L’insegnamento del restauro vittima di una riforma incompiuta

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Lo scorso primo ottobre si è tenuto un convegno, promosso dalla Commissione tecnica per le attività istruttorie finalizzate all’accreditamento delle istituzioni formative e per la vigilanza sull’insegnamento del restato, organizzato dal Ministero della Cultura, Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali e dal Ministero dell’Università e della ricerca, Direzione generale degli Ordinamenti della formazione superiore del diritto alla studio, in collaborazione con l’Istituto centrale per la grafica e la Fondazione Scuola del beni e delle attività culturali, dal titolo 2011-2021 dieci anni di riforma dell’insegnamento del restauro.

Riunitesi attorno all’evento così tante e tali istituzioni è naturale e piuttosto intuitivo immaginare che la giornata sia stata – come effettivamente è stata – estremamente ricca di relatori e fitta di spunti, diversi a seconda del punto di osservazione e della peculiare competenza, che hanno condotto a differenti conclusioni: l’impianto formativo, alla luce della riforma del 2011, funziona? È di qualità l’insegnamento del restauro? Quali effetti positivi e quali distorsioni ha prodotto la riforma? Ed eventualmente quale impatto può avere, nell’immediato e nel lungo periodo, un insegnamento scadente o carente del restauro sulla tutela del patrimonio culturale?

Per offrire delle risposte ed eventualmente aprire un’ulteriore riflessione sul tema, abbiamo scelto l’intervento di Pietro Petraroia – che di seguito pubblichiamo integralmente su gentile concessione dell’autore, che ringraziamo – perché affronta la questione anche dal punto di vista della corresponsabilità tra Stato e Regioni, ridiscute l’adeguatezza dell’insegnamento universitario, (ri)chiama in causa la (cronica) carenza di dotazioni finanziarie e di soluzioni operative che concorrono a nutrire la bolla di precarietà, come condizione professionale ed esistenziale, dei docenti di restauro: se, ad ogni passaggio della “filiera”, perdiamo un pezzo o un ingranaggio non funziona adeguatamente, allora ci dobbiamo interrogare – e preoccupare – su cosa oggi stiamo facendo per mantenere viva ed efficiente domani la conservazione del nostro patrimonio culturale.

Una riforma incompiuta

di Pietro Petraroia

L’occasione odierna è preziosa per un primo confronto pubblico, che si pone a un decennio dall’attivazione dei corsi di laurea magistrale a ciclo unico per la formazione e per l’abilitazione alla professione di restauratore di beni culturali nella classe di laurea LMR02.

Venti anni sono passati invece dalla riforma costituzionale del 2001, che certo non trattò direttamente questo tema, ma fu ovviamente riferimento imprescindibile per la redazione del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (Codice BCP) fra 2003 e 2004, dunque anche per questa incompiuta riforma. La faticosa redazione dell’articolo 29 del Codice mirò infatti a incardinare nelle funzioni di tutela (per la cui normazione lo Stato ha, appunto dal 2001, competenza legislativa esclusiva) la definizione della figura professionale del restauratore di beni culturali e delle altre figure che concorrono con competenze complementari all’attività di conservazione, nonché l’ordinamento dei percorsi formativi relativi. Con questo, d’accordo con le Regioni (che allora contribuivo a rappresentare ai tavoli di confronto sulla redazione del Codice), si pose di fatto la stessa formazione professionale sotto la potestà di indirizzo della normativa di tutela, ottenendo, sia pure ancora in filigrana, la delineazione di un sistema di formazione e istruzione – statale, regionale e privato – che si voleva concordemente orientare alla qualificazione degli interventi.

Il sistema introdotto dall’articolo 29 (che fu poi integrato con il comma 9-bis e l’articolo 9-bis del Codice BCP) mirava in effetti ad alcuni obiettivi specifici e assai ambiziosi:

– definire la conservazione del patrimonio culturale come un servizio di pubblico interesse e come un processo organicamente strutturato e qualificato, cui nondimeno concorrono differenti competenze, differenti soggetti istituzionali e almeno due livelli di governo, quello statale e quello regionale;

– individuare il restauratore di beni culturali come un professionista e non più come un operatore, dunque idoneo e abilitato a progettare e ad eseguire interventi diretti sulla materia dei beni culturali, nel quadro di un’azione di conservazione a carattere pluridisciplinare e partecipata da più competenze, tramite un processo collaborativo e di co-decisione;

