Restituzioni dei beni culturali: a che punto siamo?
Lo scorso mese di giugno la 7a Commissione Istruzione pubblica, beni culturali del Senato della Repubblica si è riunita per discutere in merito alla spinosa questione della restituzione di beni culturali illecitamente esportati (affare assegnato n. 566).
Oltre alla sottoscritta, le audizioni in videoconferenza hanno coinvolto il Gen. Roberto Riccardi, Comandante dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, l’avv. Fabio dell’Aversana, l’avv. Giuditta Giardini, il dott. Stefano Alessandrini e l’avv. dello Stato Lorenzo D’Ascia.
Lo spunto per la discussione è stato lanciato dalla Sen. Margherita Corrado che ha voluto richiamare l’attenzione sul tema ritenendo che la 7a Commissione permanente del Senato debba favorire la conoscenza dei reperti archeologici e delle opere d’arte trafugati all’estero (e il loro auspicabile rientro in Italia), affinché l’azione diplomatica svolta dal Ministero della Cultura mediante i propri uffici e l’apposito Comitato per le restituzioni sia ancora più efficace.
Che cosa ne è venuto fuori?
In primis, la sostanza: il patrimonio culturale è la nostra comune fonte di ricchezza, giunta dal passato, custodita e utilizzata nel presente e trasmessa alle generazioni future. Ci aiuta a definire la nostra identità e le nostre origini. Svolge una funzione di valore inestimabile nel recepire e promuovere la diversità, la coesione, la solidarietà e la comprensione. È per tale motivo che, come ribadisce anche l’UE, il traffico illecito di oggetti culturali rappresenta un grave problema di dimensioni globali, che esige un’azione coordinata non solo tra gli Stati membri, ma a livello generale. Qualsiasi riflessione in merito deve anche guardare, da una prospettiva nuova, alle opere e ai beni culturali che sono stati saccheggiati, rubati od ottenuti illegalmente durante le guerre.
In secundis, l’azione: nonostante la pandemia, grazie all’imponente lavoro dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, nel solo 2020 sono stati recuperati oltre mezzo milione di beni e individuate 1.547 opere contraffatte, prevalentemente di arte contemporanea. Sono stati effettuati anche degli interventi sotto l’egida UNESCO in Albania, a seguito di un terremoto, e a Beirut, a ottobre, dopo l’esplosione nel porto della città, evento che ha causato ingenti danni ai musei e ai palazzi storici limitrofi. Per fortuna, il lavoro faticosissimo dei trecento uomini del TPC si sta irrobustendo grazie alla nascita di altri nuclei sul territorio italiano e allo sviluppo di nuove tecnologie: perché, come sottolineato dal Gen. Riccardi, “il futuro può restituirci il passato”. In tal senso i Carabinieri stanno lavorando a un nuovo software, lo Stolen Works Of Art Digital System, che calibrato per il web, i social media e il dark web, darà la possibilità di condurre una ricerca automatica di immagini con relativa comparazione tra gli 8 milioni di file contenuti nell’attuale database del TPC, di cui 1 milione e trecentomila sono opere ancora da ricercare.
Un’importante iniziativa, intrapresa già nel 2016 dal Ministro Franceschini, è quella della Task Force “Unite4Heritage”, i cosiddetti “caschi blu della cultura”: si tratta di funzionari del Ministero e Carabinieri del TPC che intervengono, ove richiesti, direttamente in aree del mondo devastate da conflitti o calamità naturali. È il caso dell’Iraq dove si è presenti fin dal 2003, quando è stato avviato l’inserimento dei circa 15.000 reperti archeologici trafugati dal Museo nazionale iracheno di Baghdad nella Banca Dati del TPC, la più estesa e strutturata al mondo, che ha consentito finora il recupero di circa la metà degli oggetti schedati.
Il Ministero della Cultura, come già accennato, si avvale anche di un Comitato per la restituzione dei beni culturali, avente il compito di esaminare tutte le questioni relative al recupero delle opere d’arte italiane che si trovano in altri Paesi. In passato, questo Comitato ha raggiunto importanti risultati, a conferma della volontà di dare nuovo e più forte impulso sia a questo tipo di attività che alla tutela del patrimonio in senso più generale.
Ma qual è la chiave di volta?
