Il recupero del “Volto d’Avorio”. Intervista a Roberto Lai
Il cosiddetto Volto d’Avorio, oggi conservato al Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo, fu destinato, dopo il suo ritrovamento da parte di scavatori clandestini, al mercato illegale dell’arte. Incontriamo il già Luogotenente del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Roberto Lai, che nei primi anni ’90 era impegnato con i colleghi del Reparto operativo nel recupero del raro reperto archeologico. L’elegante maschera eburnea era pertinente a una statua crisoelefantina (realizzata in oro e avorio), di dimensioni poco maggiori del vero. Ricavata da un’unica grande zanna di elefante, si presenta adesso in stato frammentario e viene datata dagli studiosi agli inizi del IV sec. a.C. L’eccezionalità del reperto è senza dubbio legata alla sua rarità.
Roberto, quali ricordi hai delle operazioni che portarono al suo recupero?
Il recupero del Volto d’Avorio fu un altro colpo eccezionale dell’allora Reparto Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico, avvenuto in un momento storico particolare, perché si erano appena concluse le indagini sulla Triade Capitolina. Nell’ambiente c’era quindi un po’ di fermento, soprattutto per il clamore dovuto al recupero di un pezzo straordinario come quello. Considerato che il prezzo di acquisto di primo livello della Triade fu di 5 miliardi di vecchie lire, qualche trafficante aveva capito che con l’archeologia si potevano fare tanti soldi. Nel mondo della criminalità quindi si moltiplicarono le squadre che scavavano sul territorio in modo illegale.
Da dove arriva il Volto d’Avorio?
Arriva da uno scavo clandestino eseguito in località «Tor de’ Venti», nei pressi della stazione di Cesano, ai margini nord-occidentali del Comune di Roma e al confine con quello di Anguillara Sabazia. Il toponimo deriva dalla presenza lì di un antico rudere a forma di torre, con nucleo cementizio, che domina la circostante pianura fino alla via Claudia-Braccianese. L’autore dello scavo fu Pietro Casasanta, lo stesso personaggio coinvolto nel ritrovamento della Triade. Agli inizi degli anni Novanta egli si riorganizzò in quei luoghi e iniziò lo scavo che portò all’individuazione del pezzo. Fu molto fortunato perché agiva a ridosso della villa di Claudio ed ebbe un’intuizione pazzesca, perché in quell’area effettivamente non c’erano grosse testimonianze archeologiche evidenti. Fece questo scavo e trovò una cisterna, addossato alla quale c’era, secondo quanto dichiarò, il Volto d’Avorio. E insieme a quello, diversi acroliti, non tutti combacianti. Nella stessa occasione trovò anche quattro statue egizie. Lui ormai si sentiva un grande mecenate, non più il “tombarolo”, perché non andava più “a tombe”. Aveva fatto un salto di qualità, adesso trattava direttamente con i trafficanti. Dopo il ritrovamento del Volto d’Avorio andò all’estero per incontrare Tonino detto “il greco”, al secolo Antonio Savoca, per sottoporgli la vendita del pezzo. Savoca abitava a Monaco di Baviera ed era sposato con Doris Seebacher, un altro interessante personaggio che ritroveremo più avanti nella vicenda.
Come andò?
