Per rispondere a questa domanda dobbiamo, innanzitutto, partire da una asserzione: la tutela del patrimonio culturale nazionale e internazionale non è compito esclusivo dello Stato (nelle forme del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale o del Ministero della Cultura), bensì è un dovere di tutti coloro che si occupano di archeologia, storia dell’arte, restauro e diagnostica dei beni culturali, oltre che dell’intera Comunità nazionale, così come previsto dall’art. 9 della Costituzione.
Infatti, il recente D.M. 20 maggio 2019, n. 244, in attuazione a quanto disposto dalla Legge n. 110 del 22 luglio 2014, ha stabilito, in concorso con le Associazioni di categorie e le Università, le attività caratterizzanti i profili dei professionisti idonei ad operare sui beni culturali, così come previsto dall’art. 9 bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. 42/2004, d’ora in poi, Codice). Sono stati così elaborati quattro principali ambiti caratterizzanti le professioni culturali, esplicitabili in 1) individuazione, analisi e interpretazione, 2) conoscenza, tutela e conservazione, 3) valorizzazione e 4) studio, ricerca e formazione. Come riporta il sopracitato decreto, inoltre, i professionisti così individuati possono essere impiegati nel settore pubblico e privato, oppure come lavoratori autonomi.
Riferendosi al campo archeologico, con particolare attenzione al settore autonomo, ognuno degli ambiti caratterizzanti sopra riportati può essere ricondotto ad una determinata branca della disciplina, in un’ottica interdisciplinare fra le varie suddivisioni interne: l’archeologia preventiva (art. 28, D. Lgs. 42/2004; art. 25, D. Lgs. 50/2016 e art. 15, D. Lgs. 56/2017) per l’individuazione, l’analisi e l’interpretazione di contesti, siti, paesaggi, monumenti e beni archeologici, anche subacquei; a essa, si lega strettamente l’archeologia legale, analizzata in questo contributo, per l’individuazione dell’interesse culturale, per la certificazione dell’autenticità e per la ricostruzione della provenienza dei singoli manufatti archeologici; all’archeologia pubblica e alla museologia e museografia archeologica, poi, si demandano le attività di progettazione, gestione e verifica delle attività di valorizzazione, nell’ottica della promozione e della comunicazione del patrimonio culturale; infine, le attività di ricerca, studio e pubblicazione dei dati e dei risultati derivanti dagli ambiti sopra esposti.
Se recenti risultano le definizioni di “archeologia preventiva” o di “archeologia pubblica”, manca ancora una vera definizione della componente legale della disciplina che, come visto poc’anzi, risulta essere sempre più rilevante nella società contemporanea. Il problema maggiore, probabilmente, è la distanza ancora oggi presente fra gli studi universitari e la società: molti studenti, infatti, terminato il proprio percorso accademico, non riescono a inserirsi efficacemente all’interno dell’ormai consolidata ricerca preventiva, molti cambiano completamente ambito lavorativo, altri riadattano le loro competenze e conoscenze in altri settori (dal turismo alla comunicazione).
Invece, la chiave per una nuova lettura delle professioni culturali potrebbe essere proprio la stretta connessione con la società attuale: lo studio delle società del passato, infatti, non può prescindere dal rapporto costante con quella contemporanea, dalle sue esigenze e, soprattutto, dalla sua necessità di risposte a domande nuove o perennemente poste ma – tuttora – senza risposta.
Uno degli impieghi principali che oggi possono occupare gli archeologi deriva, quindi, proprio dall’ascolto di questa società, dal servizio nei suoi confronti e dalla tutela del patrimonio culturale, ossia dalla sua regolamentazione nelle forme del diritto. In esso, per il contesto nazionale italiano, si delinea quanto normato dal Codice, ossia nella applicazione di quei comportamenti (e relativi divieti) che caratterizzano la società in rapporto con i beni mobili e immobili, oltre che alle zone, che presentano un interesse archeologico.