La cooperazione internazionale va innanzitutto intensificata attraverso un costante scambio di informazioni e dati con i Paesi più interessati dai traffici, ma anche assistendo a livello finanziario e tecnico i Paesi in via di sviluppo, così da consentire loro la tutela del proprio patrimonio culturale nel luogo di origine. Nonostante l’evoluzione del diritto dell’UE e la sempre crescente attenzione nei confronti della circolazione dei beni culturali, in molti casi risultano inefficaci anche le misure più severe qualora queste non vengano concordate e condivise almeno da una parte significativa delle nazioni. In particolare, per paesi tra di loro confinanti, o che comunque abbiano una comune area culturale, sorge la necessità di armonizzare le rispettive legislazioni ed implementarle in maniera efficace e coerente.
È vero, sono stati fatti dei passi avanti per quanto riguarda la Direttiva del 2014[1], che prevede la restituzione tra paesi dell’Unione Europea di tutti i beni che sono stati portati all’estero in modo illecito dopo il 1993, successivamente alla nascita dell’area Schengen. Si sta inoltre lavorando sui provvedimenti a favore della ratifica della Convenzione di Nicosia[2], che potrebbe portare a pene più consistenti, specificatamente all’incriminazione per traffico illecito di beni culturali, e all’introduzione dell’istituto dell’agente sotto copertura per la protezione del patrimonio culturale, che anche il Senato, con la 7a Commissione, vorrebbe sponsorizzare.
Bisogna tuttavia tenere presente che se, da una parte, il principio di cooperazione internazionale è strumentale soprattutto in materia di prevenzione dell’esportazione illecita, dall’altra, quello del dovere di restituzione, a prescindere dall’illiceità dell’esportazione, si pone come prerequisito dell’integrità dei contesti culturali, ed è espresso in base al diritto e alle norme consuetudinarie, ai principi etici, alla prassi e alla comune sensibilità. Per esempio, è oggi moralmente ammissibile mantenere il possesso di beni culturali acquisiti in passato in situazioni di manifesta ingiustizia come guerre, genocidi o dominazioni coloniali, che continuano così a gravare sul presente dei Paesi vittime di furti, abusi e violenze?
È un dato di fatto che, negli ultimi anni, la tendenza verso la restituzione di beni culturali illecitamente portati all’estero abbia assunto una dimensione sempre più marcata, investendo il diritto internazionale generale, superando quanto previsto dai trattati e dalle normative in vigore e coinvolgendo considerazioni d’ordine morale e culturale. Da ricordare che, sulla falsa riga di precedenti risoluzioni ONU, l’Assemblea Generale, nel 1981, fece appello a musei e collezionisti pubblici e privati affinché restituissero, totalmente o parzialmente, i beni culturali o li rendessero disponibili ai Paesi d’origine e, recentemente, nel 2009, si dichiarò «consapevole dell’importanza attribuita da alcuni Paesi d’origine al rientro dei beni culturali che sono per loro di fondamentale importanza spirituale e culturale, in modo che essi possano costituire collezioni che rappresentino il proprio patrimonio culturale», esprimendo, nel dicembre 2012, preoccupazione «riguardo al traffico illecito di beni culturali ed il danno da esso causato al patrimonio culturale delle nazioni».
Accade però che in molti casi sia l’etica a venirci in soccorso molto più del diritto, tant’è che le restituzioni di beni fondate su accordi amichevoli sono più numerose rispetto a quelle basate sulle procedure contenute nelle disposizioni vincolanti di origine europea ed internazionale.
Perché succede questo?
Si tratta di bilanciare tutte le esigenze generali e le circostanze particolari al fine di valutare quale possa effettivamente essere la soluzione più equa da applicare al singolo caso di restituzione, facendo ricorso a strumenti pacifici anche per risolvere controversie tra Stato d’origine e Stato di destinazione dei beni. Ovviamente gli Stati interessati sono tenuti ad agire in buona fede, cosa che non accade laddove entrambi rimangano ciecamente fermi sulla propria posizione o facciano riferimento esclusivamente al proprio diritto nazionale, senza avere alcun riguardo di norme e principi di diritto internazionale.
