di Mario Ascheri
Echi dal passato più antico
I tanti reperti di cui ancora godiamo (nonostante tutte le molte perdite) del mondo pre-romano, etrusco soprattutto, in collegamento, come già nel mondo orientale, con la tumulazione, ci consentono di cogliere come gli oggetti d’uso fossero ritenuti intrinseci al mondo della persona defunta e meritevoli pertanto di essere proiettati, per la loro conservazione, nel futuro.
Erano ‘valori’, piccoli o grandi, aurei o meno che fossero e le norme ampiamente diffuse a tutela delle inumazioni presso i popoli più vari danno la percezione di quanto sacri si ritenessero quei beni. Il ‘bottino di guerra’, un retaggio generale nella storia dei popoli, è di nuovo un fatto polivalente. Furto legale di cose utili per la vita di tutti i giorni, ma anche asportazione d’arredi pazientemente e amorevolmente raccolti e conservati. Ricordi di persone, di momenti, di creazioni anche semplici: il tronco di legno lavorato, la pietra scalfita…
La profanazione della tomba era ritenuto un crimine efferato. C’è qualcosa di più potente ai fini della protezione del ‘bene culturale’ che accompagnava il morto? Ancora ai tempi di Fabio Massimo era ritenuto opportuno lasciare a Taranto le statue degli “dei adirati”, pur portando via ogni altra ricchezza, ma Claudio Marcello portò via da Siracusa, nel 212 av. Cr. le cose più belle (racconta Plutarco) per accrescere il proprio trionfo a Roma ma anche per abbellire la città di raffinatezze elleniche, le più prestigiose.
Duemila anni dopo, nel 1796, un giovane e intraprendente generale, Napoleone, esortava alla campagna d’Italia ammonendo “Voi siete nudi e mal nutriti (…), io vi condurrò nelle pianure più ricche del mondo”, e con ciò sottointendendo un prevedibile bel bottino per tutti i gusti, compresi quelli estetici. E fu proprio il dinamismo napoleonico (devastante per i beni culturali) ad accelerare, come non mai, l’attenzione internazionale per i pericoli corsi dai patrimoni artistici durante gli eventi bellici. Famosa in passato era stata, ad esempio, l’asta che ebbe luogo nel 146 av. Cr. dopo la presa di Corinto, quando un dipinto di Aristide del IV sec. realizzò un’offerta così alta da essere sospetta e consigliare pertanto il ritiro del dipinto dalla vendita.
La storia romana è fitta di altri episodi che denotano la coscienza del valore dei beni culturali e della loro opportuna fruizione pubblica: la statua in piazza è res Populi Romani, e pertanto demaniale, inalienabile. Per statue, dipinti e libri, dal tempo di Cicerone in poi le testimonianze sono molteplici. Vitruvio consigliava di riservare delle stanze alla raccolta dei libri nel programmare dimore patrizie e la cura di edifici e spazi pubblici divenne un topos a partire dalla tarda età repubblicana romana. Le cose belle, mobili o immobili, conferiscono prestigio e questo a sua volta si costruisce con il bello.
Roma ereditò dalla Grecia questi valori e li coltivò per secoli, ovunque arrivavano le sue leggi e le sue armi. E i beni costitutivi dell’ambiente pubblico, anche se opera di privati, divenivano parte d’un tutto ritenuto per ciò stesso degno di tutela: con “norme a garanzia del decoro di strade ed edifici antichi o di recente costruzione… In larghissimo anticipo, dunque, l’ordinamento romano preannuncia numerosi principi che solo in epoca moderna entrano a far parte del repertorio proprio della tutela”. Anche la letteratura presenta spunti importanti. Verre, ad esempio, venne distrutto da Cicerone per essere dipinto come un saccheggiatore senza risparmio e alcun rispetto dei beni d’arte laddove avrebbe dovuto, come amministratore pubblico, esserne ben rispettoso. La cultura era divenuta strumento di governo, connotato di civiltà.
La poesia, tanto per offrire uno spunto in tutt’altro campo, faceva meritare ad Archia (personaggio questa volta difeso da Cicerone) la cittadinanza romana, come oltre 13 secoli più tardi, nel 1341, motiverà la straordinaria incoronazione del Petrarca, che egli stesso volle avesse luogo in Campidoglio, con tutto il suo carico di tradizione storico-culturale, e da parte di un senatore romano dopo esser stato esaminato a Napoli da un re, e non da uno qualsiasi, ma da quello ritenuto il più dotto del tempo: Roberto d’Angiò. Ma non è la rinascimentale ‘disputa delle arti’, al tempo del Petrarca ai suoi esordi dopo i molti episodi antichi, come nell’orazione Pro Archia di Cicerone, che deve qui occuparci.
