«L’ho trovato in giardino!»
Brevi indicazioni per scopritori inesperti
Fare l’archeologo/a comporta saper rispondere a due domande fondamentali: «Quindi tu scavi i dinosauri?», seguita da «Ma se trovo qualcosa di antico in giardino è mio?».
Tralasciando la prima questione, sebbene la risposta lasci solitamente molta delusione nell’ascoltatore, è bene soffermarsi sulla tematica delle cosiddette scoperte fortuite.
In Italia, secondo la vigente normativa in materia (art. 88, Codice dei beni culturali e del paesaggio), le ricerche archeologiche e le operazioni per il ritrovamento dei beni culturali sono riservate al Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (MiBACT). Solamente questa Amministrazione può conferire la concessione di ricerca a soggetti pubblici o privati per l’esecuzione, ad esempio, di campagne di scavo archeologico (art. 89): questo per premettere che non ci si improvvisa archeologi “dall’oggi al domani”. Ma su questo punto torneremo più avanti.
Se le ricerche sono riservate esclusivamente al Ministero, a chiunque può capitare di imbattersi in un ritrovamento fortuito, camminando nel mezzo delle campagne italiane o facendo lavori di ristrutturazione nello scantinato di casa. La casistica è davvero impressionante.
Innanzitutto, bisogna precisare che, dal 1909, tutto ciò che presenta una natura archeologica è di proprietà dello Stato, come stabilito – in seguito – dagli artt. 822 e 826 del codice civile.
Questa impostazione, confluita ora nell’art. 91 del Codice e che a taluni può far storcere il naso, in realtà ha radici profonde nella storia degli Stati preunitari (1), oltre ad essere diffusa in moltissimi Paesi di tutto il mondo. Essa, inoltre, si spiega facilmente attraverso il dettato costituzionale dell’art. 9 della Repubblica Italiana che cita esplicitamente la “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Per questo motivo, lo scopritore di cose mobili (come, ad esempio, contenitori ceramici, integri o frammentari, resti di ossa, oggetti in vetro o in metallo, ecc.) e immobili (spesso ciò che si scorge sono i resti di strutture murarie) è tenuto a farne denuncia all’Autorità (Soprintendente, Sindaco, autorità di pubblica sicurezza, ossia la locale/vicina stazione dell’Arma dei Carabinieri) entro ventiquattro ore dal rinvenimento fortuito.
Il Codice raccomanda, e qualsiasi professionista archeologo o restauratore non può che concordare, di non rimuovere gli eventuali oggetti casualmente ritrovati dalla loro sede attuale, a meno che non vi siano reali pericoli per la loro sicurezza e conservazione (che verranno valutati, a livello preliminare, anche telefonicamente, da parte degli organi di polizia o dai funzionari della Soprintendenza contattati).
Infatti, si deve considerare che, per un archeologo la perdita del contesto di provenienza/rinvenimento di un oggetto è un vero e proprio danno, persino più grave dello smarrimento di un manufatto. Questo, di per sé, in seguito ad accurate analisi, può parlarci di coloro che lo hanno prodotto e di coloro che lo hanno comprato e/o utilizzato in antichità, di come e dove sia stato realizzato, della sua storia prima della deposizione, rottura o perdita; allo stesso tempo, tale singolo oggetto può indicare all’occhio esperto del professionista le alterazioni subite nel tempo e nel suo contesto di deposizione, ossia come gli agenti naturali lo possano aver modificato durante gli anni del suo lungo e silenzioso riposo.
Se inserito nel suo contesto di rinvenimento, però, l’oggetto ci può aiutare a comprendere meglio anche l’intero spazio che ha attorno quando era frequentato dalle società antiche; può dirci come veniva sfruttato e per quali finalità. L’oggetto ritrovato nel suo contesto consente agli archeologi di scrivere nuove pagine della storia grazie alle informazioni cronologiche (quando è stato realizzato; per quanto tempo è rimasto in circolazione), economiche (che valore aveva in antichità) e sociali (chi lo utilizzava; in che ambito della vita quotidiana veniva utilizzato) che esso può raccontare in rapporto a tutto ciò che lo circonda (2).
L’archeologia è un libro maestoso e intrigante da leggere con il giusto paio d’occhiali. Se lo scopritore si fa prendere dall’euforia della scoperta, rischia, con le sue azioni, di danneggiare inesorabilmente le pagine di quel libro, pagine che non potranno più essere scritte nella stessa maniera e, tantomeno, lette.
