(Tempo di lettura: 11 minuti)

L’analisi effettuata su numerosi casi di furti, esportazioni illecite e commercio all’estero di beni culturali ha provato che a questi ultimi sono sempre più interessate forme di criminalità organizzata e transnazionali in quanto diventati, per il loro alto valore intrinseco e la loro facilità di trasporto, uno dei mezzi di scambio più agevoli per il finanziamento di altre attività illecite. Inoltre, la loro destinazione sempre più frequente verso mercati di altri paesi industrializzati, nei quali operano società private o organizzazioni, che attraverso case d’asta legali vendono beni d’arte di cui non controllano la liceità della provenienza, rende difficile l’attività di ricerca e quindi di contrasto al traffico illegale, anche perché l’attuale legislazione internazionale, per quanto disciplini molti temi importanti in senso generale, non consente un’adeguata protezione del patrimonio culturale e, per quanto ratificata e sottoscritta da molti paesi, di fatto non è sempre sostenuta da specifiche normative interne di recepimento.

Per tali motivi, il Comando Carabinieri TPC, valutato il fenomeno a livello nazionale e constatatane la dimensione transnazionale, ha allargato il raggio d’azione dell’attività di contrasto, allacciando rapporti di collaborazione diretti con polizie, istituzioni museali e scientifiche di ogni parte del mondo, adottando iniziative per sviluppare lo studio e l’applicazione di metodologie di contrasto.

Questo slideshow richiede JavaScript.

Ma quali sono i fattori che spingono un soggetto alla commissione sempre più frequente di questi comportamenti illeciti?

Da un’analisi dei casi giudiziari trattati, sia a livello nazionale che internazionale, si è desunto che le cause sono identificabili in circostanze che:

  • diminuiscono i rischi dell’azione criminale;

  • aumentano le opportunità criminali.

Infatti è facile per un malvivente rendersi conto che i rischi nel traffico di opere d’arte sono veramente bassi. Ciò a causa di una serie di componenti che interagiscono tra di loro, tra cui:

  • facilità con cui le frontiere possono essere attraversate;

  • scarsa applicazione di sanzioni penali nazionali in materia, per mancanza di risorse;

  • bassi standard di documentazione degli oggetti d’arte e quindi difficoltà di rintracciare i percorsi seguiti dagli oggetti e risalire agli autori dei reati;

  • facilità di movimento delle merci in campo internazionale ben superiore a quella con cui le agenzie di law enforcement si scambiano informazioni;

  • mancanza di controlli professionali sugli acquirenti dei beni d’arte, molto frequentemente anche musei e collezionisti.

Le organizzazioni dedite al traffico illecito di beni archeologici, molte delle quali individuate nel corso di anni di indagini, sono di norma strutturate su base piramidale.

Articolo R.Lai 12Ne è un esempio l’organigramma sintetizzato graficamente da un noto trafficante di reperti archeologici, rinvenuto a seguito di una perquisizione nel 1996, nel quale la base è costituita da una vasta manovalanza di delinquenti dediti allo scavo clandestino, prevalentemente divisi in squadre, operanti in regioni e settori, suddivise secondo zone prestabilite ed ovviamente d’interesse, in rapporto alla presenza effettiva di preesistenze archeologiche, quali il Lazio, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Sicilia e la Sardegna. Questo livello è strettamente collegato ad un primo livello di mediatori che ha la funzione di selezionare i pezzi e convogliare quelli più importanti verso i ricettatori di secondo livello, che sono coloro che ne curano il trasporto e la commercializzazione all’estero. Questi ultimi, per eseguire la fase successiva, utilizzano basi operative localizzate in paesi con normative giuridiche più favorevoli nel settore e che non avevano ancora ratificato la convenzione UNESCO (Svizzera ed Inghilterra l’hanno rispettivamente ratificata solo nel 2005 e nel 2003).

