di Mario Ascheri
Quello che segue è l’intervento al dibattito sulla tutela dei beni culturali promosso da Monte dei Paschi di Siena e svoltosi nel salone di Palazzo Salimbeni il 23 settembre 2015.
Gli atti non sono stati pubblicati: ho sviluppato il testo da appunti miei e di un ascoltatore che ringrazio vivamente per l’attenzione, ma riservo la bibliografia a un ulteriore approfondimento. Il dibattito sviluppatosi con il nuovo anno 2020 intorno ai dipinti acquistati dagli Uffizi, ad esempio, merita di svolgersi pacatamente e con gli approfondimenti necessari. Peraltro, oggi che anche legislativamente si parla di usi civici e domini collettivi, ci si può chiedere fino a che punto anche le opere eseguite in passato con elargizioni di comunità locali non debbano essere ‘ricondotte’ in qualche modo alle collettività che di quelle hanno raccolto l’eredità.
Devo un vivo ringraziamento per l’invito a parlare in una sede così prestigiosa e in mezzo a tanti capolavori in una città che ha dato così tanto all’arte in tutte le sue manifestazioni e che ancora sollecita e nutre stuoli di creatori dalla musica al cinema (dove abbiamo appena perso l’ottimo Sergio Micheli) al teatro, poesia, pittura, scultura, scrittori delle più varie attitudini. Tutto sommato se ne parla ancora poco di questa che è la ricchezza di fondo, ‘costituzionale’ della città – accanto alla grande tradizione bancaria che rimane sempre tale nonostante quel che è successo. Anzi mi piace ricordare un fatto credo ancora sconosciuto ai più, e cioè che quand’ancora non c’erano i Paschi banca, ma l’ufficio dei Paschi di Maremma, nel 1475, dovette finanziare la riparazione dei bagni di Sant’Ansano a Dofana (vicino a Montaperti come si sa), devastati dalla piena della Malena.
Era un intervento di carattere economico-sanitario? Non direi, visto che la richiesta venne dai Savi dell’Università, che guardavano a quei bagni come bene culturale, perché utili anche per la ricerca (e chissà che tracce monumentali della loro antichità possedevano allora). Del resto poco prima era avvenuto un episodio del genere per Petriolo, e comunque ricorderei ancora che è sicuro (e ben noto) che le antiche terme di Macereto, ahimè perdute come quelle di Sant’Ansano, fossero arricchite da affreschi dei grandi pittori del primo Trecento senese.
Il bene culturale a Siena era protetto non solo dalle leggi, ma dall’uso che ne veniva fatto per la cittadinanza, anche quando di produzione privata. Esso doveva dare ‘sollazzo’ come si disse ad esempio del bel ‘prato’ a primo Trecento fuori porta Camollia quando anche si parlò di assicurare la pulizia del Campo proprio per rendere piacevoli le passeggiate in Piazza, specie nelle sera d’estate! Ma ancor prima, e siamo addirittura nel 1208, nell’ambito di uno dei mille provvedimenti presi dai governi per far quadrare i conti già allora, si concedeva di aprire finestrelle-feritoie nelle mura cui si otteneva il permesso di accostarsi, ma si indicavano le loro dimensioni con precisione centimetrica, diremmo oggi, in modo da assicurare una loro serie continua, regolare, bella. E i piani regolatori di pochi anni successivi, siamo sempre prima di Montaperti, andranno nella stessa direzione, per non parlare nel periodo successivo dei colonnini obbligatori per le finestre di piazza e poi del famoso Ufficio dell’ornato, che nel Quattrocento dava ordini sugli allineamenti di strade e facciate costruendo la Siena rinascimentale, cioè il centro storico grosso modo definitivo, superando la disordinata crescita medievale.
Oltre all’arte figurativa, cui persino un insopportabile rigorista come san Bernardino riservava attenzione, l’arte architettonica doveva potersi apprezzare, e non solo perché espressione di potere, ma anche di armonia, regola, ordine, bellezza. Pur in un’età ritenuta di grave crisi come l’inizio del ‘400, il Comune chiese ed ottenne dal papa il permesso di abbattere un monastero sulla via Francigena immediatamente extra-moenia. Perché? Per il diletto di chi saliva verso porta Romana con la stupefacente motivazione che… ne toglieva la piena veduta! E i privati non erano da meno. Basti il caso del Sansedoni per il palazzo oggi sede della Fondazione Montepaschi, che nel contratto con il suo architetto-impresario, conservato con tanto di disegno, tenne a precisare che gli archetti che erano stati previsti dovevano essere ‘belli’! E non parlo del grande patrimonio di preziosi disegni sempre conservati dall’Opera del Duomo. Non sono memoria-tutela precisa di progetti e realizzazioni?
