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Terra Mala. Quando la fotografia racconta il crimine

(Tempo di lettura: 7 minuti)

«Nell’anticipazione del rapporto 2019 del Progetto Sentieri1, infatti, e per un periodo di osservazione che copre ben otto anni (2006-2013), l’Istituto Superiore di Sanità certifica che la situazione epidemiologica2 dei 45 grandi siti di inquinamento tenuti sotto osservazione da ormai 13 anni sta peggiorando, sia in termini di incidenza che di mortalità, a contrasto delle quali non si fa nulla»3. Questo è quanto inequivocabilmente emerge dai dati e che da anni denuncia Antonio Marfella, dirigente dell’Istituto Nazionale Tumori “Fondazione Pascale” di Napoli e “ammalato di cancro dal 16 marzo 2018”.

12 miliardi di euro l’anno frutta il traffico di rifiuti e «meno li tocchi, più valgono», sostiene il Ten. Col. Massimiliano Corsano, Comandante Gruppo Carabinieri per la Tutela Ambientale di Milano, ospite del museo per un incontro sul binomio ambiente e legalità, e il ruolo dei Carabinieri nel contrasto agli illeciti ambientali. Secondo il Rapporto Rifiuti Speciali 20184 il quantitativo di rifiuti speciali pericolosi prodotto, nel 2016, risulta pari a 9,6 milioni di tonnellate e nel biennio 2015-16 si è registrato un aumento del 5,6%, corrispondente in termini quantitativi a quasi 512 mila tonnellate. Per il 40,6% questi rifiuti sono prodotti dal settore delle costruzioni, con il 27,2% segue il comparto di trattamento rifiuti e attività di risanamento e al terzo posto si posiziona il manifatturiero con il 20,7%. Volumi, business e le mani della criminalità che impattano sull’ambiente e sulla salute degli abitanti5. Ma «non basta l’unione di due elementi, della terra e del fuoco, per fare un’altra Terra dei Fuochi».

Schirato, accompagnato nei luoghi e nelle vite dal volto umano di Padre Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo al Parco Verde di Caivano, ha raccolto e selezionato una serie di immagini in bianco e nero. Foto-documenti che restituiscono nell’immediato visivo ed emotivo l’innocenza delle vittime e il dramma ambientale. Una ricerca estetica di equilibrio delle forme, delle geometrie, delle masse che si fonde con la pregnanza del soggetto. Non solo spazzatura, roghi o paesaggi urbani degradati ma mani e volti, bambini e madri, morti e sopravvissuti. L’arte che racconta il crimine.

Per Anaïs Nin «Non vediamo le cose come sono. Le vediamo come siamo» e Schirato – scrive don Patriciello – ce le propone attraverso «uno sguardo di amore». E di responsabilità. Fa parlare le voci silenziate, rende vita ai defunti, materia alle emozioni e luogo alle ferite. Assume il punto di vista delle madri per trasferire ai visitatori un messaggio chiaro e preciso: può accadere anche a tuo figlio. Perché «tanto più ci accostiamo alla storia personale e privata di una donna o di uomo, tanto più abbiamo l’opportunità di farla diventare universale e questo permette ad altri di riconoscersi: è un escamotage che arriva diretto al cuore», racconta Schirato. La fotografia perciò non è solo il ricordo di un’emozione ma è strumento, è terapia: «la fotografia è curativa sia per chi la fa sia per chi la riceve». Non solo.

 


John Berger6 sosteneva che la fotografia fosse «il processo attraverso cui l’osservazione diventa consapevole di sé», «un mezzo per verificare, confermare e costruire una visione totale della realtà». Nel 1960, teorizzando criteri estetici e funzionali, si chiedeva inoltre «Quest’opera aiuta o incita gli uomini a conoscere e rivendicare i loro diritti sociali?». Terra Mala è esattamente questo. Perciò abbiamo intervistato Stefano Schirato.

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Sei nato a Bologna e ti sei laureato in Scienze Politiche: quanto credi che una città viva e umanamente ricca come Bologna possa averti “aiutato” a sviluppare “l’elemento umano” nel tuo lavoro e quanto l’approccio socio-politico pensi possa aver inciso sulla scelta dei temi che negli anni hai affrontato?

