di Mario Ascheri
Il trionfo legislativo del fascismo
Erano così poste le basi del perfezionamento del sistema, che si deve alla legge Bottai del 1 giugno 1939, n. 1089, con Norme in materia di tutela delle cose di interesse storico, artistico, archeologico (coeve ad altre per il patrimonio naturale e gli Archivi di Stato), rimaste sostanzialmente in vigore fino alla riforma del 1999. La cosa non meravigli. Anche altri testi normativi del tempo (come i codici e certi testi unici) sono ancora in vigore, ereditati dalla Repubblica. La scienza giuridica del tempo era di prim’ordine, e molti giuristi dettero il meglio di se stessi per la creazione della legislazione del regime nell’interesse collettivo, nazionale, anche se non mancarono i soliti ‘servitori’, proni ai disegni autoritari in atto.
Peraltro, l’acquisizione del consenso, che si fece forte specie dopo i Patti lateranensi, fu favorita dai molti interventi in campo culturale. La legge n. 1497 del 1939 sulla Protezione delle bellezze naturali introduceva una disciplina organica per la protezione del paesaggio, il «bello appartenente alla natura». Ma anche il teatro, la lirica e gli spettacoli viaggianti furono incentivati con sovvenzioni (e sottoposti a controlli), senza trascurare la crescente cinematografia, incentivata da “premi di produzione” (rimasti tradizionali in questa nostra industria), e istituendo un monopolio statale per l’import e la distribuzione dei film prodotti all’estero. Si continuò con la protezione del diritto d’autore (legge 22 aprile 1941, n. 633), le norme per la consegna obbligatoria degli stampati alla Presidenza del consiglio e alle biblioteche nazionali centrali (legge 2 febbraio 1939 n. 374), il riordino della Discoteca di Stato e il servizio d’informazione cinematografico (obbligatorio per i locali di esercizio cinematografico), che ha lasciato un archivio straordinario di immagini (i cinegiornali dell’Istituto Luce, recentemente inglobato nella società di Cinecittà).
Oltre a ciò, nel 1942 sopravvenne la prima legge nazionale di pianificazione urbanistica e territoriale, e nel Codice civile dello stesso anno agli articoli 822 e 824, in collegamento alla legge Bottai, si includevano nel demanio dello Stato gli immobili riconosciuti di interesse storico, artistico e archeologico e le raccolte di musei, pinacoteche, archivi e biblioteche.
Nelle leggi ricordate, e in particolare in quella Bottai del ’39, che riprendeva e integrava le normative precedenti, il patrimonio storico, artistico, culturale e ambientale veniva percepito come il cuore pulsante dell’identità e dell’unità della nostra gente riguardando “tutto ciò che presenta interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, nonché le testimonianze di civiltà, tra cui monete, documenti, libri, stampe, codici di rarità e pregio, e infine ville, parchi e giardini artisticamente e storicamente rilevanti”, senza trascurare quei beni immobili segnalati dalla storia politica e militare, dalla letteratura e dall’arte, per assegnarne la cura allo Stato.
Va serenamente riconosciuto quindi, ed è finalmente possibile oggi, che il quadro complessivo entro il quale ancor oggi (in un contesto purtroppo complicato dai conflitti di competenza e dalla drammatica scarsità delle risorse) si muove la disciplina di tutela era saldamente acquisito nella riforma Bottai.
Dal fascismo alla Repubblica
Merito del fascismo, quindi? Direi meglio: della cultura italiana. Che aveva radici profonde, come risalenti nella storia erano le sensibilità incentrate sui ‘beni culturali’.
Perciò tra periodo fascista e repubblicano non c’è stata quella discontinuità che si deve e si ama sottolineare in altri campi, e perciò fu facile introdurre l’art. 9 nella Costituzione, così come aderire all’Unesco con un proprio Comitato Nazionale attivo dal 1950 e, pochi anni dopo, alla Convenzione dell’Aja firmata il 14 maggio 1954 da quaranta Stati di tutto il mondo e da noi confermata con la legge del 7 febbraio 1958.
I decenni più vicini a noi non hanno che confermato questo trend, per cui si può ben dire oggi che l’impegno normativo sul piano interno, comunitario e internazionale (per noi anche dipendente dai Patti Lateranensi) sia divenuto imponente, come illustrato in altre pagine di questo catalogo. E volesse il Cielo che ci fosse un rapporto causale diretto tra ricchezza normativa, percentuale di investimento di fondi pubblici e privati e risultati effettivi nella tutela!
Purtroppo tra i tanti paradossi, per non dire altro, dell’Italia contemporanea c’è la notoria consapevolezza (e diffusa fierezza) di essere titolari di gran parte del patrimonio mondiale d’arte e di beni culturali in genere, e di essere al tempo stesso il Paese che percentualmente ad essi meno destina, comparativamente, in termini di risorse pubbliche e private. Tra biblioteche nazionali al limite della sopravvivenza, fondi librari preziosissimi depredati, monumenti importanti danneggiati dagli eventi sismici o più semplicemente dall’incuria (come gli edifici di Pompei per i quali è freschissima la tirata d’orecchi dell’Unesco) o archivi importanti trascurati o abbandonati all’esportazione, c’è solo l’imbarazzo della scelta sul fronte da scegliere per cominciare a lamentarsi. Eppure, come al solito da noi, in mezzo a tante difficoltà ci sono iniziative anche difficili che riescono, superando ogni ostacolo, grazie alle professionalità esistenti, alle forti sensibilità culturali pur sempre diffuse nelle istituzioni e al volontariato di base sempre più indispensabile per operazioni come quella attestata da questo libro.
