Traffico internazionale di antichità e reperti antropologici. Intervista a Damien Huffer

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Damien Huffer, osteoarcheologo ed esperto in traffico di antichità.

Con l’intervista all’osteoarcheologo Damien Huffer [1], esperto dell’Università del Queensland, si sono voluti approfondire i temi legati al traffico illecito di antichità e di reperti antropologici.

Dr. Huffer, è noto ormai come il mercato dei beni culturali non segua sempre le traiettorie tracciate dalla legalità. Basti pensare ai reperti archeologici, alle opere d’arte, ai beni librari ed archivistici, così come alle testimonianze paleontologiche. Quali sono le condizioni che maggiormente minacciano una tutela effettiva di questi beni preziosi? Come pensa si sia trasformato nel tempo il complesso dei crimini perpetrato ai danni dei beni culturali?

Le minacce all’eredità culturale sono tanto diverse quanto le categorie dei singoli beni che definiscono il patrimonio culturale aventi un ruolo nel mercato. Si pensi ai reati contro le opere d’arte e le antichità, il traffico di resti umani, i furti in musei, biblioteche e archivi. Ogni bene culturale, ritenuto di interesse dai collezionisti, innanzitutto trova una propria e differente collocazione nel mercato dell’arte. Vari sono i motivi che inducono un soggetto a collezionare (e tale spinta può essere addirittura indotta dal mercato stesso). Ciascuna categoria di bene culturale può essere più o meno nota alle forze dell’ordine e alla collettività. Infine, a ciascuna di esse è attribuito un diverso valore (sia in termini di stima economica che della valenza immateriale). È dunque arduo disquisire di minacce incombenti sul patrimonio culturale adottando un unico parametro. Tuttavia, ci sono dei punti in comune che vale la pena considerare.

Si pensi agli archivi. Essi debbono assicurare che i magazzini o le mostre siano efficacemente custoditi. Inoltre, è necessario che i cataloghi siano completamente digitalizzati. In questo modo, un bene con uno specifico numero ID visibile nei registri vendite può essere oggetto di indagine. Questo problema, naturalmente, si estende anche ai siti archeologici, minacciati a causa di un inadeguato livello di monitoraggio. Questi obiettivi spesso si rivelano realizzabili solo quando le comunità locali sono significativamente coinvolte.

La più grande minaccia per il patrimonio culturale e naturale deriva dalla pochezza o dall’assenza della regolamentazione a tutela di molte delle sue categorie. Dapprima i beni culturali venivano commercializzati tramite bazaar e case d’asta, per approdare nelle collezioni di diversi proprietari dopo esser stati illegalmente sottratti dal contesto socio-culturale di appartenenza. Lo spostamento del traffico su Internet e sui vari canali di social media rappresenta oggi il cambiamento più consistente riguardo a tali reati, e la sfida più grande per il loro possibile contrasto.

Le piattaforme non solo assicurano l’anonimato ad acquirenti e venditori. L’interattività con la quale gli algoritmi operano consente di connettere persone e dar vita a nuovi networks. Fa sì, dunque, che chi si impegna ad accumulare collezioni possa agire nell’ombra e occultare i propri movimenti. Le chiusure e le condizioni sociali costrittive necessarie nella battaglia contro il Covid-19 di questi due anni hanno determinato un inasprimento della criticità della situazione in questo settore. Le ricerche dimostrano infatti che le dimensioni del commercio online non stiano affatto diminuendo. Inoltre, l’aumento dei sequestri operati dalle forze dell’ordine alle frontiere potrebbe derivare da un maggior ricorso al saccheggio sul campo, più difficile da monitorare. Per tutti coloro che, come me, intendano adoperarsi per contrastare questi illeciti, questo è un momento significativamente difficile.

Quale co-founder di ACCO (Alliance to Counter Crime Online), potrebbe descrivere le attività che l’Associazione promuove a sostegno della tutela dei beni culturali?

Certamente! Generalmente conduciamo le attività di protezione del patrimonio culturale in armonia con le nostre ricerche e l’advocacy. Rappresentiamo esperti in molti settori della ricerca sulla criminalità online uniti contro un problema comune: il traffico illecito e l’uso di social media ed e-commerce per scopi dannosi. Ciò spesso viene realizzato in contrasto con i termini e le condizioni della piattaforma stessa o con gli standard della community considerata.

Il logo di ACCO, Alliance to Counter Crime Online.

La nostra ricerca documenta l’estensione di queste varie forme di traffico o contenuti dannosi, come questi sorgono e si evolvono nel tempo sfuggendo al rilevamento. In definitiva, cerchiamo di mostrare alla collettività che tutto ciò sta accadendo proprio all’interno di piattaforme il cui uso potrebbe sembrare innocuo. I membri sono impegnati nella pubblicazione e divulgazione delle nostre ricerche. Il costante lavoro con i media è volto a favorire la loro diffusione e ad esercitare pressioni sui partiti politici (specialmente nel Congresso degli USA).

Uno dei nostri obiettivi principali sin dalla nostra fondazione nel 2018 è stata la riforma della sezione 230 del Communications Decency Act statunitense. Al momento, esso fornisce ad ogni piattaforma di social media e commercio online uno “scudo” dalla responsabilità legale. In tal modo, editori ed autori sono considerati non responsabili dei contenuti illeciti o dannosi pubblicati da terze parti tramite le loro piattaforme. Ciò spesso accade direttamente in violazione dei propri termini e delle proprie condizioni e con l’esplicito obiettivo di attirare clienti ed incrementare le vendite. Stiamo lavorando intensamente per realizzare una riforma significativa di questa legislazione che rimuova il ricorso a questo scudo. In questo modo, coloro che, ad esempio, cercano di prevenire la distruzione di siti archeologici, potranno agire contro la piattaforma stessa quando prove evidenti dei proventi di questi crimini finiscono online.

