Quale manutenzione per ponti antichi e moderni?
Il recente caso del ponte di Apice (BN)
La piccola cittadina di Apice, in provincia di Benevento, è conosciuta ai più per il suggestivo villaggio fantasma di Apice Vecchia, cristallizzato al 21 agosto del 1962 quando fu duramente colpito da due violente scosse di terremoto che portarono all’evacuazione dei 6500 abitanti. Gran parte di essi si trasferirono nel nuovo centro abitato, sorto a poco distanza, sul pianoro prospiciente il vecchio paese. Apice Nuova e Apice Vecchia erano collegate da un ponte a cinque arcate, realizzato sul fiume Calore tra il 1838 e il 1846 dall’ing. Massari. Quel “gran ponte di Apice”, elegante e solido, utilizzato fino alla Seconda Guerra Mondiale quando fu fatto esplodere per cercare di fermare i tedeschi, successivamente ricostruito nelle antiche forme per volontà della popolazione, resistito a eventi tellurici fortissimi e all’abbandono dopo l’interclusione al transito a favore di un’altra struttura gemella più moderna, è crollato definitivamente l’11 agosto scorso a causa della totale mancanza della tanto sbandierata manutenzione sistematica che è prioritaria garanzia di conservazione del patrimonio culturale.
Tanta rabbia e amarezza da parte del sindaco di Apice, Angelo Pepe, che ha denunciato la mancata programmazione di un intervento di recupero da parte delle istituzioni preposte, a cominciare dall’Ente Provincia di Benevento e dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Caserta e Benevento, nonostante le numerose segnalazioni effettuate dall’Amministrazione comunale apicese a partire dal 2013. Nel mese di giugno si evidenziava già il crollo della pila in uscita sul lato destro e il cedimento del muro d’ala adiacente, oltre al pericoloso accatastamento di alcuni tronchi alla base di due piloni del ponte che impedivano il regolare deflusso delle acque. Ad ottobre dello stesso anno, l’Ente provinciale aveva dato un riscontro a quella prima segnalazione ed elaborato un progetto preliminare che era stato però bocciato dalla Soprintendenza poco tempo dopo, a seguito del sopralluogo effettuato dal Funzionario incaricato che ne aveva evidenziato l’inadeguatezza in quanto palesemente insufficiente rispetto al fabbisogno reale di intervento.
Da allora nessun’altra iniziativa è stata intrapresa e il ponte ha continuato a subire le conseguenze di quella mancata manutenzione. Gli eventi alluvionali dell’ottobre del 2015 hanno ulteriormente aggravato e ampliato i crolli: l’incremento dell’azione erosiva dell’ondata di piena, accentuata dallo sbarramento dei tronchi tra i due piloni centrali, ha provocato il crollo della briglia di base e il cedimento della parte esterna della pila di sinistra e della relativa sponda. Nel 2017 la situazione impensieriva così tanto che un ulteriore sollecito era stato inviato in copia anche alla Prefettura di Benevento: l’Amministrazione comunale temeva infatti che l’eventuale cedimento del ponte potesse avere effetti gravi sulle aziende agricole e sugli immobili posti a monte dell’asta fluviale, destinati ad essere allagati a causa dell’effetto diga provocato dall’ammasso di legname e materiale lapideo andatosi ad accumulare.
Soltanto a febbraio di quest’anno, dopo aver fortemente sollecitato un sopralluogo a seguito degli eccezionali eventi metereologici avutisi a dicembre 2020, il sindaco Pepe e l’Ing. Stanislao Giardiello del Comune di Apice, l’Arch. Antonio Michele Izzo della Soprintendenza e l’Ing. Michelantonio Panarese della Provincia di Benevento sono riusciti finalmente a mettere a fuoco la situazione.
Ben 8 anni dopo la prima segnalazione.
Ovviamente non ci voleva più molto a capire che lo stato critico di sicurezza del ponte aveva raggiunto il limite e che questo stato era addebitabile all’assenza di manutenzione sia dell’alveo del fiume che della struttura fin dal momento della sua dismissione funzionale; le variazioni stagionali di portata idrica del Calore e il moto erosivo dovuto alla potenza di scarico, accentuato dalle sacche venutesi a creare dopo le erosioni della briglia, avevano praticamente scalzato i piloni, alcuni già parzialmente crollati ed altri con evidenti fratture verticali preludenti a successivi cedimenti. Infine si prendeva atto che il crollo, data la notevole quantità di materiale compositivo, avrebbe potuto determinare serie problematiche anche sul ponte situato a monte, sede di transito attuale della S.P. 27, importante snodo tra il Sannio e l’Irpinia.
