Caravaggio, Palermo, un capolavoro, un furto, le confessioni, i pentiti. Gli ingredienti di una storia semplice? Non esattamente.
Una storia semplice è il titolo dell’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia, liberamente ispirato alla vicenda giudiziaria riguardante il furto della tela della Natività coi Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio dall’oratorio di San Lorenzo della Compagnia dei Cordiglieri e Bardigli di Palermo, avvenuto nella notte fra 17 e 18 ottobre del 1969.
Proprio così venne intitolato anche l’ultimo capitolo del report del 2018 redatto dalla Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi come risultato delle indagini condotte per ricostruire le vicende legate al furto della Natività: Una storia semplice. Lo svolgimento dei fatti e le intricate, quanto sfortunate, indagini che ne conseguirono non lo furono altrettanto.
Le ricerche e le testimonianze si snodano infatti attraverso nomi di personaggi noti, confessioni di capimafia, ritrattazioni, testimonianze di studiosi, ricercatori e antiquari, creando un labirinto di informazioni nel quale può divenire complicato districarsi. Vediamo di fare chiarezza.
Nella notte fra il 17 e il 18 ottobre 1969 la tela della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio veniva trafugata con inverosimile semplicità dal luogo in cui era collocata, da circa tre secoli, all’interno dell’oratorio di San Lorenzo di Palermo. Secondo le testimonianze il furto venne commesso da alcuni uomini incappucciati che scapparono successivamente con un furgone. Da allora, nonostante siano passati ormai più di cinquant’anni, le indagini si sono susseguite in modo disomogeneo e, seppur vagliando innumerevoli testimonianze e piste investigative, la tela non è mai stata ritrovata.
L’FBI ha inserito il dipinto all’interno della “Top Ten Crimes”, la classifica dei dieci casi di furti d’arte più importanti del mondo, attribuendogli un valore di mercato di circa 30 milioni di euro.
Oltre alle indagini non si sono arrestate neppure le ricerche e gli studi circa la genesi pittorica dell’opera; anzi, proprio recentemente si è raggiunto un punto di svolta. L’opera, di grande realismo, è un olio su tela di notevoli dimensioni che campeggiava sopra l’altare incastonato all’interno dei cosiddetti “teatrini”, le opere barocche dello scultore palermitano Giacomo Serpotta che ornavano il complesso dell’Oratorio di San Lorenzo. Proprio la particolare collocazione definisce l’inestimabile valore dell’opera nel suo complesso: non solo in relazione al dipinto, ma imprescindibile rispetto a tutto il contesto in cui si inserisce.
Per lungo tempo la realizzazione del dipinto venne collocata a Palermo. Il pittore si trattenne in Sicilia fra il 1608 e il 1609 e, sulla base di testimonianze dei primi biografi come Giovanni Baglione e Giovan Pietro Bellori, si è ritenuto che l’opera fosse stata realizzata proprio durante il soggiorno palermitano. I primi dubbi circa la realizzazione siciliana furono di natura stilistica. Lo stile del dipinto, infatti, si discosta da quello delle altre opere realizzate durante il periodo siciliano dell’artista e tra gli studiosi iniziò a generarsi l’idea che l’opera fosse stata realizzata molto prima della data finora proposta. Contrariamente a quanto si è a lungo creduto, recenti studi attribuiscono dunque la realizzazione del dipinto ad anni precedenti, precisamente al 1600, su commissione del commerciante Fabio Nuti a Roma.
Tornando al cuore delle indagini, vediamo come nel tempo si siano susseguite varie versioni e testimonianze, per lo più riconducibili a un unico regista, un’ombra nera sempre presente: Cosa Nostra.
La mattina del 18 ottobre 1969 furono le due custodi dell’Oratorio a rendersi conto del furto, trovandosi di fronte un enorme buco al posto della tela nella cornice. Il dipinto era stato reciso col più grezzo degli strumenti, un taglierino, e poi arrotolato alla buona e trafugato. Da quel momento non se ne ebbe più traccia. Sparito nel nulla, ma comparso più volte nelle più disparate confessioni e testimonianze che vari pentiti mafiosi rilasciarono in seguito.