In un contesto di questo genere diviene comprensibile che la Madonna del Voto si proteggesse per legge, stabilendo che non potesse essere portata fuori della cattedrale per nessun motivo, come fosse un bene culturale di valore costituzionale per Siena. E non è tutto per la Madonna, Signora della città ben prima di quel magnifico 1260, perché si pensò a una protezione speciale, oltreché farla effigiare in ogni guisa possibile in sedi religiose e laiche, come si sa. Il suo santo nome divenne così sensibile per il benessere pubblico che nello statuto di metà Cinquecento, destinato a durare fino all’invasione napoleonica, si sancì che non potessero soggiornare in città le prostitute di nome Maria!
Nelle nostre città, però, non solo per motivi etico-politici che qualcuno potrebbe oggi dire demagogici ma anche economici (evitare acquisti forestieri), l’arte del ben vestire subiva limitazioni vistose. Non si potevano indossare all’aperto vestiti e gioielli troppo lussuosi, e addirittura le scollature venivano controllate, in modi probabilmente insolitamente solerti come per le prostitute, da agenti maschi naturalmente. Nel campo suntuario le arti subirono qualche limitazione, quindi, che non valevano però per le visite dei ‘grandi’ di ogni genere alla città: allora si potevano/dovevano indossare le cose belle! Qualcosa di più avvenne per motivi politici. I rivolgimenti non giovarono, per cui non solo fu mandata alle fiamme molta documentazione importante ad esempio al crollo dei celebrati Nove (1355), ma persino preziose miniature furono sfregiate per non conservare ricordo di certi governi. L’arte al servizio della politica non è solo del drammatico Novecento. Allora si effigiavano con tanto di nome e cognome i traditori in modo spregiativo, naturalmente, tipicamente in Salicotto in modo che chi andava in Consiglio comunale si ricordasse bene cosa rischiava. E forse fece la stessa fine il Guidoriccio(?) dell’affresco fatto scoprire grazie a Gordon Moran pochi anni fa, dopo essere stato seppellito sotto uno spesso strato di azzurrite.
L’arte che portava messaggi legati alla contingenza rischiava di più, naturalmente, ma passarono indenni invece e pur attraverso varie e drammatiche crisi politiche la Maestà di Simone con i suoi gigli angioini e la sala della Pace del Lorenzetti, espressioni di valori fondamentali per la nostra società al di là dei (pochi) richiami politici espliciti. Il governo aveva avuto il gran buon senso di non farsi rappresentare nell’Allegoria del Buongoverno.
L’arte, la scrittura in primis, quando al servizio d’un padrone rende di sicuro nell’immediato, ma non si protegge dal ridicolo nel tempo. Anche l’arte al servizio del gusto temporaneo quando prepotente e presuntuoso può essere dannosissima. Il barocco ha prodotto tante belle opere nel Senese (e fuori grazie ad artisti senesi) ma tanti danni ha provocato anche ad architetture e opere d’arte gotiche, ritenute primitive, superate, ormai inutili, impresentabili.
Quante sorprese si possono ancora avere sotto densi intonaci o ridipinture stratificati dai secoli. Purtroppo paiono perduti gli affreschi della gran Sala dei Consigli (oggi teatro dei Rinnovati), forse coperti per rispettare il nuovo Signore (Cosimo) e poi danneggiati da un grave incendio che colpì la struttura. L’intolleranza artistica, supportata dal potere, laico o ecclesiastico, di disastri ne ha provocati infiniti e anche su fronti insospettabili. Di quanto sta avvenendo in aree bollenti ormai troppo vicine sono piene le cronache. Meno noto forse è che hanno trovato la loro giustificazione in una dottrina iconoclastica del 1700!
E ancora meno noto è che anche il cristianesimo ha avuto alcuni periodi bui da questo punto di vista. Divenuto religione di Stato nel 380, ci furono dopo pochi anni provvedimenti che consentirono attacchi intolleranti contro l’arte pagana; poi ci fu l’iconoclastia bizantina. Di pochi anni fa è la divulgazione del celebre caso di Ipazia, che mi piace ricordare in omaggio al nostro Agathos (Carlo Franzoso, l’espressionista matematico che sta esponendo su Siena ora), dato che essa fu anche una matematica eccellente; ebbene, i moti di fanatismo che portarono alla sua morte comportarono anche, come si sa, la distruzione della celeberrima biblioteca di Alessandria, scrinio del sapere antico, sede di innumerevoli opere che solo in parte furono salvate dal lavoro plurisecolare, poi, dei monaci benedettini, coevo a quello dei dotti arabi ed ebrei.
Strano destino di quel tardo Impero romano che aveva già avuto regole precise a favore delle opere d’arte, e non soltanto pubbliche quando esposte ad esempio in spazi pubblici. Ma l’intolleranza contro l’arte pagana riaffiorò anche a distanza di secoli, nella stessa Siena, dove era stata trovata a metà Trecento una deliziosa statua femminile di fattura antica che fu posta nel Campo per essere ammirata, ma finì distrutta in mille pezzi poi sepolti per timore dell’ira divina che si credeva allora espressa dalle epidemie di peste. Pochi decenni dopo, con Jacopo della Quercia, però, i senesi ebbero modo di recuperare.