La cosa che lascia esterrefatti è che dopo questa ricognizione con tanto di stila dei danni la situazione non si sia sbloccata, anzi, nel mese di marzo 2021, il Sindaco ha dovuto nuovamente scrivere a tutti gli enti, regionali e non, preposti alla protezione civile e alla tutela del patrimonio culturale, dato il riscontro di un altro crollo che oramai privava il ponte di quasi tutti gli elementi stilistici che lo caratterizzavano.
Perché la voce degli Apicesi è rimasta inascoltata? Perché un bene storico di grande valore per la comunità locale e per il Sannio è dovuto collassare per far sì che qualcuno se ne interessasse?
Da una nota del 21 luglio scorso, il Presidente della Provincia di Benevento, Antonio Di Maria, ha comunicato lo stanziamento di poco meno di 14 milioni di euro per i ponti e viadotti beneventani, finanziamento che rientra nel contesto delle misure adottate per la messa in sicurezza delle infrastrutture stradali dopo il crollo del ponte autostradale sul Polcevera a Genova il 14 agosto del 2018. Soldi non sufficienti per intervenire su tutte le strutture individuate.
Cambiano i soggetti ma purtroppo la storia è sempre la stessa. Ponti, mura di cinta di antiche città, edifici storici… La manutenzione, in particolare quella di tipo preventivo, è un’attività da sempre richiamata come necessaria nel dibattito culturale, sin dalla metà dell’Ottocento, ma mai effettivamente attuata. Molti esperti (e in tutte le Carte del Restauro) hanno sempre rimarcato una predilezione per le attività preliminari di “cura”, attenta, costante e scrupolosa, rispetto al più invasivo intervento di restauro, che necessariamente viene attivato quando il danno è oramai avvenuto.
Non dimentichiamoci mai del prezioso lavoro della Commissione Franceschini e le fondamentali riflessioni di Giovanni Urbani che con il suo Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria (1976), introdusse una visione d’avanguardia che partiva dalla concezione degli edifici come oggetti complessi e in relazione con l’ambiente. Tale visione richiedeva e richiede un evidente cambio di prospettiva che presuppone di pensare alla manutenzione come a una serie programmata di interventi pianificati e attivati a partire da un rilevamento generale dei fattori di rischio. Successivamente, i lavori hanno poi trovato assestamento normativo nel Codice per i Beni Culturali e il Paesaggio dove per manutenzione “si intende il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti”. L’invito a una costante manutenzione preventiva è stato, tuttavia, quasi sempre disatteso. Quali giustificazioni si possono addurre a questa carenza?
Ragioni di ordine culturale, per cui le comunità locali non si sentono coinvolte nei processi di riconoscimento dei valori culturali e identitari dei luoghi, quindi non si mobilitano nelle azioni di cura? O di ordine economico, quando è facilmente immaginabile che i costi delle mancate manutenzioni saranno ben più rilevanti di quelli di una prevenzione costante e assidua? Oppure di ordine tecnico, pur sapendo che le conoscenze che devono supportare l’attività ispettiva e le pratiche di manutenzione programmata, per la loro consistenza e natura (si tratta di azioni semplici e ripetitive), sono già per larga parte patrimonio consolidato della cultura tecnica?
Nel caso sopra citato del ponte di Apice si tratterebbe più che altro di scarsa volontà e insufficienti motivazioni nell’applicazione delle prassi operative ben note. La “cura” del costruito storico-archeologico non può che partire dal riconoscimento della situazione di cronicità del degrado ma la conservazione del patrimonio culturale non può essere risolta inseguendo continuamente le emergenze, richiede al contrario adeguate politiche di tutela e di gestione di una pluralità notevolissima di beni diffusi sul territorio. “Un modo di pensare e di agire, dunque, profondamente alternativo rispetto al presente e al passato, che promuova le strategie (prevenzione e cura) rispetto alle tattiche (restauro come soluzione di tutti problemi); la riflessione (indagare, scegliere, decidere) rispetto al fare (intervento, modificazione); l’immateriale (l’organizzazione, la gestione, l’appropriatezza d’uso) al materiale (le tecniche più aggiornate, i prodotti “risolutivi”); il perseguimento dell’efficacia a lungo termine piuttosto che la ricerca della pura efficienza e del beneficio immediato”[1].
L’articolo 9 della Costituzione ci ricorda che “La Repubblica (…) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” ma con 500 mila edifici assoggettati o assoggettabili a tutela, centinaia di siti archeologici, 58 beni considerati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, tra cui interi centri storici di città come Venezia, Roma, Firenze, Napoli, ecc., con un patrimonio di questa bellezza e di questa dimensione, bisogna cambiare strategia e quella vincente porta alla manutenzione preventiva. Non solo per una migliore ed efficace conservazione ma anche per ottimizzare i costi. Si stima, infatti, nel decennio, un risparmio tra il 60 e l’80% rispetto al costo del restauro perché i costi della “non manutenzione” sono molto, molto elevati.
