L’arte, la scienza e l’oro
E loda di più la polvere un po’ dorata che la doratura impolverata
(W. Shakespeare)
Qualche settimana fa ho riordinato la mia biblioteca e alcuni fascicoli dove custodisco appunti e ritagli di vecchi articoli dei principali quotidiani nazionali ed esteri: dalla risma è spuntato quello di Repubblica, del 30 novembre 2015, intitolato La Procura indaga sul papiro, di Ottavia Giustetti.
Di primo acchito mi sono detto quale papiro? C’entra il Museo Egizio?
No, è quello di Artemidoro!
La storia
Artemidoro, chi era costui? Originario di Efeso (attuale Turchia) città ricca di testimonianze storiche, sito patrimonio dell’umanità protetto dall’UNESCO.
Un geografo ante litteram, vissuto tra i il II e I sec. a.C., la cui opera principale, Geographoùmena, è andata dispersa, ma non i suoi contenuti principali, come sostenuto da alcuni studiosi, ripresi da Plinio il Vecchio e Strabone.
La Geografia, materia purtroppo oggi negletta, nel passato ha avuto la sua rilevanza, ha influenzato gli altri campi dello scibile, è stata il propulsore di scoperte scientifiche e avventure epocali: «buscar el Levante por el Poniente!».
Ora, come allora, come e dove ci si può approcciare alla Geografia? Contemplando i mappamondi, le descrizioni, gli itinerari, e attraverso la consultazione di mappe, ancorché digitali.
Il “papiro incriminato”, lungo circa due metri e mezzo, presenta sul fronte e sul retro testimonianze eterogenee: un testo greco su cinque colonne e una carta geografica con figure umane e animali. E’ stato perfino additato come una delle prime mappe della Storia.
Straordinario, e poi? Cosa è accaduto? Sono sopravvenuti i dubbi, pesanti, quelli che affiorano spesso quando qualcosa di costoso e/o di pregio trasla di proprietà.
Le vicende possessorie e la parentesi giudiziaria
Chi sono stati i detentori di questo controverso oggetto?
Misteriosi, come nella migliore tradizione romanzesca, i vari passaggi di mano. Alcuni esperti lo hanno individuato, a fine Ottocento, nella collezione dell’antiquario di Liverpool Joseph Mayer; altri nella raccolta dell’egiziano Khashaba Pasha, legato al museo archeologico di Asyut.
Il papiro è comparso sul mercato antiquariale nei primi anni ’70 del Novecento, nella disponibilità dei fratelli Simonian, mercanti d’arte di Amburgo, noti per aver venduto nel corso della loro attività reperti antichi a musei, fondazioni e università di tutti i continenti, non sempre riscuotendo favorevoli e unanimi consensi.
Pare che Serop Simonian lo avesse acquisito in precedenza da un museo egiziano. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi, non proprio peregrina, che in realtà Simonian avesse condotto trattative su commissione di un oscuro mandante. Le proposte di vendita sarebbero durate anni, facendosi più intense sul finire degli anni ‘90.
In quell’epoca il papiro sarebbe stato visionato anche da studiosi di papirologia che ne avrebbero decretato l’attribuzione ad Artemidoro. Sarebbe in seguito sfumata, per un soffio, pare a causa dell’ingente prezzo di offerta, la vendita al Getty Institute di Los Angeles (1997-1998).
Fino a che, nel 2004, la compravendita del papiro è stata caldeggiata da esponenti dell’ambiente accademico e dallo stesso Ministero dei Beni Culturali.
La Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo lo ha comprato per la somma cospicua di 2.750.000 Euro, a fronte di una documentazione consistente nella mera auto certificazione di autenticità.
Il papiro è stato sottoposto a vincolo dalla Soprintendenza torinese nel 2006, in quanto è stato valutato di “interesse archeologico”, senza che fossero tuttavia esperite ricerche per accertarne compiutamente la provenienza e l’autenticità.
Da allora sono cominciate a filtrare voci sulla presunta falsità del papiro, seguite da quelle autorevoli del filologo prof. Luciano Canfora che, per primo, ha palesato dei dubbi in relazione ad alcuni contenuti del testo scritto, non congrui con la lingua greca del periodo a cui è stato fatto risalire il supporto.
La questione ha cominciato a diventare molto spinosa quando la direzione del Museo Egizio di Torino si è rifiutata di presentarlo nelle proprie sale espositive. Precedentemente era comparso in tre mostre, due delle quali in Germania, perciò ingenti fondi di valorizzazione erano già stati investiti.
Il papiro è stato allora depositato dapprima nei magazzini del museo, in seguito, in quelli della Reggia di Venaria, fino alla collocazione presso il Museo di Antichità del capoluogo subalpino, nel 2012.
Stupisce il fatto che sia stato portato in un museo statale, invece di rimanere nella disponibilità dell’acquirente, nonostante la presunta non originalità.
Nel 2013 la magistratura torinese si interessa alla traversia basandosi sulle ricerche del prof. Canfora che ha giudicato il papiro “un falso ottocentesco” riconducibile a Costantino Simonidis [1] .
La polemica è imperversata sui i media e, anche questa volta, non sono mancati i due schieramenti contrapposti: pro o contro l’autenticità.
L’inchiesta penale è stata coordinata dal procuratore Armando Spataro in persona, magistrato di grande esperienza, noto per le sue indagini contro il terrorismo e la criminalità organizzata. Senza clamore, le investigazioni sono state affidate ai Carabinieri dell’Arte e alla sezione di Polizia Giudiziaria della Procura torinese, che dipende direttamente dal pubblico ministero titolare del fascicolo processuale. Sono state eseguite una serie di acquisizioni documentali e sentiti tutti i personaggi informati sui fatti, coinvolti a vario titolo nella vicenda.