Quindi, in questo bilanciamento tra diverse posizioni, va sempre valutata la situazione dello Stato di destinazione e dello Stato d’origine che possono essere tra le più disparate: magari lo Stato di destinazione ha preservato per secoli, nelle condizioni più appropriate, beni che avrebbero corso il rischio di essere distrutti o danneggiati se fossero stati lasciati nel luogo originario; oppure nello Stato di origine non vi è ancora la possibilità di garantire ai beni in questione le condizioni opportune per la loro adeguata conservazione o si teme che, verso i suddetti beni, si manifesti una situazione di totale indifferenza; o ancora, dopo secoli, gli oggetti hanno finito per generare con lo Stato di destinazione un legame addirittura più stretto rispetto a quello che avrebbero con il loro Stato d’origine.
Vanno sempre tenute presenti l’esigenza culturale generale, che si fonda sul desiderio di preservare e ristabilire, se possibile, l’integrità dei contesti culturali originari, e l’esigenza sociale generale, che richiede di attribuire un valore prioritario alla restituzione di quelli che, alla luce della loro fondamentale importanza, presentano un carattere emblematico ed insostituibile per le popolazioni dei territori dai quali sono stati sottratti.
Che la cooperazione internazionale debba essere sempre il perno attorno cui ruota l’intero meccanismo della restituzione è saldamente dimostrato dall’esperienza italiana, il cui impegno sviluppato negli anni ha consentito di recuperare opere come la Venere di Morgantina e il Cratere di Eufronio (restituiti all’Italia rispettivamente dal Getty Museum di Los Angeles e dal Metropolitan di New York), giusto per citarne due.
La legislazione italiana però è tra le più farraginose e contraddittorie: addirittura non sembra considerare appieno il disvalore che hanno le condotte criminali nel settore dei beni culturali. Taluni beni, inoltre, possono raggiungere il valore di svariati milioni di euro, per cui al danno culturale si somma quello economico. Occorre, quindi, una radicale svolta: una più seria attenzione dovrebbe essere sollecitata soprattutto in ambiti qualificati perché spesso si percepisce un atteggiamento quasi di sufficienza, come se non avessero valenza penale le condotte di sottrazione di taluni “coccetti” (per dirla alla Isman e alla Ferri) che l’Italia possiede in abbondanza.
Questa esigenza di cambiamento si rende fondamentale perché, proprio a livello internazionale, si assiste a una difesa sempre più efficace dei patrimoni culturali dei Paesi ricchi di vestigia come il nostro. Negli ultimi tempi si registra una maggiore tendenza a dare puntuale attuazione a convenzioni e raccomandazioni di settore, in special modo a quelle dell’UNESCO, con restituzione di reperti da parte di molte istituzioni museali estere che così facendo non solo onorano la scienza archeologica, ma offrono un sicuro aiuto all’opera di contrasto avviata anche in sede processuale (Ferri). Appare quindi evidente che una sottovalutazione di questa tipologia di fenomeni criminali all’interno del nostro ordinamento creerebbe sconcerto a livello internazionale, dove si predispongono azioni di tutela che noi spesso disattendiamo, sia a livello normativo che giurisprudenziale (Ferrara). Occorre invece una risposta penale proporzionata al danno economico e culturale e ai profitti conseguiti dal lato criminale. Lo strumento penale risulta tra i più efficaci e idonei a fronteggiare in maniera risolutiva il fenomeno dei traffici illeciti di beni culturali per contenere i danni cagionati ai contesti di appartenenza.
