Il caso Banfi all’UNESCO. Una questione di cultura?
Nell’epoca del populismo dilagante, nato per reazione allo smarrimento del ceto medio e dei giovani arrivati sul mercato del lavoro dopo la crisi economica del 2008, vediamo delegittimare in maniera brutale istituzioni e valori su cui si fonda la nostra società e la cultura italiana. La nomina di Banfi a rappresentante nella CNI per l’UNESCO, ad opera del Ministro Di Maio, ne è un esempio. Oppure è l’ennesima mossa per distogliere l’attenzione da ben altri temi? “Una parola è troppa e due sono poche!”
Un tempo riservato solo ad una ristretta cerchia di privilegiati, lo studio è oggi un diritto che abbiamo conquistato a suon di battaglie. Le ultime generazioni sono cresciute nella consapevolezza che avere un’istruzione completa avrebbe consentito loro di ottenere un lavoro migliore, una qualità della vita più alta e uno status sociale che i nostri nonni potevano solo sognare. «Studia, così diventerai qualcuno», ci dicevano.
La parola investitura rimanda a tempi lontani, a quando, in epoca feudale, veniva conferita a un vassallo una dignità o una carica da parte di un’autorità superiore, dietro giuramento di fedeltà. L’abbiamo sentita ripetere spesso però qualche giorno fa dall’attore comico Lino Banfi in apertura dell’evento del Movimento5Stelle su reddito di cittadinanza e quota 100, quando si è ritrovato sorprendentemente “investito” della responsabilità di rappresentare l’Italia in Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO in quota al Ministero dello Sviluppo Economico.
È facile immaginare non solo lo stupore dell’attore, ma anche di tutti coloro che, a vario titolo, ruotano attorno al mondo dei beni culturali e conoscono l’importanza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, fondata nel 1945 per promuovere il rispetto universale per la giustizia, per lo stato di diritto e per i diritti umani e le libertà fondamentali.
Già testimonial dell’UNICEF, Banfi sarà un membro dell’Assemblea della CNI per l’UNESCO nominato dal MiSE in sostituzione di Folco Quilici e, in quanto tale, potrà dire la sua in merito alle strategie generali della Commissione in stretto raccordo con la Rappresentanza Diplomatica Permanente d’Italia presso l’UNESCO.
Il protagonista di tante commedie all’italiana si ritrova a sostenere un ruolo (potenzialmente) impegnativo, in considerazione del fatto che l’Italia conta ben 54 siti patrimonio dell’umanità, 9 entità di patrimonio immateriale, 10 geoparchi, 17 riserve della biosfera, 9 città creative, 29 cattedre, 2 learning city.
Ciò che ci si chiede, al di là della apprezzabilità o meno delle scelte lavorative di Banfi, è cosa potrà mai offrire in sede UNESCO una persona che, al momento della nomina, esordisce dicendo: «…che c’entro io con la cultura?».
Ecco.
Perché è stato scelto proprio lui, interprete di personaggi dall’italianità stereotipata, tra tanti più autorevoli e maggiormente consci delle responsabilità che tale carica comporta? Sono questi i riferimenti culturali degli attuali governanti, Oronzo Canà e nonno Libero?
È lo stesso Banfi a fornirci l’assist dichiarando: «Credo che le commissioni, fino ad ora, in UNESCO, si siano fatte con persone che sono plurilaureate in questo, in quell’altro, che conoscono bene la geografia, i posti, i siti, gli ipogei… tutte queste cose che io non so. Io voglio solo portare un sorriso dovunque, in qualunque modo, anche nei posti più seri».
Quanto poco conta il merito rispetto ad ostentate virtù come onestà, umiltà ed una insindacabile buona volontà? La fierezza di essere “ignoranti”, dei piani bassi, “vicini al popolo”, dà la sicurezza di non dover dimostrare nulla e la giustificazione di averci almeno provato.
La cultura è il nemico da combattere con una presunzione degna del peggiore qualunquismo. Non si cerca più di stare al passo con i più bravi, per evitare brutte figure, non ci si mette in gioco cercando di perfezionare il proprio sapere o di acquisirne nuovi.