Pittori e scultori potevano anche essere ritenuti socialmente meno apprezzabili (e remunerati) di scrittori di problemi giuridici o filosofici, ma il loro linguaggio era più accessibile e condivisibile. Il cristianesimo interverrà pesantemente nei contenuti della creazione culturale, ma la stessa storia sofferta di certe opere ‘pagane’ e della loro tradizione nei secoli conferma quell’implicito alone di venerazione che circondava l’opera dell’ingegno: la cura dei benedettini per libri ed edifici religiosi fanno parte a pieno titolo della storia della tutela dei beni culturali.
Ma nel solco di una tradizione antica. In diritto romano il rilievo pubblico degli edifici, ad esempio, per quanto privati, è documentato già nella prima età imperiale, che vide anche il tentativo di contenere, dopo Costantino, la furia dei fedeli cristiani troppo zelanti, distruttiva delle testimonianze monumentali pagane.
I conflitti religiosi prima e le popolazioni barbariche poi inflissero dure perdite al patrimonio culturale tutelato a fatica dalle autorità pubbliche, ma ogni volta che si volle ricostruire l’immagine del potere pubblico sovrano il rispetto e la promozione del patrimonio artistico e monumentale. Per i tempi di Teodorico re degli Ostrogoti, intorno al 500, ci sono rimaste le precise testimonianze di Cassiodoro.
Poco decenni dopo, la grande compilazione di Giustiniano (Corpus iuris civilis), riassumendo secoli di tradizione giuridica romana infondendole l’ispirazione cristiana, non mancò di accogliere norme in tema. Ad esempio, risolvendo la vexata quaestio sin dall’epoca ‘classica’ (tardo-repubblicana/proto-imperiale) della tabula picta in modo che, in caso di contrasto tra il diritto del proprietario e quello del pittore, quest’ultimo avesse la preferenza. Inutile dire che queste fonti sollecitarono poi sottili discussioni dei giuristi basso-medievali, delle fiorenti università italiane del tempo. A parte la loro tecnicità, si tratta di discussioni di grande interesse, perché incentrate sul valore del dipinto e, quindi, con chiara coscienza del diverso rilievo del dipinto, un ‘bene culturale’ facilmente soggetto ad apprezzamenti variabili, ma pur sempre ‘valutabile’ e quindi protetto.
Per i prodotti della scultura ugualmente si discusse tra i giuristi romani, ma le soluzioni non furono sempre commendabili, data, ad esempio, la possibilità della fusione del bronzo, e pertanto di riporre in pristino la materia elaborata (“specificata”) dallo scultore (a differenza di quanto avveniva per il marmo): con ciò non si permetteva la protezione teorica del lavoro dell’artista.
Cambiò molto nei periodi bui dell’alto Medioevo?
Per l’Italia essi cominciano con la terribile guerra gotica, che con le sue reiterate devastazioni segnò veramente il collasso della civiltà romana in Italia, preparando così l’impossibilità di resistere ai Longobardi.
Eppure, proprio da quel periodo ci viene una testimonianza che riassume tutta una cultura. Belisario, il generale bizantino che avrebbe liberato l’Italiah, scrisse al re goto Totila, che stava per distruggere Roma, che se “creare bellezze inesistenti in una città”era opera di uomini grandi, distruggere quelle esistenti era condannare la propria immagine per sempre, nel futuro. Roma era creazione di intere generazioni, di “grandi artisti accorsi da tutto il mondo”; gli attentati a Roma sarebbero stati un delitto contro l’umanità tutta.
Roma fu salva, pur continuando a decadere, ma si salvò anche dal primo periodo longobardo, noto per le sue devastazioni e saccheggi, Allora sarebbe fuori di luogo cercare la tutela se non nella cura con cui fu talora asportata l’opera d’arte ‘riconosciuta’ per la sua bellezza o il suo valore di scambio.
Ma c’è un dato che deve far riflettere per il periodo successivo ai primi tempi dell’invasione. I Longobardi non avevano tradizioni scritte, ma avevano già avuto contatti con la cultura romano-bizantina e con la conversione al cristianesimo avevano recepito il rispetto per il ‘sacro’, a cominciare dalle chiese che erano state riconosciute dal diritto imperiale e dal diritto canonico in formazione come ‘res sacrae’. Il che significava non solo intoccabili per riuscire ad incutere un naturale rispetto, ma anche tali in quanto proprietà inalienabili, sottoposte a un regime del tutto particolare vista la loro destinazione al culto.
