L’omaggio al sole del primo imperatore in mostra a Castel Sant’Angelo

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I turisti che passeggiano per il centro storico di Roma e che si trovano a passare da piazza di Montecitorio, davanti al nostro Parlamento, rimangono sovente affascinati dall’imponenza del bellissimo obelisco in granito rosso, che si staglia proprio di fronte all’edificio seicentesco progettato da Bernini. Ne apprezzano senza dubbio la maestosa altezza, comprendono probabilmente la preziosità del materiale proveniente evidentemente da paesi lontani, hanno sentore della sua antichità. Ciò che però si può percepire solo con un’osservazione più attenta del bellissimo monolite, sono i segni del tempo e delle lunghe vicissitudini che hanno portato al suo stato di conservazione e alla sua posizione attuale.

Piazza Montecitorio, Roma (Foto Wikipedia)

Questo meraviglioso omaggio a Ra, il dio del sole, fu realizzato ad Eliopoli, in Egitto, intorno al 586 a.C. per il faraone della XXVI dinastia Psammetico II. La città, situata oggi alla periferia del Cairo, aveva infatti un forte legame con il culto solare, come suggerisce il suo stesso nome.

Tra il 10 ed il 9 a.C. l’imperatore Augusto, il conquistatore dell’Egitto che aveva sconfitto Antonio e Cleopatra nella celeberrima battaglia di Azio (31 a.C.), per celebrare degnamente il suo trionfo fece trasportare l’obelisco, alto circa 22 metri (76 piedi romani), a Roma insieme ad un altro che fu collocato sulla spina del Circo Massimo e successivamente spostato a Piazza del Popolo, dove si trova ancora oggi. Quello di Psammetico II, invece, fu posto nel Campo Marzio settentrionale, in quell’area della città sostanzialmente libera da edifici, che il primo imperatore di Roma stava facendo sistemare con dei grandiosi monumenti che avrebbero dovuto commemorare la sua grandezza e il suo principato. Sui due lati della base possiamo leggere ancora oggi l’iscrizione dedicatoria: “L’imperatore Augusto, figlio del divo Cesare, pontefice massimo, proclamato imperatore per la dodicesima volta, console per undici volte, che riveste la potestà tribunizia per la quattordicesima volta, avendo condotto l’Egitto in potere del popolo romano, diede in dono al Sole”.

La dedica ad una divinità solare era più che appropriata da parte di colui che era stato concepito il 22 dicembre, giorno del solstizio d’inverno e che aveva effettuato un’importante riforma del calendario, facendosi dedicare il mese più estivo dell’anno e chiamandolo Augustus. Non si trattava però di un semplice monumento onorario o di un ornamento per la città: come ci riferisce Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia(Libro XXXVI), l’obelisco, posizionato nella zona dell’odierno Parlamento, divenne infatti lo gnomone di un grandioso orologio solare, disegnato su una grande piazza lastricata in travertino e ampia 160 x 75 metri. Nella sua descrizione egli riferisce che l’asse centrale era disegnato sul pavimento ed era orientato in senso nord-sud: in cima, la punta dello gnomone era costituita da un globo di bronzo che consentiva all’ombra di toccare il vertice superiore dell’asse a mezzogiorno del solstizio d’inverno e il vertice inferiore a mezzogiorno del solstizio d’estate.

Non conosciamo molti altri dettagli di questo grandioso monumento: gli archeologi ritengono molto suggestiva l’ipotesi che, se l’Horologium avesse riportato oltre la meridiana centrale anche la linea equinoziale, il giorno dell’equinozio d’autunno, il 23 settembre, coincidente anche con il compleanno dell’imperatore, al tramonto l’ombra scivolando sulla linea avrebbe potuto toccare l’Ara Pacis, il monumento dedicato alla Pax Augusta e alla nuova “Età dell’Oro” iniziata con l’avvento del Princeps.

Plinio ci fornisce ancora altre importanti informazioni, come ad esempio il fatto che fosse opera di un matematico di nome Facondo Novio, e poi ci racconta che già ai suoi tempi l’orologio non era più in funzione, adducendo come causa un’eventuale alterazione del percorso del sole o forse il fatto che la piazza fosse stata ricoperta da detriti per via delle frequenti inondazioni del Tevere. 

Non sappiamo esattamente fino a quando l’obelisco sia rimasto in piedi. Probabilmente nel IX o nell’XI secolo, forse a causa di terremoti, inondazioni o guerre, esso crollò spezzandosi in cinque frammenti, che furono poi sepolti dal tempo e obliterati dalla memoriaper molti secoli.