«In realtà a Bologna ci sono solo nato e dopo due giorni ero a Pescara. Sono pescarese da sempre ma a diciott’anni questa città mi è diventata stretta e Bologna, allora, mi ha offerto l’opportunità di vivere una vita piena, di arte e di cultura. Durante l’università frequentavo i teatri e ho vissuto un periodo in cui si avvertiva il fermento di una città molto evoluta. A sviluppare “l’elemento umano” più che Bologna in sé è stato lo studio. Quando ho scelto il percorso non avevo ancora incontrato la fotografia, e a Scienze Politiche ho continuato ciò che facevo al liceo classico: tutto e niente. Storia, psicologia, sociologia diritto, un po’ tutto e un po’ niente – o almeno non di così specifico – che però mi è servito a creare delle idee. La mia vera scuola è stata la macchina fotografica e iniziare a viaggiare: la Cambogia, a 24 anni, è stata la prima esperienza umana molto forte, qualcosa che mi ha distaccato un po’ anche dalla dimensione universitaria. Quando sono tornato, sono entrato in una sorta di crisi esistenziale perché i tempi e le “banalità” degli altri, o che vedevo negli altri, non mi appartenevano più. Non è stata Bologna a cambiarmi la vita, è stata la Cambogia».

In un’intervista hai dichiarato che il tuo interesse è quello di informare: qual è il confine tra informazione e denuncia?

«Molte volte sento dire che il fotogiornalista, quello che scatta una fotografia esteticamente bellissima, in fondo non fa una cosa giusta perché è come se creasse arte da un dolore altrui. Su questo non sono d’accordo perché, alla stregua di un giornalista o di uno scrittore che usano delle parole per commuovere o per far entrare il lettore nella scena, anche il fotografo deve toccare alcune corde estetiche affinché l’immagine possa inchiodare – e per sempre – il pubblico alla sedia. L’informazione deve documentare, permette di avere la notizia che indigna. La denuncia acquista un valore più profondo: non è la semplice notizia che resta in superficie e si ferma ad un primo livello di pelle; la denuncia – compresa quella fotografica – è un approfondimento di quella notizia. È lo starci, lo starci tanto, così tanto da riuscire a riportare un messaggio amplificato. Nei miei lavori, quasi sempre e quando è possibile, cerco di scavare nelle situazioni e quindi di denunciare. È il motivo per cui faccio questo mestiere».

Il fotografo è anche attivista?

«Sì, decisamente. Quando non riesci a riconoscere il pensiero di un fotografo dalle sue foto c’è qualcosa che non funziona. Io, in quanto fotografo, devo prendere posizione. Sempre. Anche quando quella posizione diventa scomoda».

I tuoi lavori hanno mai subìto una censura?
«No, e penso che se la subissi andrei avanti».
Hai mai avuto paura?

«Un po’, sì. Non per Terra Mala, ma alcuni anni fa sono stato prelevato con molta forza dal Sahara Occidentale dove stavo facendo un lavoro sui Sahrawi. La polizia marocchina mi ha preso e mi ha spedito fuori dal paese. Ho temuto che mi mettessero in galera, che succedesse qualcosa…».

Il 2011 è un anno “di svolta” in cui si inseriscono Taranto e Chernobyl. In Puglia hai raccontato gli uomini e le donne “senza volto” che vivono e si ammalano accanto all’acciaieria: cosa ti ci ha portato?

«Mi ci hanno portato due cose: anzitutto un amico fraterno di Taranto. Dell’Ilva mi aveva parlato spesso ma io, in qualche modo, avevo sottovalutato la situazione di inquinamento. Non mi rendevo conto realmente di quello che là stava succedendo. E poi vidi un servizio di TV7, lo speciale del TG1 della Rai, curato da una mia amica e collega sull’acciaieria di Taranto. Rimasi agghiacciato. Era mezzanotte e mezza e la chiamai, facendole anche i complimenti, e le dissi che volevo fare una cosa del genere. Non sapevo nemmeno a quale giornale proporlo ma le chiesi i contatti per iniziare il lavoro. Ho coinvolto il mio carissimo amico, che si è prestato come cicerone, ed è cominciato un percorso che è durato due, tre mesi. Un tempo necessario per entrare nelle vite delle persone e per fare in modo che si facessero fotografare perché molti temevano ritorsioni anche a livello lavorativo».

Sempre nel 2011, a 25 anni dallo scoppio della centrale, realizzi Chernobyl 25 per documentare il traffico illegale di materiale radioattivo che veniva trafugato dalla “zona rossa” e venduto senza essere decontaminato: qual è la genesi di questo lavoro?

«Dopo Taranto ho cercato informazioni sull’inquinamento ambientale in giro per il mondo, avevo rintracciato diverse situazioni molto problematiche in Russia. Chernobyl tornava, tornava sempre. Ho cominciato ad andare un po’ a fondo per trovare un motivo per andarci. Non avevo alcun assegnato ma quattro mesi prima del venticinquesimo anniversario sono partito. Ho incontrato tantissime persone malate, ho studiato bene il passaggio illegale dalla zona rossa all’esterno di metallo radioattivo, ho raccontato la storia di un uomo che era stato l’ultimo ad andarsene e che con me, dopo 25 anni, è tornato a vedere la sua casa».