C’è chi ha dichiarato che la tela sia stata rubata dalla mafia al fine di contrattare con lo Stato, chi testimonia di averla vista usata come scendiletto da Totò Riina in persona e chi ricorda come il quadro sia stato rubato per essere esposto durante le riunioni della Cupola come trofeo a testimonianza del valore e del prestigio dei suoi componenti.
Secondo alcuni, come Vincenzo La Piana, nipote del boss Gerlando Alberti, la tela sarebbe ancora integra e conservata nei forzieri dello zio insieme a droga e banconote, mentre secondo altre versioni, come quella di Gaspare Spatuzza (noto per la strage di via d’Amelio) il quadro sarebbe stato nascosto in un fienile e divorato dai topi nel corso del tempo.
A ritenere il dipinto ormai distrutto ci potrebbe condurre anche la testimonianza di Francesco Marino Mannoia, testimonianza d’eccellenza in quanto il Mannoia prese personalmente parte al furto nel 1969. Questi in prima battuta dichiarò al giudice Giovanni Falcone che a causa di alcuni errori nel trasporto del quadro, il dipinto era stato danneggiato e reso invendibile al punto da costringere i ladri stessi a dar fuoco all’opera. Nel cercare di riparare il quadro dalla pioggia, infatti, erano stati commessi alcuni danni irreparabili avvolgendo la tela in un tappeto che ne aveva incrinato irreversibilmente la vernice disintegrandola parzialmente. Questa versione venne però ritrattata nel 2018 dallo stesso Mannoia, che giustificò la falsa testimonianza con la forte pressione psicologica inflittagli dall’indefesso impegno investigativo di Falcone.
Vari pentiti affermarono che sebbene il furto fosse stato compiuto effettivamente da un gruppetto di balordi appartenenti alla piccola criminalità palermitana, il dipinto e le manovre giunsero ben presto nelle mani di Stefano Bontate e, in ultimo, di Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi, uno dei più potenti gangster siciliani di sempre.
La presenza fondamentale di Badalamenti nella vicenda è testimoniata anche dalle dichiarazioni del parroco dell’Oratorio, don Benedetto Rocco. Don Rocco, le cui testimonianze sono state a lungo incomprensibilmente omesse e le registrazioni persino occultate, ha dichiarato attraverso un’intervista inedita rilasciata nel 2001 al regista Massimo D’Anolfi che il boss cercò sin da subito di avviare delle trattative con lui per contrattare il rilascio dell’opera trafugata in cambio di denaro. Don Rocco racconta nell’intervista, che è stata divulgata solo nel 2019 dal Guardian, di aver ricevuto ben due lettere da parte di Badalamenti, una delle quali comprendeva pezzetti della tela in allegato, proprio come la mafia è solita fare con le vittime dei suoi rapimenti per indurre i parenti alle trattative. Don Rocco conclude la preziosa intervista dichiarando che, dopo aver informato le forze dell’ordine delle missive e della tela ritagliata, non solo non venne creduto, ma persino indagato fino all’archiviazione del caso.
Per il capolavoro caravaggesco sembrava dunque non esserci più niente da fare, quando un colpo di scena riaprì le speranze, proprio nel maggio del 2018. Le dichiarazioni di un altro pentito, Gaetano Grado, personalmente coinvolto nel furto, si sono rivelate di grande importanza nell’imprimere una svolta radicale alla vicenda giudiziaria.
Grado, infatti, ha dichiarato nel maggio del 2018 che l’opera era stata a lungo in possesso del boss Badalamenti il quale, grazie al contatto con un ricco commerciante d’arte svizzero, l’aveva venduta proprio in Svizzera, dove ora potrebbe realisticamente trovarsi, “a fronte di una grande somma di denaro, pagata in franchi svizzeri, e lì verosimilmente scomposta, purtroppo, in sei o otto parti, per essere venduta sul mercato clandestino internazionale”.