Perciò da quando, con Costantino, il cristianesimo era divenuta religione ‘lecita’ era iniziata anche la pratica del riuso, in modo da trasformare i templi pagani in chiese adatte al nuovo culto, quali sono le basiliche paleo-cristiane appunto. Ma è nello stesso Arco di Costantino, accanto al Colosseo, che il riuso di frammenti antichi trovava posto, congiungendo passato e presente, e poi lo stesso imperatore già aveva ordinato di compilare un inventario degli edifici e delle opere pubbliche, chiaramente esprimendo un’esigenza non solo patrimoniale.
Peraltro, recenti mostre e restauri a talune chiese importanti (da Castelseprio a Santa Giulia di Brescia) hanno invitato negli ultimi decenni a rivedere tanti luoghi comuni sui Longobardi e una lettura attenta della loro legislazione (in specie quella rispettosissima delle chiese di Liutprando), comprendente anche i maestri comacini, aiuta molto a capire come essi seppero recepire in modo originale la cultura dei vinti. Perciò i siti Unesco sui maggiori centri longobardi in Italia si sono rapidamente moltiplicati negli ultimi anni e stanno dando prova di grande vivacità.
Della renovatio culturale del tempo di Carlo Magno è invece più facile parlare. La nostalgia recettiva non riguardò solo le istituzioni, e quindi l’Impero rifondato come ‘sacro’, ma la stessa scrittura (la ‘carolina’), mentre il privilegio conferito alla Regula benedettina, con l’obbligo per i cenobi di adottarne le norme da ora definitive, favorì indubbiamente l’istituzione degli scriptoria monastici cui tanto si deve, notoriamente, per la trasmissione dei testi classici.
Il libro diviene un bene cult, frutto dell’impegno di tanti specialisti – per preparare la pergamena, scrivere, rubricare e miniare -, ma anche l’edificazione dei grandi conventi (Cluny ecc.) prima, e delle grandi cattedrali dopo, segnò un ritorno alla monumentalità del passato classico che dette il netto segnale che l’Europa aveva imboccato una svolta importante intorno al 1000.
Quei primi anni del nuovo millennio non furono solo segnati dall’offensiva contro i Saraceni, ma dalla consapevole ripresa di materiali e moduli antichi. Un cantiere straordinariamente espressivo delle grandi novità che la nuova cultura comportava è quello offerto dai ‘miracoli’ realizzati a Pisa con una precocità impressionante – in contemporanea a molti esempi di materiali di spoglio a Roma, come avvenne per mensole della basilica di Massenzio utilizzate nell’edificio costruito per il controllo del pedaggio di ponte Emilio tra il 1040 e il 1065. Roma, peraltro, dette anche, un secolo più tardi, un esempio impressionante di coscienza pubblica del significato di un’emergenza storica quando il suo Senato, nel 1162, decretò che la proprietà riconosciuta a un’abbazia della Colonna Traiana non doveva tradursi in lesione dell’onore cittadino: pertanto essa (con minaccia della pena di morte al trasgressore) non avrebbe dovuto mai essere danneggiata né abbattuta, in eterno, finché duri il mondo.
Le fabricae delle grandi chiese cittadine (oggi più note come ‘opere’) divengono nel corso del 1100 delle istituzioni non comparabili con le chiese del passato. Ora la cattedrale è frutto di un ente cittadino, espressione della comunità locale tutta, e perciò distinto dall’episcopio che risente delle situazioni congiunturali della Chiesa centrale e della sedevacanza locale.
Le scuole canonicali fanno il resto, realizzando anche un travaso di codici dai cenobi alle città e stimolando il desiderio di cultura dei laici, che cominciano a frequentare i corsi universitari. Le università consolidano l’arte del libro e la protezione del bene ‘opera’ individuale dei professori con gli stationarii. La contrattualistica e i testamenti ormai conservati intorno al 1200 attestano l’alto valore dei libri, la loro vendita e la loro normale trasmissione ereditaria. I creditori sanno dove colpire quando hanno debitore un professore o un ricco studente, e la loro normale esenzione dalle gabelle conferma da un lato il valore dei libri e dall’altro la corsa ad assicurarsi la presenza di studenti e professori in città.
Intanto amministrazioni comunali, chiese e conventi (pur mendicanti), ospedali e ricche famiglie fanno la corsa per commissionare agli artisti più noti cappelle, statue e tavole. Anche in questo caso sono i registri comunali e i contratti a parlare chiaro sugli elevati valori delle opere.