Un esempio? Uno dei processi penali più impegnativi affrontati dallo Stato italiano è quello che riguarda l’Atleta vittorioso di Lisippo, una statua bronzea ritrovata al largo di Fano, nell’Adriatico, quasi sessant’anni fa. Dopo varie fasi di giudizio, si è accertata la sua presenza presso il Getty Museum di Los Angeles, che rivendica di aver acquistato la statua in assoluta buonafede secondo i principi della due diligence. Al tempo stesso, però, dall’istruttoria svolta dal Tribunale penale e successivamente confermata nella sua correttezza e legittimità dalla Corte di Cassazione con sentenza depositata nel gennaio 2019, si apprende che il bene sia stato esportato illegalmente. È stata disposta la confisca della statua ed è tuttora in corso una rogatoria internazionale; il Getty tuttavia non si è fermato davanti all’esito del processo italiano e ha presentato ricorso presso la Corte Europea per i diritti dell’uomo. Cosa interessante di questo processo è che le indagini, negli anni immediatamente successivi al ritrovamento del bene, che ha subìto una condizione di clandestinità per un decennio, sono state svolte senza avere una foto della statua. Indagini febbrili dei Carabinieri, condotte anche all’estero, che hanno potuto finalmente accertare le caratteristiche del Lisippo solo una volta esposto al Getty. A seguito di un’ulteriore attività di indagine e dell’acquisizione di documentazioni e prove testimoniali da parte della Procura di Pesaro, in particolare, e della Procura di Roma, si è potuta ricostruire l’intera vicenda e andare a processo. Processo non più semplicemente nei confronti degli autori del reato di esportazione, perché i reati sono caduti in prescrizione e i responsabili deceduti, ma ai fini della confisca. L’accertamento svolto in questo processo è stato funzionale a verificare se l’attuale detentore del bene fosse, all’epoca dei fatti, in buona fede. Un procedimento molto complesso ma attraverso tutti i documenti acquisiti e forniti anche dal museo stesso, nel pieno rispetto dei principi di discovery processuale, è stato appurato dai giudici italiani che la statua si trovava in acque territoriali, che era quindi di proprietà dello Stato italiano, che è stata esportata senza autorizzazione e che è stata acquistata senza la dovuta diligenza. Tutti questi elementi hanno portato all’applicazione della misura della confisca. Ciò significa che in questo momento la scultura è di proprietà dello Stato italiano nonostante l’iter della rogatoria non sia ancora concluso.
Una volta riconosciuta la negligenza nell’acquisto di un bene illecitamente esportato, come mai non si è riusciti a trovare prima un accordo soddisfacente tra il nostro Ministero e il museo losangelino, ed evitare così di dar luogo a un processo lungo e complicato, svolto in due paesi con legislazioni differenti?
Ci sono altre storie da raccontare, alcune a lieto fine, come quella che riguarda la Stele di Axum, ad esempio, una vicenda tutta italiana relativa alla restituzione dell’obelisco, che implica molteplici aspetti positivi: ripristina il valore artistico dell’opera, lenisce una vecchia ferita, permette una maggior comprensione tra i popoli ed elimina barriere culturali e tensioni. Altre storie attendono ancora questo lieto fine… Una su tutte, la recentissima vicenda che ha riguardato Rosiers sous les arbres di Gustav Klimt: il quadro verrà restituito alla famiglia di Nora Stiasny, una vittima dell’Olocausto spodestata dei suoi beni durante una vendita coatta nell’agosto del 1938. Al momento, il quadro è inalienabile, perché appartiene alle collezioni nazionali della Francia. Ma il governo presenterà «non appena possibile un progetto di legge» per consentire la restituzione ai legittimi proprietari, ha precisato la ministra alla Cultura francese, sottolineando come si tratti dell’«unica opera pittorica di Gustav Klimt di cui la Francia è proprietaria». Dopo l’acquisizione, nel 1980, il quadro venne esposto al Museo d’Orsay: nulla lasciava pensare che provenisse da una spoliazione nazista. Per contro, restando in Francia, potremmo ricordare il bellissimo dipinto Le nozze di Cana di Paolo Veronese, trafugato da Venezia nel 1797 dall’esercito francese assieme a moltissimi altri beni artistici. La Francia non dovrebbe tanto restituire il capolavoro del Veronese all’Italia o ai Veneziani, quanto fare in modo che questa tela venga riposta sulla parete del refettorio di San Giorgio per il semplice motivo che lì, su quella parete, il dipinto esprime il massimo del proprio valore artistico. Restituire la tela al refettorio benedettino significherebbe, innanzitutto, restituire l’opera a sé stessa, ridarle vita e permettere all’umanità intera di goderne appieno.
