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Il complesso dei beni culturali di proprietà pubblica e privata costituisce quello che viene giustamente definito: patrimonio artistico e culturale. Il valore di tale patrimonio non si misura soltanto in termini economici ma, ancor più, in termini di memoria storica e di significato artistico-culturale.

Del resto, se nel processo di “valutazione” di un’opera d’arte si dovessero applicare esclusivamente criteri appartenenti alla scienza dell’economia, il risultato sarebbe a dir poco sconvolgente, oltre che fuorviante. Sul piano esclusivamente economico quanto mai potrebbe valere un’opera d’arte la cui larghezza misuri 8,8 metri e alta più di 4 metri e mezzo, realizzata più di 500 anni fa, con colori a tempera e olio, sulla parete di un Convento di Milano. Applicando criteri puramente economici, l’oggettiva inamovibilità dell’opera spingerebbe verso il basso il prezzo di quel dipinto. Eppure, come a tutti noi è noto, proprio quella raffigurazione dell’Ultima Cena di Cristo resta la più famosa della storia dell’arte occidentale. Il Cenacolo vinciano o Ultima cena, ubicata presso il Refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, è un’opera d’arte il cui valore è talmente alto da risultare incommensurabile e poco importa che a un ipotetico acquirente sarebbe impossibile portarsi a casa il dipinto.

Per molti aspetti, il patrimonio artistico e culturale di una nazione è paragonabile al patrimonio genetico di una famiglia, ovvero, a quel corredo di fattori che delineano il profilo di un individuo per le sue peculiarità, le stesse che si trasmetteranno “in eredità” ai suoi discendenti.

I beni culturali, le opere d’arte, sono intrisi del carattere sociale, politico, artistico e culturale, delle generazioni che hanno preceduto la nostra e consentono di tracciarne la storia e le fasi di una evoluzione continua.

La valutazione di un bene culturale, dunque, non può basarsi esclusivamente su criteri che non tengano conto del “DNA” dell’opera d’arte che ne determina il significato e la colloca in una precisa fase del percorso evolutivo della civiltà umana.

Insieme a due professionisti esperti dei processi di valutazione – mi riferisco a Genséric Cauntournet e Angela Pietrantoni, rispettivamente, presidente e CEO di Kelony® First Risk-Rating Agency – ci siamo interrogati circa i criteri oggettivi da applicare alla valutazione di un’opera d’Arte. È ovvio che il valore di un dipinto, per esempio di Leonardo Da Vinci, non possa essere il risultato del valore della tela e dei materiali utilizzati e nemmeno dei costi per la conservazione e la tutela dell’opera contro il logorio del tempo.

Abbiamo fatto ricorso all’analogia e ci siamo chiesti: quanto vale un figlio?

Una domanda che potrà apparirle assurda e, infatti, la nostra è una dimostrazione ab absurdum. Al pari di un figlio, l’opera d’arte non ha un valore economico in sé ma è la personificazione di un valore affettivo, emotivo, culturale, genetico e della capacità di trasmettere a sua volta questi valori e dunque il calcolo del suo valore richiede la stima del rischio di perderlo. La perdita di un’opera d’arte, analogamente a quella di un figlio, spezza quella capacità di trasmissione di valori. Peraltro, la perdita o la sottrazione di un’opera d’arte intacca il valore reputazionale di quell’ente a cui era attribuita la responsabilità di tutelarne la conservazione (contro i fenomeni di degradazione spontanea o naturale), l’incolumità (rispetto al rischio di alterazione o distruzione direttamente causati dall’uomo) e di garantirne la valorizzazione a beneficio della collettività.

Il mercato dell’arte – a parere di chi scrive – non è capace di tenere conto di tali di criteri di valutazione dell’opera d’arte e non è in grado di valorizzare il patrimonio artistico e culturale.
La carenza di regole adeguate che caratterizza il mercato dell’Arte offusca la trasparenza di quelle dinamiche commerciali che alimentano un volume d’affari che nel 2020 ha superato i 50 miliardi di euro, finendo per esercitare un forte potere attrattivo nei confronti di organizzazioni criminali dedite al riciclaggio di proventi illeciti.

Come emerge da analisi della FBI americana e dell’Unesco: il traffico di opere d’arte costituisce uno dei maggiori mercati di illecito, nel panorama mondiale, paragonabile soltanto a quello della droga, delle armi e quello ancora più abietto, la tratta di esseri umani.
I risultati di tali analisi sono confermati dalle Relazioni della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, della Direzione Investigativa Antimafia, del Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri e della Commissione Parlamentare Antimafia, oltre che dall’esame di alcuni casi di cronaca.