All’estero i reperti vengono accantonati, in attesa della decorrenza dei termini di prescrizione per i reati compiuti in Italia, in depositi di sicurezza di società di fatto, ubicati all’interno di aree doganali internazionali. Queste società, spesso anonime, collegate ad altre di tipo finanziario, hanno la funzione di riciclare i beni per attribuire loro una provenienza che sia lecita e credibile, agli occhi dei possibili acquirenti e delle autorità. Ed è per questo motivo che gli oggetti subiscono una serie di intermediazioni, di vendite fittizie, anche attraverso case d’asta, fino a giungere a celebri mercanti d’archeologia stranieri. In questo punto, quello più stretto, dove si realizzano i maggiori guadagni, la piramide si viene a ribaltare e dall’altra parte si trova il mondo degli acquirenti finali costituito da collezioni private, formate e cresciute nel dopoguerra, e dai musei europei, americani e giapponesi, tanto più vicini al vertice quanto maggiori sono le possibilità economiche degli stessi.

Questo schema appena descritto, è stato per noi, da un lato la conferma della validità delle indagini svolte fino a quel momento e dall’altro una chiave di lettura per la verifica e lo studio delle risultanze investigative, rivolte al tracciamento dei reperti, che hanno consentito un importante successo operativo. Precisamente nel 2000, allorché l’autorità giudiziaria svizzera ha trasmesso la documentazione sequestrata presso il porto franco di Ginevra a un noto trafficante internazionale, ed è stato quindi possibile ricostruire una serie di collegamenti tra mercanti, antiquari, restauratori, musei, curatori e trasportatori di tutto il mondo che sono stati a loro volta riscontrati attraverso successive e specifiche attività rogatoriali in Svizzera, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, Danimarca ecc. Gli elementi così raccolti si sono arricchiti in modo progressivo e si è potuto comparare e verificare la correttezza delle supposizioni già effettuate sia in relazione ai reperti sequestrati (primo sequestro Medici del 1995) sia in ordine a quelli non rinvenuti, ma dei quali si hanno immagini fotografiche non equivoche (spesso polaroid – sistema sviluppato solo dagli anni ’70 – che mostrano i reperti in luogo di scavo, a volte lacunosi, in frammenti, sporchi di terra e con incrostazioni, il tutto a testimonianza della loro autenticità, per surrogare la mancanza di qualsiasi pedigree).

Molti di questi reperti sono stati, poi, individuati presso le raccolte di importanti musei esteri, di collezionisti privati e di antiquari.

Un esempio pratico che ha consentito di documentare il tracciamento di un importante

Articolo R.Lai 1
Il “Volto d’Avorio”