Accadde che nel mese di ottobre del 1994 personale del reparto Operativo Carabinieri TPA si recò a Monaco, perché invitato a partecipare a una riunione info-operativa. L’obiettivo era analizzare le modalità di contrasto al fenomeno del traffico illegale di reperti archeologici. In quell’occasione la Polizia di Monaco, dovendo effettuare una perquisizione locale presso l’abitazione di una coppia di italiani, i coniugi Savoca appunto, già noti per i loro traffici, aveva invitato gli ufficiali di Polizia giudiziaria del Reparto ad assistere alle fasi della delicata operazione. Il 14 ottobre, quindi, venne effettuata la perquisizione nel corso della quale furono rinvenuti e sequestrati numerosissimi oggetti di natura archeologica che, dai successivi accertamenti, risultarono provenire da scavi clandestini effettuati nell’Italia del centro-sud. Alcuni erano provento della rapina effettuata presso il Museo Archeologico di Melfi (PZ). Questo primo procedimento penale contro i coniugi Savoca, però, non concretizzava gli esiti sperati tanto che tutta la procedura venne archiviata dalle Autorità di Monaco di Baviera, con la conseguente restituzione ai due degli oggetti archeologici sequestrati, tranne quelli provento della rapina che venivano resi allo Stato italiano. Sebbene le indagini fossero state archiviate dalle Autorità tedesche, in Italia vennero approfondite, perché nel contesto della prima perquisizione erano stati notati oggetti che inequivocabilmente provenivano dall’antica Scrimbia, l’attuale Vibo Valentia, e quindi la Magistratura romana ravvisò gli estremi di reato che le consentirono di inoltrare una richiesta di assistenza giudiziaria. Nel luglio del 1997 su Commissione Rogatoria Internazionale emessa dalla Procura di Roma venne eseguita una nuova perquisizione presso l’abitazione dei Savoca-Seebacher. Furono rinvenuti altri reperti archeologici, diversi da quelli sequestrati in precedenza. In particolare furono individuati materiali provenienti dall’area archeologica di Scrimbia. Erano attestati anche beni provenienti dalla Puglia, dall’antica Lucania e dall’Etruria Meridionale.
La partecipazione all’attività investigativa fu quindi una grande occasione di contatto con le polizie di altri Stati europei per i Carabinieri del Reparto Tutela Patrimonio Artistico, che erano operativi in patria già da una ventina d’anni nel contrasto ai crimini contro il patrimonio culturale.
Il rapporto con le polizie estere per il Reparto è stato, ed è ancora adesso, di rilevante importanza. Purtroppo sono gli accordi in materia di tutela del patrimonio culturale tra paesi a non essere soddisfacenti. Le rogatorie sì, ci sono, ma sono condizionate da tanti vincoli. Noi partecipammo all’operazione a Monaco con molto entusiasmo. In questa prima occasione io non c’ero. Ci andarono altri colleghi, che ebbero la possibilità di scattare tantissime foto. Al Reparto eravamo soddisfatti di questo primo approccio, per cui iniziammo a studiare tutta la documentazione portata in Italia dai colleghi, e grazie all’analisi delle fotografie individuammo tra gli altri reperti anche tre vasi importantissimi, che risultarono poi essere quelli rubati al Museo di Melfi durante una rapina a mano armata avvenuta qualche tempo prima. Questi tre reperti furono un po’ il lasciapassare per una serie di attività che vennero fatte proprio nei confronti di Savoca. In seguito andammo più volte a Monaco di Baviera. Infatti, da lì iniziò tutta una serie di attività di indagini nei suoi confronti. Tuttavia, questo primo procedimento penale contro i coniugi Savoca non portò a risultati concreti, tanto che tutta la procedura venne a un certo punto archiviata dalle autorità di Monaco di Baviera, con la conseguente restituzione ai predetti degli oggetti archeologici sequestrati, tranne quelli provento della rapina a Melfi, che vennero resi all’Italia. Nella sua villa, Savoca smistava e restaurava tutti i reperti provenienti dagli scavi clandestini operati in Italia.
Una villa-laboratorio, insomma.
Una villa molto bella, su più piani, con il tetto a spiovente. Era dotata di una piscina che lui utilizzava per ripulire i reperti. Nella casa di Savoca trovammo un museo. Si era organizzato creando perfino uno showroom, con tanto di scaffali per l’esposizione dei reperti archeologici posti in vendita.
Fa venire in mente l’atelier di Giacomo Medici a Ginevra.
La differenza tra i due luoghi è notevole: Medici aveva messo su un vero e proprio atelier, a suo modo elegante; quello di Savoca era una sorta di immenso magazzino. I materiali erano conservati senza cura anche all’interno di scatole di cartone ed erano avvolti nei fogli di giornali italiani come La Nuova Sicilia, La Nuova Sardegna, L’Unione Sarda. Gli stessi stessi nomi delle testate giornalistiche rimandavano a una ipotetica area geografica di provenienza dei materiali. Erano posti in evidenza anche i mittenti. Si capiva, insomma, che c’era tutta una corrispondenza tra persone che operavano nel Sud Italia e Monaco di Baviera.