Un altro episodio, questa volta contro un libro, ci porta addirittura ai primi anni del 1700, che sarebbe stato poi il secolo ‘illuminato’ per definizione. Ebbene, l’acuto e molto creativo Girolamo Gigli ebbe l’idea di sfidare i fiorentini con un libro sull’eccellenza della lingua di santa Caterina in esplicita polemica con il vernacolo fiorentino. La Crusca ordinò addirittura di bruciare le copie del libro in piazza a Firenze ed egli dovette trovare rifugio lontano – pensando bene, però, alle cantine di Tavarnelle anziché all’esilio intimatogli. I bottini di guerra comprendevano sempre opere d’arte, anche non auree, e le spoliazioni sono state la regola per secoli, anche vicini a noi. Il grande rinnovatore sempre lodato per la sua modernità, Napoleone, è anche ben noto ahimè per i suoi prepotenti trascorsi italiani da questo punto di vista. Solo dal tardo Ottocento la normazione pattizia internazionale ha cominciato a por rimedio a questi interventi rovinosi.
Ma a Siena tra le motivazioni dello sciagurato, sanguinoso Viva Maria, con il suo rogo di inermi ebrei a fine Settecento, c’era stata anche la spoliazione degli arredi argentei delle decine e decine di chiese senesi, piccole e grandi, messi assieme con infinito amore e faticosi risparmi dal popolo senese nel corso di tanti secoli di devozione. E ancora durante la seconda guerra mondiale la Pinacoteca poté essere salvata dalla voracità nazista, ma solo grazie all’arguta fermezza di Enzo Carli, un Soprintendente e Rettore del duomo modello. All’Archivio di Stato fu allora che qualche ufficiale anche troppo colto non esitò a ritagliare invece miniature preziose dai fogli pergamenacei sui quali poté metter mano.
Quindi riflettiamo, perché i disastri ci sono venuti anche da dentro la civilissima Europa. Essi in realtà sono sempre in agguato, anche se possediamo una legislazione d’avanguardia che si è giovata dell’alto livello degli interventi di epoca giolittiana e poi del testo di Bottai del ’39, premessa indispensabile dell’attuale Codice dei beni culturali, che consente tanti preziosi interventi di recupero da parte dei Carabinieri addetti. In realtà, non sono le regole che mancano nel nostro Paese, come si sa, ma la loro applicazione, un po’ per mancanza di fondi e di personale, ma tanto anche per scarsa preparazione culturale e sensibilità di certa burocrazia e di certi politici che, congiunte, possono formare un esplosivo micidiale.
Ma talune regole sono state fondamentali anche prima che si formasse il concetto di bene culturale. Palazzi e collezioni d’arte, di libri, di strumenti scientifici e così via, si capì presto che avevano un valore, in quanto accorpati unitariamente, se conservati come complesso, ben superiore alla somma dei singoli pezzi. Ci furono gli interventi dei collezionisti pubblici del Quattrocento, in particolare di papi come il senese Pio II e le prime raccolte coeve anche presso principi di fatto, come i Medici – che continuarono per la verità a comprare, anche da principi di diritto, come poi i Lorena: ma fu l’ultima dei vituperati Medici ad assicurare a Firenze e alla Toscana un patrimonio artistico incommensurabile! I pretesti per portare a Firenze quel che di bellissimo c’era nel territorio non erano mancati: dall’Annunciazione di Simone Martini alla Chimera d’Arezzo, alla Bibbia amiatina.
Il Rinascimento sollecitò le raccolte, per lo più private, e con ciò scavi abusivi e dilapidazioni di strutture antiche, favorendo persino il loro commercio internazionale: i forestieri del Grand Tour facevano il nostro Paese facile preda, e non a caso tante opere d’arte senesi sono nei musei stranieri. Ci fu però un baluardo legislativo che salvò molti palazzi e raccolte: si tratta dell’istituto del fedecommesso, che in età moderna impedì la divisione dei beni ereditari tra i figli. Così si è salvata in gran parte la Roma monumentale del ‘5-‘600, perché questa normativa fu confermata anche nell’Italia unitaria per Roma, ancorché i liberali avessero un orientamento generale contrario al vincoli dei beni – e molto infatti fu liberamente esportato allora.
Solo il Novecento ha posto dei paletti seri. Rimangono però conflitti di competenza, che le recenti riforme dell’Amministrazione dei beni culturali hanno probabilmente accentuato. E comunque rimangono le conseguenze delle soppressioni di enti religiosi nel ‘7-‘800. Non solo. A Siena le stesse mura fatte dal Comune antico divennero statali e intere collezioni museali di straordinaria importanza hanno ancora ‘pezzi’ di vari proprietari – cosa che non ne favorisce certamente la gestione.
Insomma, chiaramente la tutela è aumentata molto, ma c’è tanto lavoro ancora da fare di fronte al patrimonio enorme ereditato dal passato. I cittadini possono fare molto con la loro vigilanza e le avvertenze puntuali, in particolare a Comuni e Soprintendenze. E sono anche più efficaci se operano organizzati in enti con competenze culturali.
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