reperto archeologico è quello che riguarda il noto “Volto d’avorio”. Nell’ottobre del 1994, personale del Reparto Operativo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale si è recato a Monaco di Baviera (Germania), per partecipare ad una riunione info-operativa tesa ad analizzare le modalità di contrasto al fenomeno del traffico illegale di reperti archeologici. Nella circostanza, la Polizia locale, dovendo effettuare una perquisizione nell’abitazione di due noti trafficanti internazionali su richiesta dell’A.G. greca, ha invitato i militari ad assistere alle fasi dell’operazione. Nel corso dell’attività sono state rinvenuti e sequestrati centinaia di oggetti di natura archeologica che, dai successivi accertamenti, sono risultati provenire per tipologia da aree della Magna Grecia, dell’Etruria e dell’Italia Centrale ed alcuni, addirittura, provento di rapina avvenuta nel Museo Archeologico di Melfi (PZ) nel gennaio del 1994. Il procedimento penale contro i trafficanti perquisiti, però, non si è concluso come sperato perché, nell’immediatezza, non si riusciva a dimostrare l’illecita provenienza dei reperti da scavi abusivi, tanto che l’intera procedura veniva archiviata dalle Autorità tedesche, con la conseguente restituzione degli oggetti archeologici sequestrati, tranne quelli provento della rapina, che venivano restituiti allo Stato italiano. In Italia, invece, le indagini sono state approfondite, poiché nel contesto iniziale erano stati osservati oggetti che inequivocabilmente provenivano dal territorio italiano; pertanto, la Magistratura, ravvisando gli estremi di reato, ha inoltrato una richiesta di assistenza giudiziaria in Germania e nella primavera del 1997 veniva eseguita una nuova perquisizione presso l’abitazione dei suddetti trafficanti. Questa volta venivano rinvenuti altri e diversi reperti archeologici, rispetto a quelli sequestrati in precedenza ed in particolare, veniva trovato materiale proveniente dalle aree archeologiche di Scrimbia (Reggio Calabria) ed altro riconducibile, per tipologia e caratteristiche, a manufatti provenienti dall’Apulia, dall’antica Lucania e dall’Etruria Meridionale. Contestualmente, nel corso della perquisizione si raccoglievano anche nuovi elementi di prova che permettevano di appurare che, nel 1994, un gruppo di tombaroli aveva rinvenuto e trafugato alcuni preziosissimi oggetti tra i quali un volto e parti di una statua in avorio e 4 statuette di fattura egizia, queste ultime già sequestrate e successivamente restituite nel corso della citata, prima perquisizione; il tutto sottratto, probabilmente, dalle rovine di una villa romana nella campagna di Anguillara Sabazia (Roma), nei pressi delle così dette “Terme di Claudio”. All’epoca del rinvenimento, gli scavatori, resisi immediatamente conto che il reperto in avorio rappresentava un’eccezionale scoperta archeologica e quindi tale da non poter essere facilmente commercializzata, lo nascosero temporaneamente in un casolare nei pressi del luogo del rinvenimento per poi rivenderlo ad un ricettatore conosciuto quale trafficante internazionale di materiale archeologico. L’eccezionalità della scoperta, nonostante le cautele adottate dagli scavatori, aveva suscitato molto clamore nel settore del commercio illegale di reperti archeologici, tanto che le continue notizie echeggianti nell’ambiente arrivarono a personale del Comando TPC, che iniziò una serie di accertamenti che consentirono l’individuazione del capo dei tombaroli, il quale, spinto probabilmente da un desiderio di rivalsa economica nei confronti dell’acquirente del prezioso reperto, confermò la scoperta e consegnò alcuni frammenti, nonché la foto polaroid che ritraeva il volto al momento del ritrovamento, che l’uomo attribuì allo scultore Fidia, che aveva riprodotto quello dell’Athena Parthenos. L’indagine, così denominata, consentì pertanto di identificare nel medesimo ricettatore a cui carico venne eseguita la perquisizione narrata ad inizio vicenda. Il trafficante, un italiano da anni residente in Germania e deceduto pochi mesi prima dell’inizio dell’indagine, aveva costituito nel tempo una vera e propria organizzazione dedita al saccheggio indiscriminato di tesori archeologici e al successivo trasporto fuori dall’Italia, preferibilmente lungo la dorsale adriatica, per poter poi immetterli nel mercato internazionale. Egli si avvaleva, per i suoi traffici illeciti, anche della collaborazione di un professore universitario che, in qualità di studioso ed esperto, si faceva garante della qualità degli oggetti, nonché di un altro trafficante italiano, coordinatore ed organizzatore di molte squadre di tombaroli.

Questo slideshow richiede JavaScript.

La prima fase investigativa aveva quindi consentito di delineare le responsabilità penali per i principali indagati e si concluse nel marzo 1999 con il recupero di oltre 11.000 reperti archeologici, scavati ed esportati illecitamente, provenienti da aree del centro-sud Italia, con l’arresto di 3 persone e la denuncia a piede libero di altre 14.