Nel 2015 inizia la ricerca sulla Terra dei Fuochi e l’incontro con don Maurizio Patriciello. Nell’introduzione del libro fotografico Terra Mala. Living with Poison don Patriciello scrive che hai usato “uno sguardo di amore” e che far conoscere il dramma ambientale e sanitario di quel territorio, al di là della cronaca pura e delle statistiche di incidenza tumorale, è stato da parte tua “un atto di responsabilità e di amore”. Perché “le parole passano, le foto restano”. Che peso ha avuto “l’elemento umano” in Terra Mala?

«È stato cruciale. Ed è stato anche il motivo per cui ho deciso di fare questo lavoro. Non avevo avuto la chiave di lettura, non sapevo come raccontarlo. Mentre a Taranto si riesce a vedere l’inquinamento, è palpabile, e lo vedono tutti; nella c.d. Terra dei Fuochi lo vedono soltanto le persone che lo sanno. Avevo pensato di lavorare sul territorio, su elementi che fossero lampanti e che restituissero la percezione di un inquinamento devastante per l’ambiente. Ma, al di là della spazzatura, non ne trovavo. Vedevo delle collinette verdi ma non sapevo che quelle là non ci dovevano stare… Ad un certo punto ho deciso di rinunciare. E lì, l’elemento umano è stato cruciale perché ho capito che dall’elemento umano scaturiva tutto il resto: raccontando le storie di quelle persone, non solo di quelle malate, ma anche di quelle che lottano tutti i giorni affinché la loro terra venga bonificata, potevo restituire il messaggio. Una cosa mi ha colpito moltissimo. Don Patriciello per promuovere l’8 per mille ha prodotto due video, uno dei quali aveva per protagonisti i bambini e i loro sogni. Uno di loro diceva: «io non voglio vivere in una terra che non ha sogni». Questa cosa mi ha dilaniato. E questo era quello che volevo far passare perché lì, in qualche modo, si deve tornare a sognare. Attorno all’elemento umano si è costruito poi l’elemento paesaggistico».

Letizia Battaglia ha raccontato, attraverso immagini in bianco e nero, a partire dagli anni Settanta i crimini di sangue della mafia siciliana: è stata testimone della vita e della società del nostro Paese anche per il valore civile ed etico da lei attribuito al fare fotografia. Come si fondono estetica, valore civile ed etica nel tuo fare fotografia?

«L’estetica è un valore molto importante se unito a due elementi: la pregnanza del soggetto e la riconoscibilità delle storie umane. Quando faccio una fotografia mi chiedo sempre se è un qualcosa che interessa soltanto a me o se, in realtà, siccome interessa a me può interessare anche a te. L’estetica fine a se stessa muore presto, e comunque non mi interessa».

Raccontare è esporsi. Ne vale sempre la pena?

«No, non ne vale sempre la pena. Vale la pena sempre prendere posizione, ma quando non sei solo, quando hai una moglie e dei figli e hai dei doveri nei loro confronti, l’esposizione va ponderata».

Terra Mala. Viaggio nella Terra dei Fuochi

Fino al 6 maggio 2019 al Museo Diocesano Tridentino di Trento
https://www.museodiocesanotridentino.it/pagine/trento-mostre

Note

1Il Progetto Sentieri è consultabile nel dettaglio a questo indirizzo: https://damsa.iss.it/index.php/2019/01/25/damsaeas_progettosentieri/.

2Il Rapporto Mortalità, ospedalizzazione e incidenza tumorale nei Comuni della Terra dei Fuochi in Campania dell’Istituto Superiore di Sanità è disponibile a questo indirizzo: http://old.iss.it/binary/publ/cont/15_27_web.pdf.

3Antonio Marfella, Terra dei fuochi: mentre si discute sul registro dei tumori, a Napoli si continua a morire di cancro, ilfattoquotidiano.it, 21 febbraio 2019, https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/02/21/terra-dei-fuochi-mentre-si-discute-sul-registro-tumori-a-napoli-si-continua-a-morire-di-cancro/4980482/.

4 Il Rapporto Rifiuti Speciali, giunto alla sua diciassettesima edizione, è frutto di una complessa attività di raccolta, analisi ed elaborazione di dati da parte del Centro Nazionale per il ciclo dei Rifiuti dell’ISPRA, con il contributo delle Agenzie regionali e provinciali per la Protezione dell’Ambiente, in attuazione di uno specifico compito istituzionale previsto dall’art.189 del d.lgs. n. 152/2006. Il documento è disponibile a questo indirizzo: http://www.isprambiente.gov.it/files2018/pubblicazioni/rapporti/Rapporto_285_2018.pdf.

5Un approfondimento sul trattamento di rifiuti in Campania e l’impatto sulla salute è disponibile sul portale dell’epidemiologia per la salute pubblica al seguente indirizzo: https://www.epicentro.iss.it/focus/discariche/report_rifiuti07.

6John Berger, Capire una fotografia, Contrasto, Roma 2014.

 


Mercoledì 10 aprile 2019

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