Pare evidente che non si fossero preoccupati di cancellare le tracce. Avevano peccato forse di superficialità?
Sì, loro erano tranquilli. Queste erano le prime perquisizioni fatte all’estero, non se lo aspettavano. Ma quando mai l’Italia andava con tutti gli accordi internazionali in atto a fare una perquisizione in un altro paese? Erano impreparati, semplicemente. Nella loro testa erano a Monaco: chi mai sarebbe andato lì a cercarli? Io mi ricordo le statue sul divano… Certo, noi andammo lì per un caso fortuito. Capitò l’occasione della perquisizione da parte dei colleghi della Polizia di Monaco di Baviera e tutto accadde di conseguenza.
E a proposito dei contatti di Savoca con i professionisti conniventi? Penso a restauratori, esperti d’arte, archeologi…
Non poteva fare tutto da solo. Lui era diventato molto abile, aveva messo su un vero e proprio laboratorio di restauro, ma a un certo punto aveva bisogno di chi sapesse intervenire su materiali specifici come, per esempio, il bronzo. E poi, i pezzi erano numerosissimi, quindi faceva riferimento a una rete di specialisti che potessero fornigli aiuto, garantendogli vari servizi. E considera che per questi specialisti tutto avveniva nella norma. Tutte quelle azioni cioè non erano percepite come reati, anzi! Si trattava di un articolato giro per cui si acquistavano i pezzi, li si restaurava, li si vendeva alle case d’asta e il museo quindi comprava direttamente da quelle.
Savoca quindi decise di acquistare da Casasanta il Volto d’Avorio.
Noi all’inizio non sapevamo che Savoca avesse preso il Volto d’Avorio. Quindi tutta l’attività iniziale nacque perché intuimmo che ci poteva essere dell’altro oltre ai vasi rubati al Museo di Melfi. Di conseguenza in Italia mettemmo in atto perquisizioni a tappeto nell’ambiente dell’archeologia illegale e proprio qui incominciò a venir fuori una voce sempre più insistente e cioè che Casasanta avesse messo a punto un altro colpo, qualcosa di molto più importante della Triade. L’eccezionalità della scoperta suscitò molto clamore nel settore dei trafficanti di reperti archeologici, tanto che le continue notizie echeggianti nell’ambiente consentirono al personale del Reparto Operativo di dare corso a una articolata indagine delegata dalla Procura della Repubblica.Venimmo subito coinvolti io e Tomassi perché già reduci dall’operazione della Triade. Conoscevamo bene Casasanta e iniziammo quelle attività tecniche, proprie di un’indagine articolata, nei suoi confronti: telefoni sotto controllo, pedinamenti e perquisizioni del suo entourage. Casasanta tenne duro. Quando si trattò della Triade, perse il pezzo perché non aveva accontentato i suoi soci. Aveva dato loro 100 milioni a testa, mentre i suoi compagni, non contenti perché avevano intuito che lui avesse realizzato molto di più, lo denunciarono. Partì tutto da lì. Questa volta accadde il contrario, perché Savoca gli dette un acconto di 700 milioni di vecchie lire, ma non il saldo. Passò il tempo, Casasanta cominciò a innervosirsi al pensiero di non concludere l’affare e pensò anche di denunciarlo, addirittura di autodenunciarsi, pur di fare venire allo scoperto la cosa. Poi il Savoca morì e la questione si fermò lì. Io avevo un grande ascendente su Casasanta. Pur avendo subito l’arresto e una serie di perquisizioni durante la nostra attività investigativa, ha sempre riconosciuto la professionalità mia e di Tomassi, due matti che contro tutti stavano indagando sulla Triade Capitolina, che all’inizio non si credeva neanche esistesse. Quindi andammo a fargli una prima perquisizione e fortunatamente trovammo una fotocopia quasi illeggibile di una foto del Volto d’Avorio, scattata subito dopo il suo recupero, mentre era ancora sul prato.
Come si riuscì a ottenere la confessione di Casasanta?