Si faccia attenzione che, mediante l’art. 92, il Ministero ha la facoltà di corrispondere un premio (per, al massimo, un quarto del valore) in denaro, attraverso un credito di imposta di pari ammontare oppure mediante il rilascio delle cose ritrovate allo scopritore che 1) abbia effettuato la scoperta in modo fortuito, 2) non si sia introdotto abusivamente nella proprietà altrui (ossia senza il consenso del proprietario), 3) abbia effettuato la denuncia alle Autorità previste entro le ventiquattro ore stabilite dal Codice, 4) abbia espletato i suoi obblighi di conservazione e custodia senza arrecare danno alle cose ritrovate.
La determinazione del premio è compiuta dal Ministero che effettua la stima delle cose ritrovate. Se gli aventi titolo ai sensi dell’art. 92 (il proprietario dell’immobile ove sia avvenuto il rinvenimento, il concessionario dell’attività di ricerca se tale attività non è ricompresa nei suoi scopi istituzionali o statutari e, infine, lo scopritore) non dovessero accettare la stima elaborata, il valore delle cose ritrovate è determinato da un terzo, designato concordemente dalle parti. Qualora non si trovasse un accordo, la nomina viene effettuata dal Presidente del Tribunale, competente sulla base dell’attuale ripartizione territoriale. In questo caso, verrà nominato un professionista iscritto all’Albo dei Consulenti tecnici d’ufficio o dei Periti.
Essere a conoscenza della presenza del premio potrebbe comportare una, forse naturale, caccia al tesoro. Ma il legislatore del 2004 ha pensato anche a questo.
Infatti, si faccia attenzione al fatto che, con l’art. 175, il Codice punisce, con l’arresto fino ad un anno e l’ammenda da euro 310 a euro 3.099, chiunque esegue ricerche archeologiche o, in genere, opere per il ritrovamento di cose senza concessione e chiunque, essendovi tenuto, non denuncia nel termine prescritto le cose rinvenute fortuitamente (o non provvede alla loro conservazione temporanea).
Il successivo art. 176 aggiunge, proprio a tutela dei beni culturali appartenenti allo Stato ai sensi del già citato art. 91, la reclusione fino a tre anni e la multa da euro 31 a euro 516,50 per chiunque si impossessi illecitamente di tali beni.
Capita spesso di imbattersi in persone che ritengono di “passarla liscia” («L’ho trovato io, è mio» oppure «Chi si accorgerà mai se lo porto via da qui?»), di potersi improvvisare “archeologi per un giorno” o che, fregiandosi del “titolo” di “appassionato”, possano compiere azioni che sono di esclusiva competenza dei professionisti. Forse è meglio chiarire.
L’archeologia contemporanea si basa sulle tracce, su un paradigma indiziario che porta alla ricostruzione di accadimenti. Rimuovere un oggetto dal terreno, lascia una traccia e, volendo entrare nello specifico, quella stessa traccia viene impressa anche sul manufatto (soprattutto se ceramico) che viene prelevato.
Pensare di “passarla liscia” è davvero da ingenui. Gli archeologi italiani si formano non solo all’interno di polverose biblioteche bensì proprio sul campo, con giorni e giorni di tirocini presso scavi archeologici universitari, pubblici o privati.
La formazione di colui/colei che sarà chiamato/a a valutare l’eventuale luogo di rinvenimento da cui è stato sottratto un bene culturale, inoltre, non si ferma agli ormai canonici cinque anni accademici ma comprende percorsi professionalizzanti di alta formazione (Scuola di Specializzazione e/o Dottorato di Ricerca).
In questo contesto, poi, si deve aggiungere la capillare presenza del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, con professionisti qualificati e dediti al contrasto proprio di queste eventuali azioni illecite. Infine, si deve sommare anche l’aumento di una certa sensibilità pubblica e dell’educazione civica riguardo a queste tematiche, con un significativo incremento dell’attenzione per la tutela dei beni dell’intera Comunità… vale davvero la pena di correre il rischio?
(1) Su questo tema si consiglia la lettura della riedizione aggiornata e rivista del magistrale lavoro di Andrea Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani. 1571-1860, Edizioni Polistampa, 2015.
(2) Per la ceramica si veda, fra gli altri, il manuale di Monica Ceci e Riccardo Santangeli Valenzani, La ceramica nello scavo archeologico. Analisi, quantificazione e interpretazione, Carocci editore, 2016.
Specializzato in Archeologia Classica presso l’Università degli Studi di Padova, si occupa di ricerca, sviluppo e formazione nei settori dell’archeologia legale (con particolare attenzione al tema della falsificazione dei beni archeologici), della museologia e della progettazione culturale. È perito e C.T.U. presso il Tribunale di Udine, iscritto all’elenco dei Periti ed Esperti della Camera di Commercio di Pordenone-Udine.