Risale alla fine del Quattrocento la notizia del ritrovamento fortuito dei primi pezzi del monolite, durante alcuni lavori di restauro fatti nella chiesa di San Lorenzo in Lucina: Pomponio Leto ci narra di come quelle antiche vestigia fossero state associate all’orologio solare augusteo. Si intuì immediatamente l’importanza di questa scoperta, tanto che papa Sisto V, colui che aveva fatto innalzare altri obelischi antichi davanti alle principali Basiliche di Roma per creare un percorso guidato per i pellegrini, aveva tentato senza successo di far assemblare le varie parti per poterlo rimettere in piedi.

Per la riuscita di questa impresa, però, bisogna aspettare qualche secolo più tardi, quando papa Pio VI affidò l’incarico all’architetto Giovanni Antinori, che tra il 1789 e il 1792 lo restaurò e lo fece innalzare nella sua posizione attuale, in Piazza Montecitorio, sopra il basamento augusteo originale. Dal momento che risultava ancora mancante di alcune parti, si decise di utilizzare vari pezzi di un’altra colonna realizzata con lo stesso tipo di marmo e ritrovata nelle vicinanze: quella di Antonino Pio. La base di questo monumento, nel cui rilievo è rappresentato il Campo Marzio con il nostro obelisco, è custodita oggi ai Musei Vaticani, nel cortile delle Corazze. La colonna invece era in uno stato talmente lacunoso da non poter essere più rimessa in sesto, ed è per questo che si decise di utilizzare i frammenti rimasti per il restauro dello gnomone augusteo.

Negli anni ’70 l’archeologo tedesco Giorgio Buchner grazie ad uno studio approfondito riuscì a ritrovare una parte della meridiana nello scantinato di un edificio in Via di Campo Marzio 48: ad una profondità di circa 8 m è ancora oggi visibile una porzione del pavimento in lastre di travertino con la meridiana di bronzo e le lettere in greco, anch’esse dello stesso metallo, indicanti alcuni segni zodiacali e alcuni venti. Si tratta probabilmente di un restauro di età domizianea, dal momento che il suolo è rialzato di 1.60 m rispetto ai livelli di età augustea, forse proprio per preservare l’Horologium dalle inondazioni del Tevere, come raccontatoci da Plinio.

Il frammento di obelisco esposto nella mostra a Castel Sant’Angelo, Il mondo salverà la bellezza?

Arriviamo così ai giorni nostri, perché a marzo del 2021 un frammento originale dell’obelisco di Montecitorio è stato donato pro bono al Ministero dei Beni culturali tramite i Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale. Esso faceva parte della collezione di Camillo Orlando-Castellano, il figlio di Emanuele Orlando, Presidente del Consiglio dal 1917 al 1919. L’importanza e l’eccezionalità di questo tassello della storia dell’Urbe, donato grazie all’intervento di un noto commerciante romano, hanno fatto sì che fosse incluso tra gli altri incredibili gioielli del nostro passato che sono esposti in questi giorni a Castel Sant’Angelo, nella mostra dal titolo tanto eloquente quanto provocatorio: Il mondo salverà la bellezza?.

In questo allestimento, realizzato negli appartamenti di papa Clemente VII, si ripercorre la storia dei Carabinieri del TPC e delle varie attività in cui sono impegnati: dalla lotta al traffico illecito dei beni culturali al recupero e alla restituzione di quelli trafugati durante le guerre, fino al salvataggio durante catastrofi come alluvioni e terremoti. Ma allo stesso tempo si racconta anche la storia degli oggetti, che costituiscono dei tasselli fondamentali per la ricostruzione del nostro passato. Tra questi merita senza ombra di dubbio un posto di rilievo il frammento dell’obelisco. Si tratta di una porzione della base del monolite, di cui un’altra parte, proveniente dalla collezione Borgia, è custodita al Museo Archeologico di Napoli.

Nel frammento napoletano è rappresentato il faraone Psammetico II intento a compiere un rituale con l’incenso; nel nostro, invece, oltre il cartiglio dello stesso Faraone, sono riportate alcune formule usuali nel mondo egizio come “amato dalle divinità” e “che viva come Ra”. Nonostante lo gnomone si trovi oggi in uno stato lacunoso non ci sono dubbi sull’attribuzione del pezzo esposto in mostra, sia per il materiale utilizzato, il granito rosso proveniente da Eliopoli, sia per lo stile e le dimensioni dei segni, conformi a quelli del frammento napoletano.

Forse, se vogliamo dare una risposta alla domanda di Dostoevskij, la bellezza non riuscirà a salvare il mondo dagli orrori e dalle distruzioni delle guerre, dalla malvagità, dalla brama di ricchezze; ma certamente atti di mecenatismo e filantropia come la restituzione del frammento di obelisco ci danno ancora speranza che sia il mondo, capita l’importanza della propria identità culturale, a fare uno sforzo in più per salvare la bellezza.

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