“Ho paura, naturalmente, so di essere in pericolo, e tuttavia provo un senso di serenità. Ho fatto tutto quel che potevo per favorire il dialogo fra culture diverse.”
È proprio con le parole di Khaled al-Asaad, barbaramente ucciso dall’Isis nel tentativo di difendere il sito archeologico di Palmira di cui era direttore da oltre 30 anni, che si apre la mostra “Anche le statue muoiono. Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo” ospitata fino al 6 gennaio nella sala mostre a lui dedicata presso il Museo Egizio di Torino.
Attraverso l’incontro degli sguardi di nove artisti, il Museo Egizio di Torino sceglie di aprirsi per la prima volta all’arte contemporanea allo scopo di rispondere ad alcuni quesiti circa il valore del patrimonio culturale nella costruzione dell’identità di un popolo, il ruolo dei musei nella conservazione delle opere e il valore della riparazione in seguito a una “ferita” inflitta al patrimonio.
L’esposizione convoglia la riflessione e cerca di rispondere a questi interrogativi attraverso il dialogo tra reperti antichi e opere di artisti contemporanei, molti dei quali originari di Paesi in cui i conflitti hanno messo a rischio e talvolta distrutto il patrimonio, come Iraq, Iran e Libano.
La mostra diffusa è frutto dell’impegno sinergico di quattro importanti istituzioni torinesi: Museo Egizio, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Musei Reali, Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino, nell’elaborare un progetto scientifico corale che ripercorra il tema della vulnerabilità, della distruzione sistematica e consapevole del patrimonio culturale e – contestualmente – dell’importanza della sua conservazione e tutela.
Il percorso espositivo si snoda attraverso un dialogo tra i reperti antichi e le opere contemporanee dando vita a un dinamismo coinvolgente che invita il visitatore alla riflessione su più tematiche.
Approcciandosi al percorso espositivo vengono immediatamente stimolati i primi interrogativi concentrati sul tema delle distruzioni e del saccheggio. Cosa spinge uomini e popolazioni a distruggere il patrimonio culturale di altri popoli? Ci si interroga sulla bramosia che comporta verosimilmente un latente tentativo di mistificazione dell’identità altrui e un conseguente desiderio di annichilimento della memoria.
Particolarmente evocativa a riguardo ci appare l’opera di Simon Wachsmuth, “Signatures”, che raccoglie le firme lasciate dai viaggiatori occidentali sulla Porta di tutte le Nazioni nel sito archeologico di Persepoli in Iran. Partendo dal presupposto che lasciare una firma sia metafora di un atto di appropriazione, Wachsmuth pone l’accento sulla riflessione circa l’ambiguità storicamente sottesa a discipline come storia e archeologia che, sin dalla loro origine, furono strumentalizzate secondo precisi interessi politici, economici e militari.
Grazie all’intreccio fra reperti antichi e opera di arte contemporanea è possibile accorgersi di come le odierne pratiche di distruzione e saccheggio richiamino ad illustri precedenti in altri contesti storici, geografici e ideologici.
Un’opera su tutte per illustrare visivamente il concetto può essere “Ferite esposte” che evidenzia i segni dell’azione distruttrice dei saccheggiatori antichi che si sono accaniti sulla statua, attribuita al Medio Regno, raffigurante un personaggio di nome Upuautemhat, ritrovata nella tomba di un alto dignitario di corte.
Proseguendo appare evidente lo stimolo che invita alla riflessione su una seconda tematica, quella del potere delle immagini considerate come veicoli di messaggi, significati e strumenti di potere.
Con l’opera “Anamnesi”, Mimmo Jodice ha voluto testimoniare la sua predilezione per i dettagli dei volti delle statue e dei mosaici, che pone in evidenza allineando i ritratti secondo un orizzonte ideale formato dagli sguardi delle sculture. La fortissima potenza espressiva ed evocativa dell’opera, capace di creare suggestioni estremamente coinvolgenti nel visitatore, permette di comprendere come il potere delle immagini sappia azzerare le distanze temporali fra le epoche, riconferendo dinamismo e vitalità ai protagonisti del passato.
Il percorso espositivo infine si focalizza su un altro punto cardine, il ruolo del Museo, tradizionalmente considerato luogo di conservazione di un patrimonio di proprietà dell’intera umanità. L’esposizione suggerisce, al contrario, di prendere in considerazione un nuovo punto di vista che mette in dubbio la liceità del ruolo di conservazione del museo per soffermarsi e indagarne piuttosto la valenza predatoria. Il museo, conservando reperti ed elementi del patrimonio, fondamentalmente li sottrae a quelli che – contestualmente parlando – ne sono i legittimi detentori. Chiaramente quest’analisi, che vede i musei in una posizione liminale tra “predatori” e “conservatori”, si richiama alle responsabilità passate e presenti dell’Occidente nei confronti del patrimonio artistico, specialmente nei riguardi del Medio Oriente.