Nel novembre 2018 l’indagine si è conclusa con la richiesta di archiviazione del procedimento per sopraggiunta prescrizione; l’unico indagato, per il reato di truffa aggravata in danno della Fondazione San Paolo, è stato Serop Simonian. La richiesta del pubblico ministero è stata accolta in pieno, nel dicembre successivo, dal Giudice della Indagini Preliminari. La giustizia ha fatto il suo corso ma…
Il confronto accademico scientifico e l’opinione pubblica
Una serie di interrogativi sono sostanzialmente irrisolti. Questa storia, così articolata, al pari di altre analoghe (ricordate il Crocifisso Gallino?), permette di cogliere compiutamente quanto siano complesse e delicate le strategie nel campo della valorizzazione e della tutela dei beni culturali: falso o meno, questo papiro è un bene salvaguardato dalla vigente legge nazionale.
Partendo da questo assunto, è quanto mai auspicabile rivolgere la massima attenzione e fiducia verso le ricerche scientifiche eseguibili sul reperto per stabilirne, attraverso procedure rigorose, l’autenticità e definire, tra le seguenti ipotesi, ciò che realmente è: un reperto archeologico, un bene archivistico/documentario, un manufatto di altro tipo, un pastiche o un falso tout court.
È indubbio che la scelta della magistratura di non aver disposto un esame peritale bensì di basarsi solo sui pareri e i dati tecnici precedenti, ha alimentato ulteriori controversie. Sono infatti numerose le pubblicazioni scritte sul papiro, alcune molto interessanti per la puntualità con cui scandagliano gli aspetti storico-artistici, filologici e giuridici.
Tuttavia, non basta documentarsi per formarsi semplicemente un’opinione, è necessario andare oltre. Dobbiamo fare tesoro della saggezza degli antichi, che consideravano il tempo come il mezzo privilegiato per svelare la verità e metterlo a giusto profitto. Prendiamoci tutto il tempo, perciò, andando un po’ in controtendenza con le dinamiche sociali contemporanee, per valutare a fondo tutti gli elementi a disposizione, alcuni per nulla trasparenti, sull’affaire papiraceo.
In primis, come avvenuto in altri casi, sarebbe importante una riflessione obiettiva sull’opportunità di destinare ingenti somme di denaro per un bene di cui non sia certa l’originalità; un bene acquistato senza tenere in giusto conto i precetti della due diligence, soprattutto in previsione della sua esposizione al pubblico in contesti museali statali.
Questa scelta fa pensare che in origine sia stato privilegiato un piano di marketing fine a sé stesso, piuttosto che valutare i contenuti e gli obiettivi culturali.
Quando il papiro è stato esposto, numerosi sono stati i visitatori, in particolare studenti di ogni ordine e grado, che lo hanno visto: cosa hanno potuto apprendere?
Non posso fare a meno di pensare alla nostra Costituzione: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Essendo un tema di portata universale, va ovviamente ricordato anche l’art. 7 della Dichiarazione dell’UNESCO del 1997, sulla diversità culturale: “nel rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, le generazioni presenti dovranno assicurare la preservazione della diversità culturale dell’umanità. Le generazioni presenti hanno la responsabilità d’identificare, di proteggere e di conservare il patrimonio culturale, materiale e immateriale e di trasmettere tale patrimonio comune alle generazioni future”.
Le regole condivise e i comportamenti virtuosi che ne dovrebbero discendere, frutto di un percorso di crescita, sono fondamentali e imprescindibili. Probabilmente qualche coscienza si è smossa: non è mai troppo tardi per cercare di rimediare a una brutta figura e alleggerire il peso di un raggiro impunito.
In questo senso si inseriscono certamente il restauro e le ricerche commissionate nel 2019 dalla Fondazione proprietaria all’ICPAL (Istituto Centrale per la Patologia degli Archivi e del Libro), in collaborazione con l’Università Roma Tre.
Finalmente, sono stati svolti accurati accertamenti con l’impiego di tecnologie all’avanguardia applicate alla conservazione dei Beni Culturali. Le analisi svolte nei laboratori, dove il bene è stato trasportato con la massima cautela per non comprometterne l’integrità, hanno permesso di valutarne nuovi elementi legati alla storia e alla produzione.
Ulteriori indagini diagnostiche hanno permesso di far luce sui materiali, così da indirizzare proficuamente le tappe del restauro in un’ottica multidisciplinare, e hanno chiarito in maniera coerente le cosiddette “tre vite del papiro”, in connessione alla storia del supporto, del testo scritto e degli elementi grafici.
Sarebbe importante che questi risultati, in pieno rispetto del paradigma scientifico, venissero ulteriormente verificati affinché si possa pervenire a un responso valido fino a prova contraria.
Non posso, infine, evitare di condividere un aneddoto personale. Durante una visita al Museo di Antichità di Torino di qualche anno fa, mi trovai per caso nella sala dove era stata montata la teca con il papiro. Rimasi deluso, nessuna emozione di ritorno: forse la dea Atena in quel momento non mi ha assistito e ispirato abbastanza, o forse fu proprio indizio del Falso, che non scuote gli animi. D’altra parte, «non è tutto oro quello che luccica»: il Bardo, come sempre, coglie nel segno del cuore e della ragione.
[1] Costantino Simonidis (1820-1890), originario dell’isola greca di Simi. Libraio, per lungo tempo ospite di un monastero ortodosso del monte Athos, dove ha appreso le tecniche dei copisti. Noto per aver commercializzato icone e falsi testi medievali. Ha vissuto ed esercitato la sua attività ad Alessandria di Egitto, Istanbul, Lipsia, Londra.
Opinionista