Anche la Corte dei Conti ha voluto veder chiaro nella questione e l’indagine effettuata lo scorso anno sul Fondo per la tutela del patrimonio culturale[2], che ricostruisce il panorama normativo dedicato alla tutela del patrimonio culturale e paesaggistico e identifica le risorse finanziarie ad essa destinate a carico del bilancio statale, del MiC e dei fondi Strutturali e di investimento europei, ha anch’essa evidenziato che “la gestione degli interventi è apparsa per lo più contrassegnata da una logica dell’emergenza non legata a quel circuito virtuoso di una programmazione pluriennale che aveva originato l’istituzione del Fondo stesso”, ma il “carattere esclusivamente manutentivo dei beni culturali” è un profilo critico non imputabile a coloro che hanno in cura i Beni artistici, quanto, piuttosto, “a scarse risorse finanziarie, esigue a fronte dell’entità del patrimonio culturale presente nel nostro Paese”. Criticità sono state riscontrate anche in termini di carenze nell’attività di monitoraggio e controllo dell’esecuzione degli interventi e nell’alimentazione della Banca Dati delle Amministrazioni Pubbliche, finalizzata all’unitaria rilevazione delle opere programmate. Per la Corte è imperativo stabilire uno stretto coordinamento tra i diversi livelli di governo (Stato e Regioni), in particolar modo nella fase della programmazione degli interventi e nelle modalità operative di rilevazione dei fabbisogni sul territorio, intraprendendo un percorso di condivisione con le autonomie locali ispirato a una visione strategica nazionale tale da “riconsegnare al Paese e alla collettività un patrimonio culturale risanato” anche grazie “ad una minore frammentazione delle risorse finanziarie destinate”.
Accade sempre, dopo ogni crollo, che quella flebile lucina di indignazione si spenga facilmente (a meno che non si tratti di Pompei, e allora giù di finanziamenti per iniziative “spot” che nascono e muoiono una volta rimesso tutto a posto). Una delle poche proposte tese a monitorare lo stato di salute dei nostri beni culturali è la “Lista Rossa” dei Beni Culturali in pericolo di Italia Nostra. Si tratta di un progetto nato nel 2010 per contribuire concretamente alla mappatura del rischio, nella convinzione che sia dovere dei cittadini e delle associazioni praticare la sussidiarietà cittadino/amministrazioni suggerendo soluzioni per il “Bene Comune”. Ad oggi sono stati classificati circa 350 beni in pericolo imminente: chiese, castelli, palazzi, fortificazioni, siti archeologici, borghi, etc.
Presa ogni precauzione possibile, il sindaco di Apice attende le mosse degli Enti territoriali competenti, in particolare della Provincia di Benevento, quale Ente proprietario, e della Soprintendenza. Ma con l’arrivo delle piogge e dei periodi di piena, che cosa ne sarà dei poveri resti del ponte apicese? Una cosa è certa: “La comunità è irritata, si è giustamente scocciata dei tempi biblici delle istituzioni di riferimento e vuole la ricostruzione del ponte, simbolo del paese”.
Note
[1] Musso S., La conservazione programmata come sfida per una tutela innovativa del patrimonio culturale, in Canziani A. (a cura di), Atti del Convegno “Conservare l’Architettura. Conservazione programmata del patrimonio architettonico del XX secolo”, Electa, Milano, 2009.
[2] Il Fondo, istituito dall’art. 1, c. 9 e 10, della legge n. 190/2014 (Legge di stabilità 2015) nello stato di previsione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, è stato dotato, inizialmente, di 100 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2016 al 2020, poi implementati ed allocati sul capitolo 8099 del bilancio dello Stato, con l’obiettivo di proseguire – previo parere delle Commissioni parlamentari e trasmissione al CIPE – l’attività di manutenzione e conservazione dell’ingente patrimonio culturale del nostro Paese. Il programma ha il compito di individuare gli interventi prioritari da realizzare, le risorse da destinare a ciascuno di essi ed il relativo cronoprogramma.
Diplomata in Scultura al Liceo Artistico Statale di Benevento, ha proseguito i suoi studi in Conservazione e restauro dei beni culturali presso l’Università degli Studi di Urbino conseguendo l’abilitazione come restauratrice. È specializzata in Arts Management e in Archeologia giudiziaria e crimini contro il Patrimonio Culturale. Co-founder dell’Associazione Art Crime Project, editore di The Journal of Cultural Heritage Crime. Membro del Direttivo Associazione Massimo Rao, è responsabile della Pinacoteca Massimo Rao. Vive e lavora a San Salvatore Telesino (BN).