Difatti, sin dagli anni Sessanta, l’aumento del benessere economico e sociale, in ambito occidentale, di una grande fetta della popolazione ha permesso una sempre maggiore “popolarizzazione” dell’arte e della cultura, con una loro diffusione sotto diversi settori, enfatizzando soprattutto dinamiche di mercato attive da tempo immemore nella storia dell’umanità. Il commercio, del resto, è stato uno dei principali elementi per lo sviluppo della tutela sui beni culturali, ancor prima dell’Unità d’Italia: dagli editti dello Stato Pontificio sino ai regolamenti degli Stati preunitari, per giungere alle prime azioni del Regno (per esempio, la L. 394/1909) e alla più recente normativa nazionale (artt. 63-64, Codice) e internazionale.
Tale commercio, generato inizialmente dalle volontà collezionistiche per trasformarsi negli ultimi decenni in una modalità di acquisizione di beni rifugio, ossia come forma di investimento, comporta diverse precisazioni, proprio per il carattere particolare della materia in oggetto, cioè della non assimilazione fra i beni culturali e le più comuni merci (ex art. 64 bis, Codice, sulla base dell’art. 167 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea): innanzitutto bisogna prendere in considerazione la natura stessa di questi beni mobili, in particolar modo se presentano un qualche interesse archeologico; in seconda battuta, appare necessario valutare il loro lecito possesso (artt. 91 e 176, Codice); successivamente, risulta necessario conoscerne (e valutarne) l’utilizzo futuro (artt. 169-170). Infine, in una società caratterizzata da un sistema fortemente basato sul meccanismo della domanda e dell’offerta, appare assolutamente rilevante conoscerne la provenienza (e le connesse modalità di rinvenimento) e la relativa autenticità (art. 64, Codice), elemento fondamentale per la comprensione dell’oggetto e per le sue ricadute nella società stessa.
Sebbene non sia necessario, in questo contesto, rimarcare l’importanza del patrimonio culturale, risulta invece obbligatorio valorizzare il lavoro dei professionisti a favore della tutela del nostro bene comune. Appare importante, ora, chiedersi come definire questa attività all’interno della grande famiglia delle scienze archeologiche, ossia quali siano le caratteristiche e le peculiarità di questa disciplina.
In effetti, le attività di tutela, sebbene rientranti nel già citato D.M. 244/2019, risultano quasi a sé stanti rispetto alla ormai consolidata idea di “archeologia”.
Viene allora in soccorso la scuola anglosassone e americana con la definizione di “archeologia forense”, ossia quella disciplina scientifica che utilizza la teoria e la metodologia archeologica in un contesto giuridico. Essa combina le conoscenze archeologiche con quelle criminologiche con lo scopo di ricercare, localizzare, documentare, recuperare e interpretare il record forense sulla scena di un crimine o sul luogo di un incidente: questa definizione conserva le riflessioni teoriche e metodologiche sviluppatesi dal 1943 sino ai giorni nostri.
Secondo l’orientamento maggiormente diffuso, l’archeologia forense prese avvio, infatti, durante il Secondo conflitto mondiale per dirimere le cause e le responsabilità di alcune atroci azioni di guerra compiute dai Nazisti e dai Sovietici. Successivamente, negli anni Settanta del secolo scorso, la scuola di antropologia forense nordamericana promosse l’archeologia come disciplina utile per l’ottenimento di informazioni contestuali alla posizione in situ dei resti umani scavati, ossia come disciplina ausiliaria per l’identificazione di quelle spoglie.
L’archeologia forense appare come una disciplina al servizio dell’antropologia (ricordando pur sempre l’unione delle due discipline in ambito nord-americano e anglosassone) soprattutto indirizzata alla risoluzione di controversie che riguardano la ricerca, l’identificazione e l’interpretazione di scene del crimine, disastri umani o naturali.
