La tutela dei Beni culturali: un flash sulla lunga durata (Parte 1)
di Mario Ascheri
Un’avvertenza preliminare
Un profilo sia pur sommario di storia del diritto a tutela dei beni culturali non è facile se si vuole evitare la pura descrizione delle normative. C’è da tener conto in primo luogo della relativa novità del concetto stesso di ‘bene culturale’, ma soprattutto della sua latitudine, vaghezza e, sia pur consentito, della sua inevitabile, intima ambiguità.
Bene culturale è nozione storicamente determinata, come lo è quella di ‘diritti’ dell’essere umano, il cui elenco – se si vuole stilare – si vedrà essersi dilatato in pochi decenni per cui l’hic et nunc è sempre da presupporre. E per i beni culturali si può dire quel che si dice dei diritti: se ne parla e se ne elencano tanti quanto più essi vengono quotidianamente rispettivamente lesi o violati.
E si va verso un progresso? C’è da dubitarne. Se si pensa che persino la stessa libertà religiosa, che sembrerebbe fondamentale come la libertà personale, oggi è nel mondo meno rispettata di qualche anno fa, si ha subito la percezione di quanto ampio sia il divario tra il proclamato di diritto e il rispettato di fatto, tra il dato diffuso dai media e il fatto concretamente verificato nelle pratiche sociali in atto.
La comunicazione globale, accessibile (quasi) a tutti, non ha di per se stessa facilitato i risultati, e sarebbe ingenuo pensare che potesse farlo.
Il fattore umano individuale, ‘educational’, non basta se non è positivo il contesto collettivo in cui esso si dispiega. Bisogna adattarsi all’idea che articolato com’è il substrato culturale a livello mondiale, certi discorsi all’evidenza ‘universali’ anche se supportati da organizzazioni internazionali finiscono per essere veramente recepiti soltanto da percentuali ristrette dell’umanità complessiva; meglio, da ristrette élites, a ben vedere, perché larghi strati delle ‘masse’ hanno altre priorità. Ma, giustamente, bisogna farsi carico anche di chi non è ‘pronto’ al momento, e pensare in positivo, nella direzione che si spera possa un giorno avere prospettive più ampie. E pensare anche che ogni discorso, di diritti, come di beni culturali, è un discorso storico, sottoposto alle infinite variabili cui lo sviluppo storico, con i suoi ‘stop and go’ è sottoposto.
Un esempio di questa relatività è istruttivo.
Si sa bene che l’articolo fondamentale in materia della nostra Costituzione è il 9 cpv., poi specificato dalla legge costituzionale 3 del 2001. Ebbene, esso non solo non parlava ancora precisamente di ‘beni culturali’, ma proclamava comunque l’impegno della Repubblica a tutelare “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Quel ‘paesaggio’ separato (seppur congiunto) dal ‘patrimonio’ non è di per sé significativo? Quasi a denotare una nozione di ‘bene naturale’ separato dal ‘bene culturale’?
Ebbene, se c’è una consapevolezza oggi indiscussa è invece che il paesaggio è non solo un dato naturale, ma per lo più, in territori così ‘frequentati’ come il nostro, esso stesso un bene culturale in quanto dato storico. Il sito Unesco – recentemente riconosciuto in provincia di Siena – della val d’Orcia (il quarto nella stessa provincia, caso unico) non è eminentemente fondato sul paesaggio culturale che lo connota? Il podere e la chiesina, il cipresso e il borgo e la rocca, tutti al posto giusto, non sono frutto di una certa storia che ha plasmato in quel certo modo la natura in quell’area? E il bene ‘sito’ da culturale non si fa anche materialmente economico, bene turistico, bene didattico, bene artistico e così via?
Tutto questo introduce alla difficoltà con cui si è andata configurando nei secoli una normativa che oggi diciamo sui beni culturali e che in un recente passato si è detta delle ‘antichità’ e/o degli ‘oggetti d’arte’ e che ancor prima, in tempi ben più remoti, non aveva neppure intitolazione. Non che non ci fosse, ma era nei fatti, nelle pratiche sociali appunto, perché era nella cultura prima che nelle leggi. E a quella cultura lontana del bello, del notevole, del degno di essere conservato, quanto si deve? Ne riparleremo. Vediamo prima le premesse vicine a noi.