Nonostante l’iniziale delusione per non aver trovato ulteriori indizi sul volto d’avorio, che sembrava apparire sempre più una chimera, nelle indagini si delineavano nuovi ed insperati risvolti solo quando gli arrestati, nel corso degli interrogatori, fornivano notizie inedite sulla commercializzazione di un’altra straordinaria opera, anch’essa già da tempo nelle mire degli investigatori, una statua in marmo raffigurante “Artemide Marciante”, emersa durante scavi clandestini nelle zone archeologiche campane, da dove, peraltro, veniva esportata illegalmente in Giappone. Qui, probabilmente non trovando corrispondenza con il gusto estetico dei potenziali acquirenti (forse perché troppo lontana dalla cultura di quel paese) veniva rivenduta ed inviata in Svizzera, per essere commercializzata tramite una nota antiquaria elvetica di origini greche. La donna, successivamente colpita da mandato di cattura internazionale, per attenuare la propria posizione, decideva di restituire la statua che veniva riconsegnata nel dicembre del 2000 in Svizzera. Arrestata nel gennaio del 2002 a Cipro, durante l’interrogatorio, dando finalmente corpo a tutte le aspettative degli investigatori, forniva notizie decisive sull’individuazione del “Volto d’Avorio”, affermando di aver visto il prezioso reperto proprio nella casa dei trafficanti tedeschi inizialmente individuati come i detentori del bene e a cui carico non erano emerse prove in riferimento ai sospetti, e che, a loro volta, lo avevano venduto a due mercanti londinesi. La vicenda assumeva risvolti sempre più intricati, quando si scopriva che uno dei due antiquari, di origini greche, era morto in circostanze accidentali in Italia, mentre l’altro si spostava periodicamente tra l’Inghilterra e la Svizzera. Gli investigatori dell’Arma riuscivano ad entrare in contatto con i legali di quest’ultimo fornendo elementi inconfutabili che dimostravano la provenienza dei frammenti in avorio da area archeologica vicino Roma, riuscendo ad arrivare ad una intesa per la restituzione ed il successivo rientro in Italia del volto e di alcuni frammenti di una mano e di un orecchio, avvenuto nel 2003.

Articolo R.Lai 0
Frammenti in avorio

L’altro aspetto, molto delicato, curato dai trafficanti per impedire il tracciamento dei reperti è quello delle pratiche di riciclaggio, che consiste nell’attribuzione di provenienze che si sapevano false, da collezioni o case d’asta che erano i soggetti o le universitas deputate all’apparente transito dei beni artistici; e ciò all’evidente fine di sviare le indagini. Sicché la Svizzera appariva il “paese” di provenienza del bene, invece scavato clandestinamente, ovvero sottratto di recente dall’Italia. Dalla Svizzera, poi i beni venivano artificiosamente attribuiti in proprietà ad altre società che, fungendo da “clearing and laundring-house”, avviavano i beni archeologici in Inghilterra, in Germania, negli U.S.A. ed addirittura in Giappone o in Australia. Le intermediazioni e triangolazioni effettuate, a volte solo sulla carta, avevano il solo scopo di rendere credibili ed inoppugnabili gli acquisti dei vari clienti ovvero di farli rientrare negli standard stabiliti nelle politiche di acquisizione degli stessi musei. Talora veniva interpellato l’Art Loss Register ovvero l’IFAR (banche dati private per i beni rubati), al solo fine di poter vantare una sorta di buona fede. E ciò perché i beni, scavati clandestinamente, non potevano essere stati catalogati ed inventariati e tanto meno denunciati come sottratti. L’attività d’indagine, così condotta, è sfociata in due processi: uno a carico di Giacomo Medici con la condanna di questi a 10 anni di reclusione ed il sequestro conservativo di beni, per l’ammontare di 10 milioni di euro, più pene accessorie, ed uno nei confronti di Marion True e Bob Hecht, rispettivamente l’ex-curatrice delle antichità, presso il Paul Getty Museum di Los Angeles, ed un importante dealer internazionale, per i reati di associazione per delinquere, ricettazione, esportazione illecita, violazione in materia di ricerche archeologiche. Tali avvenimenti hanno determinato una grossa eco mediatica da parte degli organi di stampa nazionali ed internazionali, in particolare delle testate giornalistiche americane tra cui il Los Angeles Time, il Boston Globe, il N.Y. Time, etc. a cui ha fatto seguito una rinnovata sensibilità nell’opinione pubblica internazionale per le problematiche connesse con l’acquisizione di beni archeologici da parte di istituzioni museali, in particolare americane, per tramite, per l’appunto, di alcuni mercanti e collezionisti compiacenti, emersi dalle investigazioni.