Inoltre, sebbene la discussione internazionale, soprattutto negli ultimi anni, sia stata estremamente vivace, ancora oggi la disciplina non appare ben definita: infatti, in America Settentrionale, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa ed Europa nordoccidentale, l’archeologia forense è definita principalmente come l’applicazione di teorie e metodologie archeologiche (e tafonomiche) nella pratica penale o medico-legale, ossia strettamente legate al rinvenimento di esseri umani sepolti; in Europa centrale e orientale, invece, la disciplina è principalmente associata al recupero di esseri umani connessi con i due conflitti mondiali e al periodo della Guerra Fredda ed è interpretata come l’applicazione di metodi e tecniche forensi allo studio di eventi tragici; altresì, alcuni Paesi, come la Bulgaria, la Croazia e la Repubblica Slovacca, includono nella disciplina anche le indagini relative agli scavi clandestini e al commercio illecito, così come fanno anche altri Paesi, come la Costa Rica, il Messico, la Nuova Zelanda, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti d’America; infine, in America Latina, l’archeologia forense è principalmente associata al recupero delle vittime dei genocidi di massa, avvenuti durante le dittature dello scorso secolo.
Come si evince, però, il problema del traffico illecito, degli scavi clandestini e della falsificazione dei beni archeologici viene considerato parte della disciplina solamente in alcuni Paesi, sebbene la loro rilevanza sia ormai riconosciuta a livello globale.
Su questa testata giornalistica e su questa Rubrica viene spesso descritta la portata dei fenomeni sopracitati per il contesto nazionale e la loro rilevanza nella società attuale. Nei paragrafi precedenti, invece, si è visto come l’obiettivo dell’archeologia, oltre alla ricerca scientifica, debba essere connesso alla tutela, protezione e conservazione del patrimonio culturale, ossia, riprendendo la Carta costituzionale, debba essere connesso al servizio dell’intera Comunità nazionale.
A livello lessicale, però, la stessa definizione di archeologia forense, in Italia, non può essere valida per contenere tutte le questioni relative ai beni culturali: il termine connotativo, infatti, deriva dal latino forensis, ossia che concerne il fòro, l’attività giudiziaria e l’insieme delle persone che la esplicano.
Altresì, nella nostra Penisola, si sta diffondendo la dizione di “archeologia giudiziaria” che, sempre a livello terminologico, non appare esatta. Infatti, il termine “giudiziario”, derivante dal latino iudiciarius, rimanda in maniera ancora più stringente a qualcosa che concerne i giudici, i giudizi o più genericamente all’amministrazione della giustizia. Ma non è compito degli archeologi emettere giudizi, bensì pareri tecnici.
Al contrario, appare più corretto parlare di “archeologia legale”, dal latino legalis (derivato da lex, legis), come la branca dell’archeologia che concerne la legge, ovverosia alla definizione che il patrimonio culturale (e, quindi, quello archeologico) riceve proprio dalle fonti normative nazionali e internazionali, con le finalità che ad esso si attribuiscono, come la preservazione della memoria della Comunità e lo sviluppo della cultura.
In questi termini, l’archeologia legale risulta essere l’insieme delle riflessioni teoriche e delle metodologie pratiche per la risoluzione di una controversia inerente ai beni culturali che, a sua volta, racchiude in sé l’archeologia forense (ausilio, secondo la teoria e la pratica archeologica, alle discipline medico-legali per la spiegazione di eventi criminali) e l’archeologia giudiziaria (la risoluzione di controversie mediante un giusto processo), potendo però operare anche al di fuori di un dibattimento giudiziario (fintanto da prevenirlo).
In questo modo, l’archeologia legale, nel suo servizio alla Comunità e non esclusivamente alla pratica forense, è il contenitore di diverse sotto discipline, unificate dalla metodologia di ricerca tipica dell’archeologia.
