarne che ai Musei Vaticani, in una giornata di studi promossa e curata da Barbara Jatta e Salvatore Settis dal titolo La conservazione preventiva nei grandi musei. Strategie a confronto. L’incontro del 12 ottobre, tenutosi nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani, ha coinciso con la celebrazione del primo decennio di attività dell’Ufficio del Conservatore voluto nel 2008 da Antonio Paolucci e ha avuto lo scopo di promuovere una riflessione sui temi della gestione del turismo di massa e della conservazione programmata del patrimonio, coinvolgendo alcuni tra i direttori dei maggiori musei del mondo, da Martinez del Louvre a Finaldi della National Gallery di Londra, da Faus del Museo del Prado a Potts del Getty di Los Angeles, che hanno descritto strategie operative o casi specifici affrontati nell’ambito del proprio ruolo.
Parlando di conservazione preventiva, un tema che i Musei Vaticani hanno posto in posizione privilegiata nelle proprie strategie, Settis ha tenuto a ricordare che non siamo padroni del nostro patrimonio culturale ma i suoi custodi in nome e per conto delle generazioni future.
Ma quando 6 milioni di visitatori si traducono in 12 milioni di mani che toccano o possono toccare, di piedi che sfregano e logorano, in sbalzi di temperatura, umidità e anidride carbonica continui, in dispersione di polveri e inquinanti dall’esterno, che soluzione adottare? La risposta può essere solo la conservazione preventiva che comprende tutte le misure e azioni volte costantemente a limitare il futuro deterioramento degli oggetti e degli ambienti che li custodiscono, e ridurre significativamente anche il numero e l’invasività degli interventi di restauro. E’ un approccio concettuale alla conservazione che implica un cambiamento di mentalità, da come a perché le cose dovrebbero essere conservate. Che cosa determina questo cambiamento e perché in un paese come l’Italia manca una strategia per la protezione del patrimonio culturale che abbracci una visione globale a lungo termine, nonostante ne abbiano discusso in tanti a partire da Urbani fino a Zanardi, passando per Settis?
Durante gli interventi dei direttori, talvolta squisitamente autoironici, sono emerse chiaramente le enormi differenze storiche e culturali delle istituzioni rappresentate (dalla originaria conformità o meno delle loro sedi rispetto alle esigenze espositive, alla gestione delle collezioni, dai vari scopi sociali assolti alle modalità di accesso del pubblico), oltre le più disparate criticità affrontate quotidianamente (dall’umidità della Senna che rappresenta una minaccia costante ai depositi del Louvre, alla pioggia che nei grandi musei londinesi, da sempre gratuiti, porta ad un aumento esponenziale del numero dei visitatori; al sole, croce e delizia della reggia di Versailles) e le soluzioni innovative adottate per risolverle (come le basi antisismiche per i reperti del Getty di Los Angeles).
Risulta evidente che, al di là di alcuni aspetti comuni, ogni museo si ritrova ad avere problemi specifici che prima di essere affrontati devono necessariamente essere studiati, e nel più breve tempo possibile. Non esiste un ricettario con soluzioni pronte all’uso; esistono dei casi studio, delle buone pratiche, adottabili e declinabili all’occorrenza ma, come ribadito da Greco del Museo Egizio di Torino, è necessario legare tutela e ricerca perché se si comprende ciò che si ha davanti, sia esso un oggetto, un edificio, un ambiente naturale o addirittura una città (come nel caso di Venezia), più facilmente potremo conservarlo e trasmetterlo alle prossime generazioni.
Ed ecco un déjà-vu.
Già negli anni ‘70, Giovanni Urbani affermava che la conservazione programmata – di fatto – è nata per farsi “riduzione programmata delle cause di degrado”, concetto alla base del progetto di tutela da lui elaborato. Urbani si dichiarò a favore di una politica di conservazione vista non più come atti singoli di restauro, ma come un processo continuo, che deve partire dalla conoscenza delle opere sul territorio, dal loro stato di conservazione, dai possibili rischi ai quali sono sottoposte, così da poter agire sia in via di prevenzione, che di una manutenzione da programmare ragionevolmente nel tempo. Dal suo pensiero, incentrato sul grande tema della conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, cioè sull’attuazione di un’opera razionale e coerente di prevenzione dai rischi ambientali e di manutenzione ordinaria, nacquero la Carta del Rischio e Piano-pilota per la conservazione programmata dei Beni culturali in Umbria che, seppur logicamente e strategicamente fondati, non hanno trovato seguito istituzionale, in Italia come altrove.
Se nel nostro Belpaese gli addetti ai lavori avessero accolto, o almeno discusso, le proposte formulate da Urbani forse, attraverso il permanente controllo e l’adeguamento delle condizioni ambientali, si sarebbero rese più durature le azioni che espletiamo per la conservazione delle opere d’arte, privilegiando quella riduzione programmata delle cause di degrado, anche attraverso un corretto sviluppo ecologico dei processi di salvaguardia e ne saremmo stati gli antesignani. Sviluppo che, tra l’altro, ci avrebbe permesso pure di cominciare a considerare che le “cause di degrado” maturano e si sviluppano nel territorio, e ci avrebbe permesso di non arrivare all’indiscriminata urbanizzazione di oggi proprio perché sarebbe stato ordinario pensare e vivere il territorio con la coscienza dell’opportunità di non distruggere, ma al contrario di valorizzare i segni delle culture che, nei secoli, ne hanno maturato le forme. Così facendo, si sarebbe dotata l’Italia di un modello di sviluppo socio-economico unico al mondo nel porre come premessa al generale progresso una composizione armonica di conservazione e sviluppo. Un progresso che certamente doveva tenere conto della necessaria crescita industriale, infrastrutturale e urbanistica del Paese, avendo tuttavia come primo e fondamentale punto di riferimento il fatto che, in Italia, il patrimonio artistico è «componente ambientale antropica, altrettanto necessaria, per il benessere della specie, dell’equilibrio ecologico tra le componenti ambientali naturali».