La situazione ha avuto come ulteriore sviluppo la richiesta formale, da parte del Getty Museum, del Metropolitan Museum di New York, del Museum of Princeton University, del Fine Arts di Boston e del Cleveland Museum, di poter incontrare una delegazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali per verificare quali fossero i beni, presenti nelle loro collezioni, di dubbia provenienza in quanto riconducibili alle persone inquisite o oggetto di investigazione al fine di addivenire, ad una risoluzione extragiudiziale preventiva volta ad evitare eventuali contenziosi futuri sulla restituzione di reperti archeologici. Alla luce di quanto sopra, da parte italiana, è stata predisposta una commissione composta da esperti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dell’Avvocatura Generale dello Stato, del Ministero Affari Esteri e del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, incaricata di raccogliere gli elementi probatori riferibili a ciascun museo. A seguito degli incontri, è stata riconosciuta la proprietà e la restituzione allo Stato Italiano di numerosissimi reperti archeologici, tra cui il famoso Cratere di Euphronios, il Trapezophoros, il vaso di Assteas, la Venere di Morgantina, gli acroliti e gli argenti di Morgantina, ed altri, alcuni dei quali attualmente esposti presso la mostra “L’arte di salvare l’arte. Frammenti di storia d’Italia” al Quirinale, e per i quali la sola prova scientifica sulla provenienza da aree archeologiche del nostro territorio nazionale non sarebbe bastata a permetterne il recupero.

Questo slideshow richiede JavaScript.

L’analisi delle difficoltà esistenti in alcune nazioni interessate alla protezione del loro patrimonio culturale, ci ha mostrato i seguenti ostacoli alla creazione di una efficace politica di contrasto del fenomeno del commercio illecito:

  • mancanza di una unità di polizia specializzata nel campo dei crimini contro le opere d’arte;
  • mancanza di coordinamento tra i differenti corpi di polizia e le varie amministrazioni all’interno degli Stati;
  • nuovi metodi di vendita per i beni di provenienza illecita;
  • poco scambio di informazioni tra le nazioni coinvolte nel traffico illecito;
  • necessità di una differente raccolta per i dati relativi ai crimini contro le opere d’arte (in molte Nazioni le opere d’arte non sono distinte dai beni comuni);
  • incompatibilità o mancanza di una legislazione sul riciclaggio di danaro;
  • mancanza di firma da parte di molte Nazioni delle Convenzioni internazionali.

Sull’altro lato, le esperienze di molte Nazioni interessate a definire un’adeguata attività di contrasto al fenomeno della criminalità nel settore dell’arte hanno mostrato efficaci le seguenti linee di condotta:

  • conoscenza delle procedure di contrasto da parte delle forze di polizia specializzate (dogane, unità speciali, ecc.);
  • scambio di elementi tra le polizie di differenti Paesi;
  • utilizzo di data base privati e pubblici di altre Nazioni, se non esistono a livello locale;
  • acquisizione di conoscenze tecniche di altri data base, per creare scambi informatici di immagini e descrizioni di oggetti rubati;
  • cooperazione con istituzioni pubbliche e private specializzate nella protezione del patrimonio culturale, a livello nazionale ed internazionale;
  • identificazione delle rotte che i criminali utilizzano per importare ed esportare le opere d’arte e dei luoghi dove le distribuiscono, le vendono e si riforniscono di false autorizzazioni;
  • analisi degli eventi criminali in cui sono coinvolte organizzazioni internazionali, le menti dietro i furti e le persone responsabili dell’esportazione illecita;
  • individuazione dei modi di nascondere utilizzati nel traffico illecito e dei punti di attraversamento della frontiera maggiormente utilizzati;
  • studi comparativi tra le legislazioni dei vari Paesi in materia di patrimonio culturale e di restituzione delle opere d’arte alle nazioni d’origine.

Tanti successi, tanti sacrifici, alle nuove generazioni di operatori di polizia giudiziaria faccio tanti auguri, pregandoli di lavorare con passione e di non abbassare mai la guardia. Le opere d’arte sono la nostra storia e chi le ruba si impossessa di qualcosa che appartiene a ciascuno di noi, perciò dobbiamo continuare a lottare per riprenderci parte della nostra identità violata.

 

Articolo R.Lai 11
Nella foto, Roberto Lai

 

Mercoledì 22 maggio 2019 ©Tutti i diritti riservati

Ultimi articoli

error: Copiare è un reato!