– individuare nella formazione universitaria o equiparata l’ambito adeguato per la costruzione delle competenze professionali del restauratore di beni culturali, che richiedono evidentemente attività complementari di studio, ricerca, valutazione critica e tecnica, intervento, coordinamento di altre figure professionali di supporto, documentazione e rendicontazione tecnico-scientifica e amministrativa;

– promuovere l’individuazione e specificazione delle altre figure professionali complementari (profili di competenza), nonché del loro percorso formativo in termini coerenti con l’analogo percorso previsto per il restauratore;

– specificare in forma coordinata, sia pure in termini generali, ruoli e funzioni dello Stato centrale e delle Regioni rispettivamente, individuando (come anche in altri passaggi del Codice BCP) nella Conferenza unificata Stato-Regioni la sede propria della formalizzazione di scelte convergenti, così da raccordare le esigenze di omogeneità metodologica a livello nazionale con la declinazione territoriale di quegli aspetti della formazione alla conservazione, che più efficacemente possono considerare le specificità del patrimonio locale, dei materiali costitutivi e delle lavorazioni che lo caratterizzano.

Nella consapevolezza che l’università assolve istituzionalmente a funzioni di ricerca e di formazione (tralasciando qui il tema della ‘terza missione’, che pure avrebbe la sua pertinenza) e che in questo suo ruolo offre potenzialmente il contesto più adatto per costruire le competenze adeguate del restauratore di beni culturali, si è tuttavia realisticamente preso atto, nel Codice BCP, della necessità di verificare, sia inizialmente che nel corso del tempo, la disponibilità effettiva presso le università di tutti i requisiti necessari sotto ogni aspetto per la formazione del restauratore anche in ambito laboratoriale e di cantiere. In tal senso, si è fatto e si fa ricorso alla nozione di “accreditamento”.

Una mia prima considerazione al riguardo è che questo precetto di legge ha dall’inizio rischiato di venire definitivamente frainteso e sostanzialmente eluso.

Parlo di fraintendimento, nel caso in cui si supponga che l’adeguatezza delle attrezzature, della logistica, delle competenze dei docenti debba riferirsi essenzialmente a quelle fasi dell’attività formativa, nella quale docenti e allievi modificano, con l’intervento, la materia dei manufatti di interesse culturale cui si applicano per la didattica; mi riferisco insomma a quelle attività che in passato molti hanno ritenuto essere di natura artigianale e tipiche della competenza “pratica” del restauratore.

Ritengo invece che l’adeguatezza dell’intero corpo docente di un’istituzione universitaria vada attentamente verificata rispetto alla pertinenza specifica delle sue competenze in ordine alle complesse e concomitanti attività che si riassumono nella nozione di “conservazione del patrimonio culturale”. In tal senso le discipline cosiddette teoriche (scientifiche, storico critiche, normative, etc.) dovrebbero venire messe in gioco il più possibile in cantiere e in laboratorio, oltre che in lezioni d’aula, ossia in riferimento e a supporto costante dei trattamenti di materiali costitutivi e delle strutture specifiche dei manufatti di interesse culturale, in quanto in tali interventi la ricerca, la didattica e le operazioni condotte sono intimamente fra loro connesse in un processo unitario.

Pertanto, le competenze in ciascuna tipologia di docenti dovrebbero ritenersi adeguate per la concessione dell’accreditamento soltanto ove siano comprovate da una continuativa produzione scientifica e da significative esperienze riferite a problematiche di conservazione del patrimonio culturale, così come declinate dall’art. 29 (commi da 1 a 4) e non genericamente coerenti soltanto con settori disciplinari che ne costituiscono l’ampio orizzonte di riferimento nell’ordinamento accademico. Se ciò non accade, mi sento di parlare di sostanziale elusione del compito affidato all’università.

Questa inderogabile esigenza è, infatti, strettamente connessa alla previsione in norma di un unitario ciclo formativo quinquennale, in quanto la continuità e la pertinenza della didattica dovrebbero facilitare nei discenti la progressiva assimilazione integrata di competenze metodologiche e operative in modo organico e adeguato sia alla diagnosi e alla progettazione, sia all’esecuzione, direzione, collaudo, pubblicazione di molteplici forme di intervento.