Anche se stabilire con esattezza le dimensioni del traffico illecito di opere d’arte è operazione estremamente problematico, a causa della segretezza delle attività illegali e la conseguente scarsità di informazioni, si stima che il traffico illecito di opere d’arte a livello mondiale movimenti tra i 4 e i 6 miliardi di dollari all’anno (il 9–12% dell’intero volume d’affari).

La mancanza di trasparenza nel mercato dell’arte è il più forte appeal per la criminalità organizzata e favorisce il riciclaggio del denaro sporco, ovvero l’impiego di risorse finanziarie derivanti da attività illecite che, tramite diversi passaggi e metodi (spesso sintetizzati nelle tre fasi di immissione, occultamento e integrazione) vengono reimmesse nel sistema legale, perdendosi le tracce di quell’origine illegale.

Altro fattore di interesse è la volatilità (perlopiù, verso l’alto) del valore di mercato delle opere d’arte. A tutto ciò si deve aggiungere – ed è questo il deficit normativo cui si faceva riferimento – che la cessione di un’opera d’arte tra privati, consente lo scambio di denaro senza che sia richiesto di giustificare l’entità e la provenienza del denaro. Il risultato è un mercato – troppo spesso – “invisibile” che viene utilizzato come uno dei principali canali di riciclaggio dalle organizzazioni criminali.

Come è facile immaginare, l’Italia è un paese straordinariamente esposto al rischio di traffico illecito di opere d’arte, nonché, di riciclaggio di proventi di attività illecita. Di contro, il sistema italiano di contrasto penale costituisce un modello virtuoso, guidato – principalmente – dal Comando Tutela Patrimonio Culturale (TPC) dell’Arma dei Carabinieri e il Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma della Guardia di Finanza. Tuttavia, la disciplina normativa nazionale, spesso presa come modello virtuoso da altri contesti internazionali, non è priva di alcune lacune e incongruenze.

Proprio dalla consapevolezza di dover colmare tali lacune e correggere certe incongruenze, ha preso spunto il progetto di tracciabilità dei beni culturali che si propone qui di seguito con l’obiettivo di coinvolgere in un’azione sinergica le Autorità e gli enti istituzionali competenti (Ministero Economia e Finanze, Ministero della Cultura, Ministero dello Sviluppo Economico, unità di Informazione Finanziaria, Banca d’Italia, SIAE).

L’osservazione che ha consentito di disegnare la struttura giuridica di tale progetto che mi piace definire a “vocazione istituzionale” ha preso spunto da una prima incongruenza: le opere d’arte non rientrano nella definizione giuridica dei Beni mobili iscritti in pubblici registridi cui all’art. 815 c.c.

Un esempio potrà chiarire meglio il concetto. La compravendita di una motocicletta, piuttosto che di un’autovettura comporta una serie di operazioni di tipo amministrativo-burocratico, come la conclusione di un contratto che formalizzi il passaggio di proprietà e dal quale emergano: i dati identificativi del veicolo (targa, numero di telaio, cilindrata e altro); il prezzo e le modalità di pagamento. Inoltre, le parti dovranno provvedere allo scambio del foglio complementare e della carta di circolazione del veicolo ceduto, previa, esibizione dei documenti di identità del proprietario/venditore e dell’acquirente, infine, dovrà essere effettuata la trascrizione del nominativo del nuovo proprietario/acquirente nel Pubblico Registro Automobilistico (il cd P.R.A.). Si tratta di adempimenti che il legislatore ha previsto per la cessione di beni mobili registrati, pretendendo che il trasferimento di questi beni sia assoggettato alla registrazione dei dati della catena proprietaria su un pubblico registro, anche per gli effetti della responsabilità civile

Nessuno di questi adempimenti è richiesto, invece, nel caso di cessione di un’opera d’arte, con la conseguenza che nessuna traccia potrà rinvenirsi circa l’identità del proprietario dell’opera e, nemmeno, della sottostante movimentazione di denaro, di cui non si conoscerà mai né l’origine né la destinazione.

Ciò premesso, è evidente che un intervento normativo finalizzato ad attrarre le opere d’arte all’interno della categoria giuridica dei Beni mobili iscritti in pubblici registri rappresenterebbe il presupposto giuridico per la legittima tracciabilità delle opere d’arte, le cui operazioni di cessione potrebbero essere trascritte su un Registro dei Titolari delle opere d’Arte.

L’istituzione di tale registro, sul modello del Registro dei Titolari Effetti di società ed enti, già previsto dalla V direttiva AM, potrà consentire il monitoraggio dei passaggi di proprietà di un’opera d’arte, il contenuto dell’accordo contrattuale che ne ha segnato il legittimo trasferimento (le caratteristiche dell’opera, il suo valore e prezzo di mercato, i dati identificativi del venditore e dell’acquirente) e le movimentazioni di denaro sottostanti alle operazioni di compravendita.