Ma è la storia della collezione Vàrez-Fisa di Madrid a lasciare basiti: lo Speed Art Museum di Louisville, tra Kentucky e Indiana, ha deciso di restituire volontariamente all’Italia un vaso di terracotta del IV secolo a.C. proveniente da scavi clandestini effettuati sul suolo italiano (Paestum) dopo aver ricevuto le prove che ne suggeriscono lo scavo illecito e l’esportazione clandestina. Era stato acquistato da R. Symes nel 1990 per la collezione del collezionista Josè Luis Vàrez Fisa. Per puro caso due esperti come Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini si sono imbattuti in questo pezzo, consultando il catalogo della mostra di una collezione privata di recente acquisizione del Museo Archeologico di Madrid. Partita l’indagine è emerso che buona parte della collezione acquistata nel 1999 era costituita da materiali provenienti da noti trafficanti di opere d’arte attivi in Italia. Nel 2006, in qualità di consulenti tecnici del Comitato per le problematiche afferenti l’esercizio dell’azione di restituzione dei beni culturali, gli esperti hanno informato la Direzione Generale del Ministero proponendo una missione informale a Madrid per visionare la documentazione e proseguire la ricerca. Dopo un primo interessamento, però, tutto si blocca. I due esperti proseguono in maniera indipendente fino al 2010 con la collaborazione di Fabio Isman che ne dà notizia su Il Giornale dell’Arte e contatta il direttore del Museo Archeologico madrileno il quale nega qualsiasi contatto con il MiC. Idem con il direttore responsabile della nuova esposizione del 2014. Perché questa differenza di comportamento?
A proposito di cooperazione internazionale…
Le più recenti norme internazionali sono state volute in considerazione del crescente coinvolgimento di associazioni criminali – anche di matrice terrorista – nel traffico di reperti archeologici o beni culturali in genere, spesso commercializzati attraverso mercati virtuali, grazie a moderne e sofisticate tecnologie. Ma se diamo uno sguardo a ciò che sta (nuovamente) accadendo in Afghanistan, ci rendiamo immediatamente conto che, nonostante trattati, reti e sforzi comuni delle varie organizzazioni internazionali, a partire da ICCROM, ICOM fino all’UNESCO con l’International Coordination Committee for the Safeguarding of Afghanistan’s Cultural Heritage (ICC), queste norme risultano ancora inefficaci e non consentono una tutela piena e adeguata di quel patrimonio ricchissimo già fortemente danneggiato nei primi anni 2000.
Ormai conosciamo bene il plausibile rapporto tra il furto e il saccheggio di opere d’arte e di beni archeologici e il finanziamento di attività terroristiche. I timori oggi ruotano attorno agli 800.000 oggetti conservati nella collezione del Museo nazionale afghano, senza dimenticare i musei nella cittadella di Herat e quelli di Kandahar, Ghazni e Balkh, oltre a Mes Aynak, uno dei monasteri buddisti più importanti dell’Asia centrale, situato appena fuori Kabul. Se al momento non si registrano danni o furti ai beni culturali del paese lo dobbiamo forse ai leader talebani che lo scorso febbraio hanno dichiarato di aver incaricato i loro seguaci di «proteggere, monitorare e preservare in modo significativo le reliquie, fermare gli scavi illegali e salvaguardare tutti i siti storici»? Significativamente, hanno aggiunto che avrebbero vietato la vendita di manufatti sul mercato dell’arte. Ma molti esperti del patrimonio culturale afghano sono scettici. «Hanno camuffato la loro immagine, recitato una parte, ma sono ancora un gruppo molto ideologico e radicale», ha detto Omar Sharifi, professore di scienze sociali presso l’Università americana dell’Afghanistan, al National Geographic. Scetticismo giustificato se già vengono diffuse sui social immagini inquietanti di imbianchini che cancellano i volti delle donne dai manifesti pubblicitari, secondo la terribile iconoclastia della Sharia talebana.
In questi ultimi angoscianti giorni in cui si ha notizia di altre atrocità commesse fuori Kabul, si stenta a capire quali sforzi sia disposta a compiere la comunità internazionale. Va ricordato che il saccheggio di beni culturali dalle zone di guerra, come l’Afghanistan, è considerato un crimine di guerra ai sensi della Convenzione dell’Aia del 1954 e dei suoi protocolli, e della Convenzione dell’UNESCO 1970 sui mezzi per vietare e prevenire illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali.