Tuttavia, ciò che a mio personale avviso prioritariamente motiva la collocazione in area universitaria dell’insegnamento del restauro è l’esigenza di formazione alla ricerca, in quanto metodologicamente fondativa per le attività di studio che presiedono a tutte le fasi e alle diverse tipologie di intervento conservativo, così come in esordio normato dall’art. 29 del Codice BCP; tutto ciò, beninteso, alla condizione che il percorso universitario sia strutturato in modo idoneo a garantire questo esito, anche in considerazione del valore abilitante del diploma, che dovrebbe essere garantito non dal solo elaborato di tesi finale o da una porzione di esso, ma dal complessivo percorso formativo e di verifica durante il quinquennio. Anzi, se si muovesse da questa convinzione, la frammentazione in ben sei percorsi formativi professionalizzanti prevista dal DM 87/2009 perderebbe molto del suo senso.

Occorrerebbe dunque che l’attività continuativa di accreditamento (concessione iniziale e verifiche periodiche) abbia luogo verificando analiticamente le effettive condizioni operative e logistiche, oltre che mediante l’esame della rigorosa pertinenza alla conservazione delle competenze dei docenti per tutti gli insegnamenti erogati. È probabile che per governare così l’insegnamento del restauro occorra che il processo di adeguamento delle università verso l’accreditamento – ovvero per il suo mantenimento – sia supportato da dotazioni anche finanziarie e da soluzioni organizzative appropriate, di cui si avverte invece tuttora un evidente bisogno.

Forse è inutile dire in questa sede quel che tutti qui sanno perfettamente: e cioè che è oggi ben rara, anzi assente, la possibilità di vedere docenti di restauro nelle università che non siano individuati in modo precario, con contratti anche solo annuali, in palese contraddizione con il senso del percorso quinquennale a ciclo unico, per di più abilitante. Situazioni di questo tipo, dopo dieci anni, dovrebbero a mio avviso venire superate velocemente, pena la perdita dell’accreditamento.

Ma forse persino più importanti sono altri tre aspetti, in gran parte estranei al processo di accreditamento; eppure, strettamente ad esso collegati, posto che l’obiettivo prioritario rimanga quello della qualificazione degli interventi di tutela.

Un primo tema è il ruolo delle regioni, che mi sembra (ma spero di essere malissimo informato) del tutto assente sia rispetto agli auspici di mezzo secolo fa, sia – e soprattutto – in considerazione di quanto dispone l’art. 29 del Codice BCP ai commi 10 e 11, per non parlare del ruolo delle Regioni in concorso con lo Stato regolato dai commi precedenti.

Questo significa che il tema della conservazione mirata e proporzionata alle esigenze proprie della scala territoriale – ancorché informata a metodologie sviluppate e verificate non localisticamente – è ancora tutto da impostare, mentre potrebbe costituire un eccellente percorso di sviluppo collaborativo fra Regioni e Stato, in coerenza con gli articoli 9, 117 e 118 della Costituzione. Un tema di rilievo strategico nella prospettiva dello sviluppo della cultura della prevenzione, così essenziale in un Paese, come l’Italia, da sempre flagellato dai terremoti, nell’ultimo secolo anche dal dissesto idrogeologico e dall’inquinamento e, oggi, dai cosiddetti cambiamenti climatici. E questo è un secondo importantissimo tema, perché occorrerebbe riconsiderare i problemi della conservazione nel quadro dell’ecologia integrata (come invano invocato da Giovanni Urbani mezzo secolo fa), ma anche dell’odierno impegno che, almeno a parole, le istituzioni dichiarano di voler assumere nella linea della transizione ecologica, dunque per la promozione dell’economia circolare e con un approccio sostenibile sotto ogni profilo.

Dal manufatto culturale all’ecosistema, dunque. E non si creda che si tratti d’altro se non di un precetto costituzionale, laddove si prevede che la competenza legislativa sia esclusiva dello Stato in una serie di materie che vengono enunciate tutte insieme all’articolo 117, comma 2, lettera s): «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali».

Quel che accade è invece beffardo: si pretende che le microimprese del restauro si certifichino per il rispetto dell’ambiente e la gestione dei loro rifiuti quasi come se fossero un impianto petrolchimico o metalmeccanico e invece si trascura completamente che proprio gli interventi conservativi siano metodologicamente orientati dalle politiche pubbliche e dalle metodologie d’intervento riconoscendo la priorità di regolare il rapporto tra manufatti e ambiente.