Un avvio difficile al Novecento
Quando si dice che la protezione dei beni culturali comincia nel secolo scorso si dice un’ovvietà che discende da certe leggi dello Stato unitario che, finalmente, non senza difficoltà, era giunta a normative precise di tutela.
L’Italia unificata nasceva in un contesto di politica economica tendenzialmente liberista, e quindi non favorevole al trattamento speciale di certe categorie di beni, e quindi ad esempio a vincolare i beni artistici quando non demaniali. L’azione pubblica non si voleva limitativa della proprietà privata e dell’iniziativa individuale. Nello Statuto albertino, all’art. 29, si proclamava solennemente che “tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili” (la ‘cessione’ per interesse pubblico era poi prevista, al capoverso, solo se legalmente accertata, ossia come eccezionale). Perciò non furono migliorate le legislazioni preunitarie esistenti favorevoli a evitare la dispersione del patrimonio culturale ereditato dai secoli e ormai accresciuta in proporzioni enormi con la diffusione delle pratiche del Grand Tour da parte delle élites culturali dell’Europa allora più fortunata sul piano culturale ed economico.
Come si sa, il Regno si dotò di una articolata legislazione per l’unificazione amministrativa con la ricca serie di decreti del 1865, ma essa non si estese al patrimonio storico-artistico, sul quale – come per altri settori beninteso – si recepirono le normative dei preesistenti ordinamenti con la legge 28 giugno 1871, n. 286. Il suo art. 5 dispose che “finché non sia provveduto con legge generale, continueranno ad avere vigore le leggi ed i regolamenti speciali attinenti alla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte”.
La ‘breccia di Porta Pia’ era freschissima e aveva messo a contatto il nuovo Stato con la tradizione consolidata dello Stato pontificio, che aveva fatto (tra l’altro) largo uso dell’istituto del fedecommesso con risultati certamente positivi nel nostro settore. Se tanti palazzi a Roma e altrove nel dominio pontificio ora abbattuto non avevano fatto la fine che era o sarebbe stata verificabile nella vicina capitale del Sud lo si doveva appunto a quell’istituto giuridico che era stato giudicato sorpassato e contrario al progresso delle transazioni in un regime di libero mercato già a partire dal Settecento riformatore.
Prudentemente, però, la legge del ’71 (art. 4), pur estendendo alle nuove terre le disposizioni del Codice civile del 1865 sulla abolizione dei fedecommessi e dei maggiorascati, consolidò (con il classico rinvio a una riforma futura) come indivise e inalienabili le gallerie e le collezioni d’arte o di antichità delle famiglie romane.
Intanto, l’enorme patrimonio immobiliare degli ordini religiosi che già non fossero stati soppressi entrò a far parte del demanio, posto a seconda dei casi sotto l’amministrazione del Ministero della Pubblica Istruzione o della Guerra. I beni delle infinite opere pie d’origine medievale o d’Antico regime, che avevano assicurato quel poco (o tanto) di assistenza e Welfare che la società aveva saputo realizzare (a volte brillantemente) furono per lo più o venduti o passati ai Comuni sotto la vigilanza prefettizia.
Con la nuova capitale e il ridisegno dei poteri regionali fu tempo di grandi migrazioni interne e quindi anche di espansione delle città. Solo per Roma fu conservato il fedecommesso, mentre altrove lo smembramento dei palazzi e delle collezioni d’arte tra gli eredi delle grandi famiglie divenne la regola entro la cornice delle normative localmente previgenti. Intervennero soltanto disposizioni transitorie o d’urgenza, ad esempio per espropriare i monumenti di privati in rovina per evidente incuria, o per acquisire cose d’arte e d’antichità a solo vantaggio dello Stato.