Proprio lo scorso aprile, durante una cerimonia di restituzione a New York, il procuratore distrettuale di Manhattan, Cy Vance Jr., ha consegnato ad alcuni funzionari afghani 33 antichità saccheggiate in Afghanistan e vendute per un valore di circa 1,8 milioni di dollari. Gli oggetti recuperati sono legati al commerciante di antichità Subhash Kapoor, dal quale le autorità statunitensi hanno recuperato più di 2.500 reliquie da tutto il mondo per un valore totale stimato di 143 milioni di dollari.
Molti uomini e donne che cercano di proteggere il patrimonio culturale dell’Afghanistan, e del mondo in generale, hanno rischiato la vita nel farlo, altri l’hanno persa. Non rendiamo vano il loro sacrificio.
Ora più che mai, il mondo ha bisogno di accedere alle informazioni e alla conoscenza, e le professioni della comunicazione dovrebbero essere maggiormente sostenute proprio per rispondere all’invito dell’UNESCO alla promozione del diritto di accesso alle informazioni, riconosciuto nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goal 16.10). Vi è la necessità di educare maggiormente le Istituzioni, gli Enti, gli Istituti di Ricerca, sia nazionali che internazionali, gli esperti e l’opinione pubblica alla complessità delle questioni attinenti la tutela giuridica e operativa del patrimonio culturale, in quanto esse non riguardano solo il diritto, ma anche l’etica e la cultura in generale. È un impegno collettivo.
[1] Direttiva 2014/60/UE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla restituzione di beni culturali usciti illegalmente dal territorio di uno Stato membro: oltre all’ampliamento della nozione di bene culturale, vengono modificati i termini procedimentali concernenti la verifica della “culturalità” del bene e i termini processuali relativi alla domanda di restituzione. Viene introdotto un peculiare Sistema d’Informazione del Mercato Interno – c.d. IMI – per i beni culturali, al fine di rafforzare la cooperazione tra Stati membri e garantire una più efficace applicazione della Direttiva. Rilevante, infine, è la disciplina della c.d. due diligence (intesa come diligenza del possessore al momento dell’acquisto), affidata non più alla disciplina dello Stato membro richiesto, ma a una valutazione del giudice, guidata da criteri oggettivi. Si allinea, in tal senso, alla Convenzione UNIDROIT, ricalcandone l’approccio pragmatico e favorendo un’interazione tra i due sistemi normativi.
[2] Convenzione sui reati relativi ai beni culturali (Nicosia, 2017): è il prodotto dell’attività Commissione intergovernativa nominata per individuare un compromesso tra le esigenze di repressione delle condotte illecite sui beni culturali. Costituisce il primo trattato internazionale dedicato specificamente all’incriminazione del traffico illecito di beni culturali. Gli Stati firmatari si impegnano ad assicurare uno standard comune di criminalizzazione delle condotte offensive del patrimonio culturale, salva facoltà di apporre una clausola di riserva all’obbligo di sanzionare penalmente determinate condotte. Al diritto penale si affida il compito di reprimere un’ampia gamma di condotte: furto e altre forme di appropriazione indebita di beni culturali, scavo illegale, illecita rimozione e ritenzione di beni legittimamente o illegittimamente “scavati”, falsificazione dei documenti, distruzione e danneggiamento dolosi di beni culturali, importazione ed esportazione illegale di beni.
Approfondimenti
Restituzione di beni culturali illecitamente esportati – Audizioni in Senato:
1. https://webtv.senato.it/4621?video_evento=201501;
2. https://webtv.senato.it/4621?video_evento=201701;
3. https://webtv.senato.it/4621?video_evento=208001.
Appello UNESCO per l’Afghanistan del 19 agosto 2021
Appello ICOM per l’Afghanistan del 17 agosto 2021
Red List of Afghanistan Antiquites – ICOM
Diplomata in Scultura al Liceo Artistico Statale di Benevento, ha proseguito i suoi studi in Conservazione e restauro dei beni culturali presso l’Università degli Studi di Urbino conseguendo l’abilitazione come restauratrice. È specializzata in Arts Management e in Archeologia giudiziaria e crimini contro il Patrimonio Culturale. Co-founder dell’Associazione Art Crime Project, editore di The Journal of Cultural Heritage Crime. Membro del Direttivo Associazione Massimo Rao, è responsabile della Pinacoteca Massimo Rao. Vive e lavora a San Salvatore Telesino (BN).