Il mercante d’arte infatti avrebbe convinto Badalamenti della necessità di sezionare il dipinto al fine di accrescerne la vendibilità sul mercato nero degli oggetti d’arte. È pratica comune tra commercianti e trafficanti d’arte quella di suddividere le tele di dipinti famosi in varie parti al fine di conservarle meglio e accrescerne la vendibilità, dunque non risulta difficile immaginare che il proposito del mercante fosse quello di tagliarla lungo il profilo delle cuciture in modo da poterla poi ricostruire allettando così i potenziali acquirenti al recupero di tutti i pezzi del puzzle. Il boss acconsentì rapidamente a farla scomporre in più parti e la fece inviare in Svizzera per mezzo di un camion per la frutta.
Proprio in Svizzera si stanno attualmente concentrando le indagini, ancora una volta alla ricerca di testimoni per chiarire una volta per tutte il mistero. L’ipotesi che il dipinto di Caravaggio sia stato trasferito nei porti franchi svizzeri e che vi sia ora custodito è altamente verosimile, considerata la ben nota importanza che questi depositi rivestono nell’agevolare il mercato nero dell’arte e il riciclaggio di denaro, il contrabbando e altre attività illegali.
A distanza di oltre cinquant’anni la Natività continua ad essere un super latitante. Si tratta forse del dipinto più ricercato al mondo: “Il number one. Most wanted” come è stato definito dal Generale Riccardi, Comandante dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. “Di certo” – ha affermato recentemente il generale Riccardi – “c’è solo che il quadro manca. Un’altra certezza è che continueremo a cercarlo, finché ci saremo”.
In prima fila per le ricerche dunque ci sono i carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, ma di recente si sono attivati molti più attori, tra cui lo stesso Vaticano che ha cominciato a indagare in qualità di parte lesa, essendo proprietario ufficiale del dipinto nelle vesti della Curia di Palermo
Il tenente colonnello Nicola Candido del TPC ha dichiarato esplicitamente che il ritrovamento del dipinto risulta il primo obiettivo nella lista delle più importanti opere trafugate ricercate dal reparto operativo.
L’importanza del caso non è solamente relativa alla ricerca del dipinto in sé, quanto alla ricostruzione dell’intero scenario del furto, che da anni si sta tentando di ricomporre grazie alle versioni dei collaboratori di giustizia.
I danni causati dal furto si sono rivelati inestimabili, non solo per averci privato di un prezioso capolavoro, ma anche per aver messo in evidenzia tutta la fragilità di un contesto culturale in cui ancora prevale l’incuria, la negligenza, l’illegalità e gli intricati giochi di potere di stampo mafioso in relazione ai traffici d’arte.
In attesa del sospirato ritrovamento possiamo almeno consolarci virtualmente ammirando la magnifica riproduzione della Natività realizzata grazie all’impiego di sofisticate tecnologie di restituzione e stampa digitale.
Il 12 luglio 2015 è stata infatti collocata proprio sopra l’altare dell’oratorio di San Lorenzo una riproduzione fedelissima dell’opera nelle dimensioni originali di 268 per 197 centimetri. La copia è stata commissionata alla società Factum Arte, un laboratorio di Madrid specializzato nella riproduzione di fac-simile pressoché perfetti delle opere d’arte, nel corso di un progetto finanziato da Sky Arte per la restituzione di capolavori distrutti o trafugati.
L’opera, di forte impatto scenico e perfettamente collocata nel contesto di appartenenza, ha il duplice scopo di far rivivere e rendere giustizia al capolavoro caravaggesco, tanto quanto di innescare un dibattito sulla possibilità offerta dalle nuove tecnologie di conferire eternità a un’opera anche in assenza del suo originale.