Il fatto in realtà ha dell’incredibile: mi trovavo in tribunale con i colleghi Morando e Micheli per una testimonianza ed incontrammo per caso Casasanta. Lui non voleva più parlare di questa storia e quindi iniziammo a fargli una serie di discorsi per persuaderlo: «La moglie di Savoca sta ancora trafficando… incastrarla sarebbe l’unico modo per riportare indietro la Maschera d’Avorio… non riusciamo a riportarla in Italia come abbiamo fatto con la Triade… tu ormai i soldi li hai persi, a questo punto falla una penitenza…». Ma lui si rifiutava, aggiungendo che gli altri frammenti combacianti con il Volto d’Avorio, nel gergo criminale definiti “orfanelli” e che gli sarebbero stati utili per incassare la restante quota, li avrebbe dati soltanto a me, in modo informale. Gli risposi che non poteva affidarmeli così. Eravamo in Procura, sopra c’era il magistrato, il dott. Ferri, dovevo solo convincerlo ad andare insieme da lui, prendere un avvocato con le garanzie di legge e raccontare tutta la storia che aveva raccontato a me. Lo presi sottobraccio, ci dirigemmo al bar, prendemmo un caffè e quindi, piano piano si convinse. Andammo così dal Dott. Ferri. Il magistrato era impegnatissimo, ma quando sentì che Casasanta voleva autodenunciarsi, mandò via tutti quelli che erano lì in ufficio da lui. Casasanta quindi confessò e mi consegnò in ufficio i famosi frammenti eburnei. Pertanto, le indagini si concretizzarono nella prima fase istruttoria grazie alla confessione da lui resa il 4 febbraio 1998 e alle successive fasi con la consegna dei frammenti dell’importante reperto e delle foto dello stesso. Successivamente ci fu un’ulteriore rogatoria internazionale, supportata dalle dichiarazioni di Casasanta e dalla presenza dei frammenti. L’opera però non era più nella disponibilità di Savoca e quindi partì un’indagine che sarebbe stata lunghissima. Per noi ormai non c’erano più grandi cose da fare oltre a quello che era stato già fatto.
Determinanti nella svolta delle indagini non solo le confessioni, ma anche i frammenti ancora nelle mani di Casasanta.
Sì. Gli “orfanelli” in generale sono quei frammenti che mancano per completare il pezzo e che fanno salire il costo del reperto archeologico. Casasanta aveva con sé anche altri frammenti che non erano pertinenti al Volto d’Avorio, ma ad almeno altre due sculture, come si è visto in seguito. E quelli rappresentavano il punto di svolta, per questo continuò il martellamento sulla fregatura subita: interagendo con lui rimarcavo il fatto che fosse stato fregato con il pagamento di solo 700 milioni, mentre qualcun altro si stava godendo chissà dove il vero guadagno. Io sapevo che lui aveva in mano frammenti di acroliti, aspetto che ci dava la certezza dell’esistenza della Maschera d’Avorio. In realtà, si crearono dei miti su questi oggetti, si tratta in fondo di pezzi particolari. Dal punto di vista della bellezza penso che il Volto d’Avorio sia insuperabile, anche rispetto alla Triade Capitolina. La Triade è un simbolo, ma dal punto di vista artistico, la maschera è superiore.
Perché l’operazione fu denominata “Athena Parthenos”?
Il nome nacque in seguito alle dichiarazioni di Casasanta. Fu lui a definire in quel modo il pezzo che stavamo cercando. Si era convinto che a realizzarlo fosse stato lo stesso Fidia. Lui era il “tombarolo-archeologo”, il “tombarolo” che ne sapeva più di tutti. Casasanta amava vantarsi, questo è ormai acclarato, uno sempre sopra le righe insomma, e quindi a volte faceva sfoggio di una conoscenza maturata chissà dove e come, e ogni tanto ci prendeva. Quindi noi ci fidammo. Sapevamo quindi di inseguire un’Athena Parthenos.
Torniamo alle attività investigative.