I Suoi studi sui beni culturali Le hanno permesso di entrare in contatto con popoli e civiltà di tutto il mondo. Dalle evidenze scientifiche che ne sono scaturite quali certezze ha maturato rispetto alle metodologie di tutela del patrimonio culturale?

Ho maturato la maggior parte della mia esperienza di lavoro in ambito archeologico nel sud-ovest degli Stati Uniti (in particolar modo in Arizona), nel sud-est asiatico, in Australia e nel Pacifico. Quando le indagini si incentrano sulle collezioni culturali, i programmi di protezione richiedono soluzioni globali che si fondino su input locali. È necessario che nei territori violati dal saccheggio le iniziative socio-economiche siano supportate dalle comunità e rispondano alle esigenze di economie diversificate. In tempi critici, il saccheggio non deve essere avvertito come una soluzione a cui ricorrere per necessità o coercizione. È importante aumentare la protezione sul campo dei siti archeologici più esposti, dei cimiteri, e così via, specialmente in situazioni di conflitti armati. In nessun Paese c’è un numero adeguato di soggetti in grado di monitorare costantemente il complesso di siti meno noti o scarsamente documentati dai quali possono provenire manufatti o resti umani.

È necessario aumentare le misure volte a identificare e scardinare le reti che consentono agli intermediari di far pervenire i beni trafficati agli acquirenti. La crescente frequenza con la quale ciò avviene su una ampia varietà di piattaforme online, e le tutele legali di cui queste ultime godono, rende di vitale importanza che le forze dell’ordine, gli accademici, gli avvocati, i politici, i cittadini e (idealmente) gli amministratori delle piattaforme stesse, cooperino per sorvegliare tali spazi. Globalmente si richiede un impegno di gran lunga maggiore. Bisogna controllare questo commercio date le proporzioni in cui il traffico di beni culturali si sovrappone ad altre categorie di traffici. Fin quando ce ne sarà domanda, questi mercati continueranno a crescere, mutare e individuare nuovi sbocchi.

Potrebbe, attraverso il report di un caso da Lei studiato, illustrare quali siano le difficoltà derivanti dalle indagini sul commercio illecito di beni culturali?

Ovvio! Sfortunatamente, ce ne sono molte. Parlerò qui del primo caso al quale ho assistito nel 2010, in qualità di studente laureato in osteo-archeologia presso la Scuola di Archeologia e Antropologia dell’Università Nazionale Australiana. All’epoca collaborai quale cultore di materia sia con un membro della suddetta facoltà, esperto in archeologia preistorica del sud-est asiatico, sia con le forze dell’ordine. Indagammo sulle peculiarità e le origini di un corredo funerario esteso nel quale figuravano resti umani e beni funerari, illecitamente importati da un commerciante a Melbourne. Si trattava di un individuo noto in Australia per i traffici di antichità. Nonostante i suoi trascorsi con la giustizia, egli si rivelò abile nel ricevere alcuni dei manufatti, provenienti dalla Cina e dalle Filippine, presenti nella spedizione.

Casi come questi dimostrano come i trasgressori noti alle autorità di fatto possano dar seguito ai loro traffici. Il numero di agenti addestrati al riconoscimento dei beni culturali illecitamente esportati (o che siano autorizzati a dare priorità al perseguimento di questo obiettivo laddove emergano ulteriori tipi di traffico del quale i governi, i politici e la cittadinanza riconoscano più facilmente il danno, come nel caso del traffico di droga) è ancora piuttosto basso. Rispetto al traffico illecito online, è evidente che le leggi della maggioranza dei Paesi non sono al passo con i tempi. Le forze dell’ordine e chi, come noi, lavora con esse a stretto contatto, debbono illustrare nuovi approcci in ambito penale. Questi debbono travalicare i confini della rigida legge sulla proprietà culturale.

In due contenitori di Styrofoam rinvenemmo resti umani provenienti da scavi illeciti. La confisca senza contestazione ha consentito agli esperti di valutarli attentamente, nella speranza di poter collocare il reato nell’ambito di un contesto più ampio. Ci impegnammo, dunque, a individuare quanti più elementi possibili del materiale confiscato, al fine di assicurarne quantomeno la restituzione alla Cambogia nel 2011. Il caso in sé dimostrò la sfida interna ai sistemi legali di alcuni dei cosiddetti Paesi Mercato. Questi, infatti, trasferiscono l’onere della prova sul venditore, tenuto a dimostrare che i beni sequestrati non sono stati acquisiti, importati o esportati illegalmente. Dati i pochi casi di traffico illegale di resti umani globalmente processati in tribunale, è probabile che la situazione cambierà molto lentamente. Nel frattempo, la vigilanza costante e una maggiore applicazione delle leggi a volte trascurate si rivela di fondamentale importanza.


[1] Il Dott. Damien Huffer è stato ricercatore del Dipartimento di Antropologia dell’Istituto di Conservazione del Museo Smithsonian dal 2014 al 2016 e presso l’Università di Stoccolma dal 2017 al 2019. Attualmente collabora con il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Queensland.

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