In virtù della previsione di un obbligo di registrazione delle cessioni di opere d’arte si riuscirebbe a conferire al mercato dell’arte quel fattore di trasparenza che scoraggerebbe il ricorso al denaro sporco per l’acquisto di un opera d’arte, dal momento che il soggetto acquirente non sarebbe nella condizione di poter giustificare e documentare la provenienza di quel denaro e sarebbe, altresì, obbligato a effettuare la trascrizione del proprio nominativo, in qualità di nuovo proprietario dell’opera, su un registro pubblico, come tale, consultabile anche dalle autorità di polizia per le indagini tributarie e finanziarie.

Sul piano operativo, la tracciabilità dei beni culturali verrebbe realizzata per effetto dell’applicazione di un contrassegno elaborato e applicato dall’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato. L’IPZS ha già apprezzato il progetto e si è dichiarato pronto a mettere a disposizione anche un supporto informatico, una piattaforma digitale che consentirebbe il monitoraggio in tempo reale dei movimenti di opere d’arte e delle movimentazioni di denaro connesse. Trattandosi di un contrassegno di Stato, è ovvio che la sua eventuale rimozione o falsificazione sarebbe perseguita ai sensi di legge.

Peraltro, nel caso di opera in formato digitale, per intenderci i Non Fungible Token (NFT) di cui tanto si parla, anche il contrassegno sarebbe elaborato in formato digitale e consisterebbe in una sorta di chip che resterebbe abbinato alla cripto-opera d’arte. Le informazioni contenute e condensate in quel contrassegno o chip sarebbero invece convogliate, in forma più estesa, su quel database che potrà alimentare quel Registro dei Titolari di opere d’Arte che spero possa trovare istituzione e impiego.

I risultati che si conseguirebbero realizzando il progetto di tracciabilità dei beni culturali sarebbero molteplici e si collocano su differenti piani.
Sul piano dell’azione Antiriciclaggio, si debella il mercato illegale dei beni culturali e si “sterilizza” il mercato legale dei beni culturali con l’effetto di ottenere documentazione delle movimentazioni di denaro che lo alimentano.
Sul piano dell’Anticontraffazione, esclusivamente le opere munite del contrassegno di Stato sono da considerarsi autentiche, mentre quelle sprovviste sarebbero o frutto di attività di contraffazione o, comunque, di provenienza illecita, visto che potrebbe trattarsi di opere autentiche dalle quali viene rimosso il contrassegno per proporle sul mercato clandestino.
Sul piano del diritto d’Autore, si riuscirebbe – finalmente – a garantire il corretto versamento del diritto di seguito previsto dall’art. 144 della Legge 22 aprile 1941, n. 633.

Invece, l’opportunità di geolocalizzare l’opera d’arte è un’evoluzione dell’idea originaria che ho inserito nel progetto per rispondere a esigenze che sono emerse dal proficuo confronto che ho aperto da tempo con gli operatori del mondo dell’arte, i quali hanno manifestato l’esigenza di “seguire” i movimenti delle opere che sono soliti concedere in noleggio a musei o enti vari, così da ottenere risultati in termini di controllo e vigilanza sul bene stesso.

Ovviamente, in fase di applicazione sarà necessario considerare i profili che attengono alla tutela dei dati personali e al rispetto della privacy, ecco perché ritengo sarà necessaria una attenta valutazione da parte dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali.

In conclusione, una considerazione in termini di rapporto costi/benefici. Trattandosi di un progetto “istituzionale” tutte le attività sarebbero svolte in house, per cui non emergono costi significativi. Significativi, invece, sarebbero i benefici, dato che si recupererebbero a tassazione quei 4-6 miliardi di euro che oggi alimentano il mercato illegale e che costituirebbe, così facendo, la base imponibile ai fini IRPEF o IRES e, inoltre, assumerebbero rilevanza ai fini dell’applicazione dell’I.V.A. sulle cessioni di opere. Infine, come già rilevato, a trarne beneficio sarebbero coloro che dovrebbero essere riconosciuti come i veri protagonisti del mercato dell’Arte, ovvero, gli Artisti che – come detto, finalmente – potrebbero intascare quanto spetta loro, a titolo di diritto di seguito calcolato sulle cessioni di opere in cui vi sia l’intervento di intermediazione di un operatore del mercato dell’arte (Galleria d’arte, Casa d’asta o Mercante d’arte).  

Le principali sfide del mercato dell’Arte secondo il Rapporto ArtFinance Deloitte 2020.

[Le considerazioni espresse in questo articolo sono frutto del pensiero dell’Autore e non vincolano il MEF, P.A. di appartenenza].

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