Dopo l’esperienza con la Polizia di Monaco noi iniziamo quest’attività pazzesca, attività a 360° su tutto il territorio nazionale e all’estero, con investigazioni, con una serie di attività operative, con tanto di rogatorie internazionali, martellamento nei confronti del Savoca a cui facemmo una serie di perquisizioni. Il 27 luglio 1998, durante le operazioni di intercettazione, si apprese, purtroppo, che Tonino Savoca era deceduto per cause naturali. Tale evento creò uno scompenso nell’assetto dell’organigramma che muoveva il traffico illecito di reperti archeologici. Difatti nel corso delle intercettazioni venne notata una crescente movimentazione posta in essere dalla banda, probabilmente per assumere delle postazioni di rilievo e dominanti, per controllare il commercio nel settore archeologico. Quindi venne notata una più assidua frequentazione di alcuni individui con la moglie di Savoca, che era rimasta, dopo la morte del marito, a Monaco. Il vero e proprio perno del mercato archeologico. Ne consegue che per impedire il depauperamento e la dispersione dei beni archeologici accumulati dall’italiano deceduto si richiese una perquisizione locale a Monaco di Baviera, che venne eseguita dal personale del Reparto Carabinieri TPA l’8 ottobre 1998. Con quest’ultima operazione vennero delineate le responsabilità penali per ognuno dei tre principali indagati, nei confronti dei quali vennero spiccate nel marzo 1999 le ordinanze di custodia cautelare. Il ruolo di Savoca venne preso però dalla moglie Doris, negli ambienti chiamata “la Pellicana”. Andai io stesso a farle una perquisizione e ricordo che non voleva aprire la porta. Aveva una particolare avversione nei nostri confronti. Sosteneva, infatti, che con le perquisizioni stessimo invadendo la sua sfera privata e che lei non c’entrasse niente con le attività svolte dal marito. E invece era il contrario: con la Polizia tedesca, che era veramente molto precisa, facemmo un ulteriore sequestro. Quindi l’attività andò avanti e proprio in quella fase, anzi, si infittì con il controllo di telefoni anche all’estero. Lei venne monitorata e ci portò ad allargare ancora di più la conoscenza del traffico internazionale di reperti archeologici e della sua portata.
Una vera e propria organizzazione a delinquere.
Proprio così. La prima fase dell’operazione si concluse con l’individuazione di un vero e proprio assetto organizzativo piramidale, dedito al traffico dei reperti alla cui base riscontrammo una moltitudine di scavatori clandestini, quindi gli organizzatori, i trasportatori e gli intermediari e al vertice i grossi acquirenti, tra cui facoltosi collezionisti e commercianti americani. Si procedette così all’arresto di tutta la banda e all’espletamento di numerose perquisizioni locali emesse nei confronti di altri co-indagati, in seguito alle quali vennero sequestrati numerosissimi reperti archeologici di eccezionale interesse. Le indagini assunsero maggiore consistenza quando vennero arrestati un docente universitario pugliese e un suo fidato collaboratore, che rilasciarono dichiarazioni importantissime per la prosecuzione degli accertamenti, concernenti sì il traffico archeologico, ma soprattutto la commercializzazione di una statua in marmo raffigurante Artemide, oggetto di un’indagine che si intreccia con quella del Volto d’Avorio, e che si configura come un’altra fantastica storia. Insomma, venne fuori una situazione davvero articolata quando constatammo che tutti i personaggi individuati erano a diretto contatto con la Seebacher e trafficavano in opere d’arte. Accadde poi che il personale del Reparto Operativo si trovò a Cipro per un’indagine. Nel contesto di tale attività entrò in scena una donna molto nota, Maria Frederique Tchacos Nussberger, meglio conosciuta col nome di Frida, che messa alle strette nel corso di un interrogatorio esternò la volontà a collaborare con le autorità italiane per recuperare il Volto d’Avorio. A suo dire, il pezzo era stato acquistato dagli antiquari londinesi Symes-Michaidilis. Si intrecciarono così i contatti tra i legali italiani e londinesi di Robin Symes, con quelli della famiglia di Christo Michailidis, deceduto ad Orvieto nel giugno del 1999. Dopo varie vicissitudini di carattere burocratico e amministrativo, dovute a un contenzioso tra il Symes e la famiglia Michailidis, ci venne comunicato che a Londra, il predetto bene, insieme a un importantissimo affresco pompeiano, provento di furto perpetrato negli ’70 a Castellammare di Stabia (NA), sarebbe stato riconsegnato presso l’ambasciata italiana a Londra. Va detto che la consegna del Volto d’Avorio venne fatta in modo incredibile attraverso personaggi, che avevano deciso di disfarsene. Ormai quell’oggetto non aveva più valore. Avevamo gli acroliti, gli “orfanelli”, le foto, avevamo le dichiarazioni di Casasanta, quindi oramai il pezzo era bruciato. Per tale attività vennero tratte in arresto 4 persone, denunciate in stato di libertà 37 persone e furono recuperati 1455 reperti, 3037 monete greche e romane, 1000 frammenti ceramici pertinenti a vasi di ogni forma. Il Volto d’Avorio rientrò così in Italia e fu subito sotto i riflettori. Molto bella la mostra al Quirinale, che fu organizzata in pompa magna. Davanti al bellissimo reperto archeologico Casasanta si mise a piangere un’altra volta, proprio come aveva fatto davanti alla Triade, prendendosi il merito di averlo scoperto lui!