Così però non è stato, dati anche i persistenti problemi teorici e materiali del settore dei Beni Culturali. Basti guardare al modo in cui vengono gestite le cosiddette ‘città d’arte’, considerate alla stregua di motori di sviluppo ed orientate alla promozione turistica del patrimonio senza alcuna reale preoccupazione per la salvaguardia, continuamente compromessa proprio dal turismo di massa, per capire che gli enti locali non hanno recepito ciò che Urbani auspicava ormai mezzo secolo fa.
Stupisce che al recente Congresso biennale dell’IIC – International Institute of Conservation, tenutosi a Torino a metà settembre, dal titolo Preventive Conservation: The State of the Art, le problematiche presentate riguardavano sostanzialmente la conservazione preventiva di entità museali o edifici storici, il che è assolutamente legittimo ma ci si sarebbe aspettato anche altro visto il tema e il luogo dell’incontro. L’unica voce fuori dal coro è quella di Giorgio Bonsanti che giustamente sottolinea, sulle pagine de Il Giornale dell’Arte di ottobre, come soprattutto in Italia le criticità maggiori concernono il territorio e l’ambiente, vittima del disinteresse di pubblico e politica a cui spetterebbe il dovere costituzionale di provvedere. E’ questa la nota dolente: l’aspetto politico-sociale della conservazione preventiva non viene affrontato, neanche negli incontri per addetti ai lavori.
E se la situazione generale ‘in superficie’ è ferma ai blocchi di partenza, pensiamo a ciò che attiene le innumerevoli opere ‘invisibili’, di cui si ignorano spesso composizione e quantità, stipate nei depositi dei musei. L’argomento, già parzialmente affrontato in occasione del convegno Musei archeologici e Paesaggi culturali. I 70 anni di ICOM Italia, merita una riflessione approfondita, ma è interessante sottolineare che durante il convegno romano è emerso qualcosa di nuovo. Sulla scia del collega Greco, che a Torino ha aperto le Gallerie della cultura materiale (trenta armadi sul soppalco del secondo piano del museo in cui sono esposti oggetti rispolverati, mai mostrati finora, precedentemente custoditi nei magazzini del Museo Egizio), Gabriel Zuchtriegel ha annunciato l’apertura dei depositi di Paestum ai visitatori come offerta quotidiana. Il nesso con il tema della conservazione sta nel fatto che la fruibilità e la trasparenza dei depositi indurrebbe a ripensarli e a renderli funzionali anche sotto l’aspetto della loro sicurezza e salvaguardia. Inoltre lo scopo di Zuchtriegel è lo stesso auspicato da Greco ossia che i depositi diventino luoghi accessibili al pubblico e a quanti svolgono ricerca. Non più luoghi polverosi, inaccessibili, disordinati e pericolosi per le opere d’arte ma sempre più somiglianti ad archivi e biblioteche.
Oggi più che mai quindi la conservazione del patrimonio richiede sinergia e regolarità di applicazione, protocolli scientificamente testati, impegno di professionalità correttamente formate, verifica dei risultati, certezza di finanziamenti. Perché il tema dei beni culturali ruota ancora intorno a dichiarazioni d’intenti utili a produrre scaffali di libri, spesso inutili, e discussioni sul nulla, frequentemente concluse con un sempreverde ‘armiamoci e partite’.
Teniamo ben a mente il monito di Settis: «È inutile continuare a ripetere, con Dostoevskij, che la Bellezza salverà il mondo: la Bellezza non salverà nulla, se noi non salveremo la Bellezza!»
Approfondimenti:
– G. URBANI, Intorno al restauro, a c. di B. Zanardi, Skira, Milano, 2000
– B. ZANARDI, Il restauro. Giovanni Urbani e Cesare Brandi. Due teorie a confronto, Skira, Milano, 2009
– B. ZANARDI, Conservazione, restauro e tutela – 24 dialoghi, Skira Editore, Milano, 1999
– R. BOSCHI, C. MINELLI, P. SEGALA KERMES (a cura di), Dopo Giovanni Urbani. Quale cultura per la durabilità del patrimonio dei territori storici?, in Quaderni, Nardini Editore, Firenze, 2009
Venerdì 23 novembre 2018 ©Tutti i diritti riservati
Diplomata in Scultura al Liceo Artistico Statale di Benevento, ha proseguito i suoi studi in Conservazione e restauro dei beni culturali presso l’Università degli Studi di Urbino conseguendo l’abilitazione come restauratrice. È specializzata in Arts Management e in Archeologia giudiziaria e crimini contro il Patrimonio Culturale. Co-founder dell’Associazione Art Crime Project, editore di The Journal of Cultural Heritage Crime. Membro del Direttivo Associazione Massimo Rao, è responsabile della Pinacoteca Massimo Rao. Vive e lavora a San Salvatore Telesino (BN).