In questo modo, ad esempio, l’alienazione all’estero delle cose d’arte fu vietata solo nel centro-sud del Paese e la divisibilità delle collezioni d’arte ex-fedecommissarie solo a Roma: altrove trionfò la sostanziale libertà dei privati di usare come preferissero delle loro ‘cose d’arte’.
La svolta di fine secolo
L’ottimismo positivistico ancora diffuso negli ultimi anni dell’Ottocento, in un’Europa che aveva cambiato volto in pochi decenni e sembrava avviata a un benessere incredibile fino a poco tempo prima, aveva portato alle prime formulazioni internazionali a favore della protezione delle opere d’arte nella Convenzione dell’Aja del 1899 e a grandi esposizioni che avevano lanciato nel mondo l’immagine di città vecchie e nuove (da Parigi a Berlino a San Francisco) proiettate verso il futuro.
In quel contesto si inserisce anche in Italia una nuova attenzione verso la protezione del patrimonio artistico, non da ultimo incoraggiata da un orgoglio nazionale nuovo, che andava radicandosi in ambienti anche diversissimi, non necessariamente poi sfocianti nel nazionalismo e nel fascismo.
A distanza di oltre trent’anni da un sempre bloccato progetto del ministro Correnti, nel 1902 si pervenne finalmente alla prima legge nazionale di tutela: la legge 12 giugno 1902, n. 185 (detta legge Nasi) con cui si istituì il ‘Catalogo unico’ dei monumenti e delle opere di interesse storico, artistico e archeologico di proprietà statale, preparando così la legge nota come Rosadi dal nome del parlamentare relatore, cioè la legge 20 giugno 1909, n. 364, con il successivo regolamento applicativo del 30 gennaio 1913, n. 363 tuttora in vigore per certi dettagli.
I beni di “interesse storico, archeologico o artistico” pubblici furono dichiarati inalienabili e si proclamò la possibilità di sottoporre a vincoli di tutela le opere di proprietà privata di “importante interesse”. Siamo alla ‘notifica’, con cui lo Stato è conseguentemente chiamato ad esprimere un parere riguardo ad ogni ipotesi di gestione del bene da parte del proprietario, alla facoltà di esproprio per acquisire a monumenti o musei pubblici, e alla vigilanza sull’esportazione e circolazione dei beni privati con facoltà di esercitare il diritto di prelazione. Questi istituti venivano perfezionati dall’organizzazione di un’amministrazione centrale e periferica specificamente deputata alla conservazione e alla tutela: le Sovrintendenze ai monumenti e le Sovrintendenze archeologiche e alle gallerie. Intanto, essendo ministro Benedetto Croce con la legge n. 204 del 1922 veniva inquadrato il problema della tutela delle “maggiori bellezze naturali”.
Questo contributo è stato pubblicato per il catalogo, a cura di Giulio Paolucci e Maria Angela Turchetti, della mostra realizzata nel 2013 dal Comune di Pienza, dal Mibact e dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, “In sua Dignitate. Reperti confiscati, memorie restituite”. La pubblicazione dalla quale sono tratte anche le tavole fu realizzata da Cantagalli Edizioni, Siena, che qui vivamente si ringrazia.
The Journal of Cultural Heritage Crime (JCHC), con sottotitolo L’Informazione per la Tutela del Patrimonio Culturale, è una testata giornalistica culturale, registrata presso il Tribunale di Roma con n. 108/2022 del 21/07/2022, e presso il CNR con ISSN 2785-7182. Si configura sul web come contenitore di approfondimento, il primo in Italia, in cui trovano spazio i fatti che quotidianamente vedono il nostro patrimonio culturale minacciato, violato e oggetto di crimini. I fatti sono riportati, attraverso un linguaggio semplice e accessibile a tutti, da una redazione composta da giornalisti e da professionisti del patrimonio culturale, esperti nella tutela. JCHC è informazione di servizio, promuove le attività di contrasto ai reati e sostiene quanti quotidianamente sono impegnati nella attività di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio culturale.