È finita quell’epoca?
Oggi è cambiato tutto. La maggior parte delle volte chi compra si assicura della provenienza lecita dei pezzi. Una volta si facevano certificazioni false, oggi un po’ meno. Oggi i musei contattano prima l’INTERPOL e si avvalgono degli strumenti messi a disposizione dal Ministero per accertarsi che un eventuale acquisto non sia a rischio.
I musei internazionali non fanno più acquisti spregiudicati come un tempo, i mercati si sono spostati verso qualche ricco collezionista arabo o asiatico che ha il suo museo personale. Oggi non c’è più quella movimentazione di opere che si attestava 20/30 anni fa perché lo scavo illegale non è più quello di allora. L’attività del Comando in questo è stata determinante. Non c’è più lo stesso numero di “tombaroli” d’allora: a Cerveteri un tempo uscivano 20 squadre, che si avventuravano nelle campagne quasi indisturbate. Sì, c’è ancora un mercato clandestino, ma il sistema di allora è fallito perché è stato smontato in quella fase. Oggi tutto questo è storia. È un capitolo esaurito e senza dubbio fa scuola; infatti, le nuove leve che indagano sul traffico illegale di beni culturali considerano quelle indagini come l’imprescindibile punto di partenza.
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Archeologa PhD candidate e giornalista. Specialista in art crime e archeologia legale, si occupa di informazione e di comunicazione del patrimonio culturale.
Laureata con lode in Conservazione dei Beni Culturali, indirizzo archeologico, presso l’Università del Salento, ha conseguito con lode il diploma presso la Scuola di Specializzazione in Archeologia Classica “Dinu Adamesteanu”, il Master di II livello in “Valorizzazione del Patrimonio Culturale”, promosso dalla Scuola Superiore ISUFI dell’Ateneo salentino, e il Master biennale di II livello in “Esperti nelle attività di valutazione e di tutela del patrimonio culturale” all’Università di Roma Tre. Ha conseguito quindi l’attestato di partecipazione al corso on line su “Antiquities Trafficking and Art Crime” della Glasgow University e al corso promosso da UNESCO,“Engaging the european art market in the fight against illicit trafficking in cultural property”. Presso la LUISS ha frequentato il Corso Executive in “Intelligenza Artificiale e Personal Media: Nuovi Modelli per la Comunicazione e Giornalismo”, organizzato dal Master in “Giornalismo e Comunicazione multimediale” del Centro di Ricerca Data Lab in collaborazione con la School of Government dell’Università LUISS Guido Carli. Ha partecipato a numerose campagne di scavo in ambito universitario e successivamente come responsabile di cantiere per la Soprintendenza Archeologica di Roma. Ha fondato e dirige dal 18 settembre 2018 The Journal of Cultural Heritage Crime, la prima testata giornalistica on line in Italia sul tema del traffico illecito di beni culturali e, più in generale, sulla tutela del patrimonio culturale. È socio fondatore dell’Associazione Culturale Art Crime Project APS, socio di EAA – European Association of Archaeologists, socio simpatizzante dell’Associazione Nazionale Carabinieri-Tutela Patrimonio Culturale.