C’è poi un terzo tema da cui non è possibile astrarre se si vuole dare valore e senso all’insegnamento del restauro in università e in ogni altra sede abilitata.

È il tema del mercato.

Da decenni ogni aspetto del restauro riceve gravi penalizzazioni, opposte all’interesse nazionale, da una distorta ed esiziale interpretazione della normativa europea sulla concorrenza, che ha ridotto l’intervento dei restauratori di beni culturali a una mera appendice, gestita frequentemente in subappalto, da società di servizi e di ingegneria che hanno obiettivi imprenditoriali e organizzazione operativa di scala incongrua. In questa sede non occorre scendere nei dettagli dell’intricata vicenda della qualificazione delle imprese, mai risolta dalle successive riforme della normativa sui contratti pubblici e comunque tale da non tutelare proprio la tutela.

C’è da chiedersi quale attrattiva per il restauro possa proporre il nostro Paese a un giovane con un mercato del lavoro così assurdo, per una professione che richiede grande impegno di formazione ed esercizio, ma sostanzialmente deprivata del suo riconoscimento, nel contesto di una programmazione nazionale dei lavori di conservazione dei beni culturali ancora dipendente da logiche capolavoristiche, non soltanto per ritardo culturale, ma anche perché troppo spesso asservita al marketing di tutt’altro.

Eppure, il nostro Paese ha fatto enormi avanzamenti nelle discipline della conservazione dell’eredità culturale, spesso stupefacenti, tanto nel metodo quanto nella prassi; e tutto questo è un capitale di competenze, un capitale culturale che l’università ha il dovere di intercettare, vagliare criticamente, ma in logica sistemica e collaborativa, transdisciplinare e non frammentariamente come l’attuale ordinamento per rigidi settori disciplinari impone. Anche in questo caso, c’è il rischio che la tutela del patrimonio culturale non sia tutelata dall’interesse accademico, laddove, non esistendo un settore disciplinare della conservazione (che sarebbe per necessità transdisciplinare e sistemico a un tempo), la prospettiva di attribuzione di cattedre in modo funzionale agli obiettivi di una formazione qualificata rischia di restare aprioristicamente assente.

D’altra parte, questa frammentazione delle attività di docenza (la cui ricomposizione non può essere lasciata alla fatica della buona volontà dei singoli, quando pure ci sia) ha la sua radice nella frammentazione della ricerca e nella debolezza della pratica vera della terza missione nel territorio.

Una vera sciagura sarebbe nell’attuale contesto il depotenziamento dell’insegnamento di storia del restauro, disciplina idonea, invece, a promuovere la comprensione in una prospettiva storico-critica degli approcci di metodo, delle scienze applicate, delle discipline, delle prassi documentate negli archivi pubblici e privati, in primis negli archivi personali degli stessi restauratori, come testimonia il lavoro pluridecennale di tante università in collaborazione con l’Associazione Giovanni Secco Suardo di Lurano (BG).

Ecco perché l’insegnamento del restauro resta, a un tempo, una riforma incompiuta, ma anche una sfida di straordinario interesse per riportare l’accademia ad essere “universitas”.

Pietro Pietraroia, storico dell’arte, è stato Soprintendente per i Beni artistici e storici per la Lombardia occidentale e la Pinacoteca di Brera (1991-’97), ha diretto il restauro del Cenacolo Vinciano dal 1991 alla conclusione (1999). Dal 1980 al 1991 ha operato come ispettore e poi direttore storico dell’arte presso il Ministero per i Beni culturali e ambientali, prestando servizio presso la Soprintendenza de L’Aquila, l’Ufficio Studi del Ministero e l’Istituto Centrale per il Restauro. Dal 1997 al 2006 è stato Direttore generale per la Cultura presso la Regione Lombardia. Dal 1994 insegna Legislazione dei Beni culturali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici). È stato inoltre docente per corsi e master presso l’Università degli Studi La Sapienza di Roma (1977-’80), l’Università Commerciale Luigi Bocconi (Milano), l’Università di Macerata, l’Università di RomaTre e il Politecnico di Milano.

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