La tutela e valorizzazione ci sono, nonostante tutto, perché procedono sul solco di tradizioni antichissime. E ad esse vogliamo ora dare uno sguardo, perché aiuta a capire il radicamento profondo dell’impegno attuale, come quello qui testimoniato, e le ragioni di un (relativo) ottimismo.
La ‘cosa’, la comune cultura, prima del nome ‘bene culturale’
In passato la tutela era inversamente proporzionale al dato quantitativo della normazione? E si rispettava ‘naturalmente’ il bene culturale per il rispetto (o il disinteresse) che incuteva? Si può forse partire da un’ipotesi generica del genere.
Ma prima ancora ricordare, perché lo si dimentica troppo spesso, che le testimonianze culturali dell’antichità pervenuteci sono solo una minima parte del ‘prodotto’ effettivo, tenuto conto delle selezioni selvagge e anche casuali dovute agli eventi più diversi ed eterogenei che lo hanno investito.
Guerre, incendi, naufragi, il deperimento dei materiali, spoliazioni palesi e occulte, di ogni genere hanno depauperato un patrimonio enorme, che ha segnato da sempre le culture grandi e piccole, più o meno durevoli, del nostro globo. Vero che non tutte le popolazioni hanno lasciato opere visibili e destinate alla trasmissione. Alcune culture si sono sviluppate esprimendo in modo effimero il gusto per il bello e senza registrare per scritto o in altro modo i propri caratteri. Altre ancora poi, pur di grandissima sensibilità e raffinatezza, non hanno potuto per motivi precisi sviluppare certi filoni di ricerca artistica.
Pensiamo a quello che la religione, con il divieto di rappresentazione dell’Essere supremo, ha comportato per taluni popoli, o a quello che nella lunga vicenda cristiana ha significato anche soltanto il Protestantesimo in un continente ricchissimo di tradizione iconografica, oppure, tanto tempo prima la drammatica esperienza dell’ iconoclastia. Che è vicenda, tuttavia, molto significativa. Ci saranno anche stati buoni motivi contingenti per la Chiesa romana di contrastare l’orientamento contro il culto delle immagini (ma già Tertulliano, morto nel 220, era stato durissimo al proposito) ormai prevalso in Oriente, ma certo il fatto che quel culto fosse così radicato e infine vincente non può essere dipeso solo o prevalentemente dalla superstizione di popoli incolti e dai calcoli di una gerarchia ecclesiastica opportunista.
Quelle immagini permettevano a tutti di partecipare, di mettersi in sintonia con la divinità (o l’umanità) rappresentata allo stesso modo in cui tanti secoli prima ci si affascinava (com’avviene ancor oggi) ad ascoltare le storie di Odisseo o del pelide Achille e così via o come nelle campagne si amava sentire i vecchi raccontare le storie dell’Orlando furioso o le burla del ‘sega la vecchia’…
Beni culturali diversissimi, vero? Eppure, che si tratti di immagini, pittoriche o monumentali, grandi o piccole che siano, o di romanze o idee tramandate in modo orale o scritto, via stampa o web che sia, sono realtà che interpretano ed esprimono desideri, propositi, aspirazioni e quant’altro è della nostra umanità: sempre nuova e sempre diversa eppure sempre anche antica, radicata com’è in modo profondo nella natura umana.
Perciò possiamo ‘riconoscere’ il bene culturale del passato o di una cultura diversa dalla nostra e perciò c’è la cooperazione internazionale nella protezione dei beni culturali sentiti, pur nella loro incommensurabile diversità, come partecipi di una stessa cultura di base comune, ancestrale, umanamente universale. Non è solo il loro valore di mercato che motiva gli sforzi coordinati delle istituzioni internazionali e delle polizie nazionali specializzate, ma il loro significato intrinseco che motiva una mobilitazione così variegata. L’essere comunque un frammento della creazione umana, quale che sia di volta in volta la forma assunta, motiva a un tempo la creazione del bene culturale e l’interesse successivo per esso.
E la sua ‘riconoscibilità’ non è appannaggio soltanto di noi ‘moderni’. Come noi oggi, i nostri antichi sapevano riconoscere il bene culturale, anche se non sempre in modo consapevole o nei termini attuali.
Si sono nel corso dei secoli abbattuti monumenti, decapitate tante statue e bruciati tanti libri, anche recentemente. Ma tanto è stato rispettato anche spontaneamente, senza bisogno di minacce, per il valore che il ‘bene’ sapeva esprimere anche per la persona poco preparata culturalmente. Si può distruggere il ‘valore’ del bene culturale, ma allora consapevolmente, per odio ideologico, per avversione profonda, e riconoscendone così, implicitamente, il rilievo culturale.
Ma procediamo con ordine, ossia con qualche esempio significativo.
[Continua…]
Questo contributo è stato pubblicato per il catalogo, a cura di Giulio Paolucci e Maria Angela Turchetti, della mostra realizzata nel 2013 dal Comune di Pienza, dal Mibact e dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, “In sua Dignitate. Reperti confiscati, memorie restituite”. La pubblicazione dalla quale sono tratte anche le tavole fu realizzata da Cantagalli edizioni, Siena, che qui vivamente si ringrazia.
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