L’architettura diviene un’arte anche civile e si hanno esempi precoci di disposizioni urbanistiche e piani regolatori. Alcuni esempi senesi sono illuminanti. Spigolando entro una casistica veramente molto ampia, segnalo che nella più antica legge senese conservata (1208) era già disciplinata la dimensione uniforme delle aperture che si volessero aprire (a pagamento) su certe mura comunali per illuminare la propria casa; più tardi, che il Campo doveva essere tenuto pulito la sera per il sollazzo dei cittadini già nei primi anni del Trecento, quando si dispose anche di predisporre un bel ‘prato’ (giardino) fuori porta Camollia con la motivazione esplicita che la città non era un vile castello e si doveva pertanto accogliere in modo signorile chi si approssimasse ad essa.
Il Quattrocento poi è tutto un infittirsi di testimonianze. Si va dal monastero fuori porta Romana abbattuto nei primi anni del secolo perché impediva di godere la prospettiva, fino alla costituzione, sempre in quegli anni di consolidamento di un equilibrio politico difficile ma duraturo, di un apposito Ufficio dell’Ornato, con poteri incisivi per assicurare che gli interventi pubblici e privati migliorassero viabilità e assetto urbanistico.
È in questo contesto di grande sensibilità artistica e architettonica che si educa un Enea Silvio Piccolomini che non a caso è stato come papa l’artefice straordinario dell’avventura architettonica di Corsignano/Pienza e di una bolla rimasta famosa (Cum almam nostram Urbem, 1462) per ribadire, in polemica implicita con papa Niccolò V cui pure si deve la fondazione della Biblioteca Vaticana, il divieto di ogni demolizione o spoliazione di edifici ruinati in città.
La sua sensibilità normativa aveva dei precedenti importanti. Nel Duecento operavano certamente a Roma dei preposti alle strade, mentre affluivano artisti per abbeverarsi ai grandi modelli antichi, da Nicola Pisano ad Arnolfo di Cambio, e certamente il primo giubileo (1300) fu occasione di interventi urbanistici. Nello statuto del 1363, poi, era fatto esplicito divieto di ruinare edifici antichi, e Martino V, rientrato solennemente in Roma, nel 1425 dovette ripetere quel divieto con la bolla Etsi de cunctarum, che consentiva comunque di abbattere gli edifici che erano stati addossati a quelli antichi. Lo stesso intervento di Pio II sembra aver avuto scarsa efficacia, perché i suoi successori aiutarono piuttosto la trasformazione della città e nel frattempo il collezionismo ebbe un impulso vigoroso – come già avveniva per i manoscritti dal tempo del Petrarca.
Il gusto rinascimentale comportò dove più, dove meno, interventi profondi nelle nostre città medievali, che poterono preservarsi meglio solo dove concorsero stagnazione economica e cultura diffusa. Dove più accorsero risorse, fu un infittirsi di interventi artistici e monumentali, specie a Roma, grazie alla munificenza dei papi e al consolidarsi di una ricca aristocrazia. Ma le novità dettate dalle nuove sensibilità architettoniche portarono a larghe devastazioni del ricchissimo patrimonio classico.
Comunque, le grandi trasformazioni urbanistiche di Roma, con la sua fantastica esplosione barocca in grande parte alle spese dell’eredità antica, furono operate sempre con rinnovamento della normativa e ampliamento dell’amministrazione specificamente rivolta alla cura del patrimonio monumentale ed artistico. Perciò Roma, la città più desiderata, e non solo dai barbari antichi, è oggi la città più visitata di tutto il mondo. La regina Cristina vi si poteva trasferire, venendone accolta con grandi feste e ne fu tratta ad arricchirla di preziosi manoscritti e opere d’arte. Altri, Napoleone in primis, fu l’ultima, notoria, causa di grande turbamento dei suoi tesori.
La Restaurazione, un po’ per questo ma soprattutto per la tradizione di tutela consolidata da secoli, proprio a Roma fece nascere il primo provvedimento organico in tema di tutela, cioè l’editto del cardinale Pacca del 1820. Il granducato di Toscana (gli Uffizi sono proprietà dello Stato dal 1742) e il Regno di Napoli per gli scavi di Pompei, soprattutto, avevano già fatto molto, ma quello rimane il monumento legislativo preunitario più notevole.
Pour cause Goethe aveva ritrovato se stesso a Roma e de Quincy aveva scritto sette lettere appassionate per far capire ai rivoluzionari suoi connazionali la grandezza della città e l’impossibilità di… “imballare le vedute di Roma”.
Questo contributo è stato pubblicato per il catalogo, a cura di Giulio Paolucci e Maria Angela Turchetti, della mostra realizzata nel 2013 dal Comune di Pienza, dal Mibact e dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, “In sua Dignitate. Reperti confiscati, memorie restituite”. La pubblicazione dalla quale sono tratte anche le tavole fu realizzata da Cantagalli edizioni, Siena, che qui vivamente si ringrazia.
Immagine di copertina: Applique in bronzo a protome di grifo (Catalogo mostra).
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