No.
Si preferisce sbeffeggiare la competenza e liquidare lo studioso ad un “professorone” spocchioso che non capisce i problemi della povera gente.
Nel mondo di oggi, il “sorriso” che Banfi vuole portare nei “posti seri” conta più di quel pezzo di carta conquistato con fatica e sacrificio dopo aver sgobbato per anni sui libri. La simpatia diventa il presupposto per essere qualcuno, il pre-requisito dell’ignoranza. Perché la cultura è percepita come qualcosa riservata a pochi, una faccenda circoscritta alle corti dei principi, chiusa in linguaggi criptici e grondante disprezzo verso gli esclusi (tanto per citare Gramellini). La cultura è noia, perdita di tempo, elitaria, esclusiva, pesante. Con la cultura poi non si mangia: è qualcosa di inafferrabile, non misurabile, senza valore e quindi, per sua stessa natura, impossibilitata a nutrire. Sarebbe interessante, a questo punto, rileggere il Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert.
Non possiamo accettare che si deridano in questo modo tanti giovani preparati, già così tanto penalizzati dalle crisi globali, in favore della filosofia in voga oggi nel nostro paese che mira a confondere i competenti con “élite” e gli ignoranti con “popolo” esclusivamente per fini di consenso elettorale.
Ogni ruolo ha la sua dignità, non si vuole certo svilire la carriera di Banfi o dello steward allo stadio o della contadina nei campi, ma quando portiamo ai vertici rappresentanti che non hanno le giuste credenziali allora si crea un problema, perché gli stessi prenderanno decisioni fondamentali che influenzeranno la vita di tutti. È questo il messaggio che si è voluto far passare: prendete i vostri libri, i vostri diplomi e bruciateli; il vostro valore sta nell’essere eletti.
È politica questa?
È questo il modo di avvicinarsi al popolo, compensando la carenza di formazione e il disamore per la cultura con il concetto che l’ignoranza premia?
Non possiamo rassegnarci ad una società che contrappone l’apparire all’essere, che considera preparazione e competenza un handicap o, peggio ancora, una perdita di tempo. Studiare significa ribellarsi all’ignoranza, per non piegare la testa di fronte al conformismo privo di qualunque senso critico. Bisogna cambiare il modo in cui la cultura viene percepita. La cultura non può essere demonizzata.
È un po’ avvilente, in questo senso, non registrare nessuna reazione, neanche una mezza riga, sulla questione da parte dell’Associazione Italiana Giovani per l’UNESCO; mentre Franco Bernabè, dal 2016 presidente della CNI per l’UNESCO, ha liquidato la faccenda con un «Almeno si parla dell’UNESCO e del lavoro che svolgiamo». Ci saremmo aspettati qualcosa in più, ma d’altronde non si può criticare ed essere diplomatici allo stesso tempo.
E anche se sembra di essere stati catapultati nel mondo di Cetto Laqualunque, spregiudicato imprenditore prestato alla politica che afferma, senza dubbi, che «…caduta la barriera della moralità, ora siamo nell’era dell’égalité. Siamo, signori, tutti uguali: politici e cittadini, maggioranza ed opposizione, guardie e ladri, corrotti e corruttori, mogli e amanti…», verrà il tempo in cui, per rimediare ai disastri dell’uomo “qualunque”, nel nostro paese, bisognerà rimettere al centro persone di talento e qualità.
Sperando che, nel frattempo, non siano scappate tutte verso altri lidi.
Mercoledì 06 febbraio 2019
Diplomata in Scultura al Liceo Artistico Statale di Benevento, ha proseguito i suoi studi in Conservazione e restauro dei beni culturali presso l’Università degli Studi di Urbino conseguendo l’abilitazione come restauratrice. È specializzata in Arts Management e in Archeologia giudiziaria e crimini contro il Patrimonio Culturale. Co-founder dell’Associazione Art Crime Project, editore di The Journal of Cultural Heritage Crime. Membro del Direttivo Associazione Massimo Rao, è responsabile della Pinacoteca Massimo Rao. Vive e lavora a San Salvatore Telesino (BN).