A parlarcene è il video “Petrified” – opera di Ali Cherri – artista libanese attivo fra Beirut e Parigi, che sceglie di illustrarci metaforicamente il valore “pietrificante” della museologia rappresentata da un gufo – il gufo reale del deserto (esemplare diffuso in Medio Oriente ed Africa Settentrionale) – che viene ripreso mentre osserva con avidità le statue presenti nelle vetrine del Museo della Civiltà Islamica, negli Emirati Arabi Uniti. Come ci ricorda la voce narrante dello stesso autore, il gufo rappresenta il rischio di feticizzazione delle opere di cui sono responsabili le discipline dell’archeologia e della museologia che, nel loro intento di conservazione e tutela, in realtà sottraggono i manufatti al sito originario privandoli così della loro storia e contesto.
Sulla scia delle emozionanti suggestioni e riflessioni suscitate dalla video installazione di Cherri, appare straordinaria la potenza dell’altra sua opera presente nella mostra: “Fragments”. Con quest’opera, che vede un tavolo retroilluminato raccogliere una selezione di reperti archeologici collocati in modo da apparire privi di ombra, l’artista ha voluto focalizzare l’attenzione sul rischio di dispersione di origine, provenienza e contesto cui sono esposti gli oggetti acquistati attraverso case d’asta o traffici illeciti. L’assenza di ombra, didascalia o informazione disarma e svilisce le opere che ci appaiono così svuotate di storia e significato.
La riflessione indotta dalla potenza comunicativa dell’opera, ci porta a riconsiderare il ruolo dei musei, interrogandoci su come il principio d conservazione\prevenzione da cui traggono fondamento possa interloquire con la loro – innegabile – complicità in qualità di custodi di reperti talvolta depredati e decontestualizzati come ribadiscono le parole dello stesso Christian Greco, curatore della mostra oltre che direttore del Museo Egizio: “[..] è lecito e doveroso domandarsi che ruolo abbia l’istituzione museale – luogo di conservazione per eccellenza, destinata a farsi testimone dell’arte o delle culture dei secoli passati – in questo processo. I musei concorrono alla morte delle opere che conservano nelle loro collezioni o sono l’ultimo baluardo perché esse possano sfuggire alla fine di un’esistenza messa in pericolo da una miriade di fattori [..] ?”
L’impegno nel recupero della dimensione biografica dell’oggetto risulta fondamentale per tentare di raccontare al visitatore non solo una storia, ma le molteplici possibili storie di cui l’oggetto può essere stato protagonista.. dal momento della sua creazione al suo abbandono, al degrado, dal suo ritrovamento alla musealizzazione.
Proprio sulla scia di queste riflessioni può inserirsi la lettura dell’opera di Kader Attia. L’artista, attraverso le due opere “Untitled (Sacred)” e “Untitled (Violence)” che prevedono una composizione di frammenti colorati (verosimilmente appartenenti ad una vetrata o un vaso) disposti in maniera disordinata su una superficie retroilluminata, vuole alludere in prima battuta alla furia distruttrice contro il patrimonio.
Ma Attia non si focalizza sul tentativo di recupero, restauro, neppure ricostruzione dell’opera, anzi concentra la sua missione proprio nel rendere la distruzione stessa un’opera d’arte. Questo lavoro offre la possibilità al visitatore di allargare la prospettiva a una riflessione sulle molteplici interpretazioni del concetto di ferita, errore e riparazione.
Si pongono a confronto infatti una prospettiva extra-occidentaleche individua nell’esposizione di una ferita il miglior modo per ottenerne la guarigione e che, attraverso l’esaltazione dei punti di sutura e cucitura, porta a rivelare l’intera storia e il valore di chi (o cosa) ne è protagonista… e una prospettiva occidentale che vede come unica soluzione (e riparazione) l’annullamento, la cancellazione, la negazione della ferita. Per rispondere a un ideale di perfezione il più possibile omologato, la ferita non deve essere visibile né ricordabile con risultato imprescindibile la perdita della memoria, della storia e del valore dell’esperienza del soggetto fino a – in casi estremi – l’annichilimento del soggetto stesso.
La mostra “Anche le statue muoiono” investe sulla potenza e la capacità dell’arte stessa di produrre e stimolare nuove riflessioni, ponendosi un duplice obiettivo. In prima battuta si mira ad informare e mostrare al visitatore lo stato attuale e le conseguenze delle recenti e violente devastazioni che hanno segnato il patrimonio culturale di molti paesi, e in particolar modo si persegue un obiettivo di sensibilizzazione affinché – proprio attraverso uno stimolo al dialogo diacronico fra culture e prospettive – si possa giungere ad una riconsiderazione dell’importanza della tutela del patrimonio, eredità e memoria da proteggere e trasmettere.
Catalogo mostra: Franco Cosimo Panini Editore
Vedi anche:
https://museoegizio.it/esplora/mostre/anche-le-statue-muoiono/
http://fsrr.org/mostre/anche-le-statue-muoiono-conflitto-e-patrimonio-tra-antico-e-contemporaneo/
Martedì 15 gennaio 2019