Oltre agli obiettivi specifici dell’ambito propriamente forense, l’archeologia legale ingloba in sé l’insieme dei metodi e delle procedure per:
- la valutazione storico-critica, la stima e l’inquadramento storico-geografico-culturale di un oggetto e/o di una collezione o serie di oggetti, ossia la verifica dell’autenticità e la ricostruzione della loro provenienza;
- la valutazione storico-critica e l’inquadramento storico-geografico-culturale di una zona di interesse archeologico;
- il vaglio sugli interventi eseguiti (o da eseguire) sui beni culturali (per la loro conservazione e/o valorizzazione);
- la valutazione dell’utilizzo dei beni culturali (modalità, funzione, esposizione);
- fornire, alle forze di polizia e all’autorità giudiziaria, competenze altamente qualificate per la valutazione dei comportamenti dei singoli, o di molteplici individui, che hanno ad oggetto il patrimonio culturale;
- fornire ausilio a privati, studi legali, assicurazioni, esperti contabili, commercianti, fondazioni, archivi, società private del settore culturale per l’espletamento delle pratiche lecite, previste dall’ordinamento vigente, inerenti ai beni archeologici (commercio, trasferimento, ingresso/uscita dal territorio nazionale, ecc.).
Tali attività possono essere condotte sulla base di una specifica preparazione e sul costante aggiornamento in merito all’analisi del rapporto fra mondo antico e mondo contemporaneo, al fine di comprendere il gusto estetico contemporaneo e la ripresa della tradizione antica, oltre al fenomeno del collezionismo e delle sue implicazioni economiche, sociali e culturali (lecite e illecite), vero motore di quanto sopradescritto. L’analisi del mercato dell’archeologia e dell’arte, infatti, appare come un utile strumento per la prevenzione dei fenomeni criminali (contraffazioni, scavi clandestini, traffico illecito), così come lo studio delle legislazioni nazionali e internazionali e degli strumenti ideati per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali.
L’archeologia legale, in questo modo, identifica un settore dell’archeologia che si occupa allo stesso tempo dello studio delle società antiche (attraverso i loro prodotti materiali) e del rapporto vigente fra essi e il mondo contemporaneo, mediante un approccio che unisce il sapere archeologico a quello prettamente tecnologico-scientifico-archeometrico e a quello puramente legale.
Per questi motivi, coloro che intendono cimentarsi nello studio di questa disciplina o immergersi nelle sue molteplici opportunità lavorative, dovranno possedere approfondite conoscenze di archeologia, storia e storia dell’arte, base operativa per ogni valutazione; essi dovranno conoscere la cultura materiale antica, le sue produzioni e i suoi metodi di lavorazione, oltre che possedere alcune nozioni basilari sulla teoria e sulle tecniche del restauro (fondamentale aspetto materiale), attraverso i quali muoversi agevolmente per poter esprimersi in termini di provenienza o autenticità; dovranno, allo stesso tempo, essersi formati (o formarsi) sui metodi e sugli strumenti della diagnostica scientifica, grazie alla quale ricavare le informazioni necessarie per ottenere ulteriori eventuali elementi per la formulazione di un parere; dovranno, ancora, conoscere la storia degli studi dell’archeologia e i principi della sua metodologia di ricerca, grazie ai quali valutare contesti o oggetti; dovranno imparare a muoversi all’interno della ricerca di archivio e della catalogazione, al fine di ricercare pezzi di storia ormai sbiaditi; essi dovranno, infine, conoscere la società contemporanea, ossia il mercato (le sue quotazioni, i suoi rischi, le sue opportunità) e il diritto connesso al patrimonio culturale, oltre che ai fondamenti del diritto civile e penale, grazie ai quali servire in modo diligente e consono il privato cittadino quanto l’Amministrazione pubblica.
L’archeologia legale identifica un settore comune fra le discipline archeologiche, diagnostico-archeometriche e giuridiche che studia e analizza la società antica e contemporanea, il loro rapporto costante, oltre a sviluppare i metodi e gli strumenti per il contrasto dei comportamenti illeciti, in un’ottica di preservazione della memoria e di progresso della cultura.
Specializzato in Archeologia Classica presso l’Università degli Studi di Padova, si occupa di ricerca, sviluppo e formazione nei settori dell’archeologia legale (con particolare attenzione al tema della falsificazione dei beni archeologici), della museologia e della progettazione culturale. È perito e C.T.U. presso il Tribunale di Udine, iscritto all’elenco dei Periti ed Esperti della Camera di Commercio di Pordenone-Udine.