Il Caso della “Commode” di Luigi XV: il “bello” non ha nazione ed è di tutti
La pronuncia forse più rilevante per la portata concettuale di quanto espresso dal giudice amministrativo nelle dinamiche sottese alla circolazione internazionale di beni culturali, intesa come disciplina finalizzata sia alla tutela del patrimonio culturale che alla valorizzazione e fruizione universale dello stesso, anche al di fuori dei confini nazionali, riguarda la cd. Commode di Luigi XV, un oggetto di mobilio di pregiata ebanisteria francese il cui espatrio dai confini nazionali era destinato alla sua ricollocazione originaria presso il museo di Versailles[1].
La riflessione più significativa di questa pronuncia riguarda il carattere della non italianità dell’opera soggetta ad istanza di esportazione. Secondo il giudice amministrativo, conformemente alla giurisprudenza consolidata sul punto, la provenienza straniera del bene culturale in questione non esclude la possibilità di esercitare il potere amministrativo di vincolare tale bene al territorio nazionale, ma allo stesso tempo l’impostazione seguita in questo frangente tiene conto del fatto che non si può neppure vincolare indiscriminatamente qualunque oggetto di interesse storico-artistico di qualsiasi provenienza presente nel territorio dello Stato[2].
A partire dall’analisi di questo specifico problema, il giudice amministrativo eleva la propria argomentazione interrogandosi in merito all’intrinseca finalità dell’intervento pubblico nel settore in esame consistente, in conformità con l’art. 1 del Codice Urbani, nella duplice funzione di “preservare la memoria della comunità nazionale e di promuovere lo sviluppo della cultura”. Il divieto di esportazione di cose di interesse culturale va analizzato in considerazione del fatto che il potere amministrativo deve necessariamente essere orientato alla finalità divulgativa dell’arte e della cultura: è alla luce di questa funzione che il giudice rileva come “la causa che giustifica il trattenimento di un bene culturale all’interno del Paese non attiene alla protezione dell’opera in sé considerata, quanto alla possibilità – ipotetica ed astratta – di assicurarne in futuro la fruizione sul proprio territorio, nel caso di un eventuale futuro intervento dello Stato volto all’acquisto di tale bene, condizione che potrebbe magari mai avverarsi”.
Il giudice amministrativo non manca di rilevare a tal proposito come la fruizione dell’opera da parte del pubblico non venga di per sé assicurata dalla sua mera presenza sul territorio nazionale e, a tal proposito, vaglia i motivi a fondamento del divieto di esportazione operato dall’Ufficio esportazione della Soprintendenza di Roma ragionando in base alla funzione cui è preposta l’amministrazione in questo frangente e non tanto rispetto ai vizi di legittimità in senso stretto del provvedimento contestato. Si assiste pertanto a un giudizio avente ad oggetto non tanto la legittimità dell’atto impugnato quanto il rapporto amministrativo sussistente nel caso di specie, fino ad arrivare a interrogarsi sulla portata dell’interesse pubblico da preservare. La nazionalità dell’opera non può ritenersi irrilevante in questo determinato frangente, dal momento che l’interprete si deve porre diversamente a seconda della finalità perseguita dall’amministrazione, consistente o nel fatto che si tratti di una componente imprescindibile del patrimonio culturale nazionale oppure, se riferibile a cultura diversa, nel fatto che sia sufficientemente rappresentata con analoghi esemplari sul territorio nazionale.
Consapevole del fatto che il ragionamento in oggetto esula dal tradizionale sindacato di legittimità, sconfinando in una valutazione di merito sull’opportunità del trattenimento forzoso del bene in questione sul territorio nazionale, il giudice amministrativo sottolinea come queste considerazioni siano svolte incidenter tantum, non potendo il Collegio “sostituire le proprie valutazioni a quelle collegialmente effettuate dagli Organi competenti”. Ciononostante, come è stato efficacemente sostenuto, la locuzione incidenter tantum, che lega i due momenti dell’analisi sulla valutazione tecnico-scientifica e dell’opportunità, “sembra rilevare un tentativo del collegio di addentrarsi nelle scelte che l’amministrazione ha compiuto nei limiti della propria discrezionalità amministrativa”[3]. Tenendo conto “del particolare valore identitario” che l’oggetto in questione rappresenta per la Francia e che la scelta di ricollocazione del bene in una sede museale estera non comporta alcun pregiudizio all’interesse pubblico nazionale perseguito da questa disciplina, il T.A.R. del Lazio non pare ravvisare “alcuna giusta causa che avvalli il forzoso trattenimento all’interno del paese della Commode“. In via molto significativa la pronuncia rileva inoltre che, perseguendo questa impostazione, si permette a qualsiasi visitatore anche italiano di apprezzare il pregiato pezzo di ebanisteria nel suo contesto naturale nonché suo ambiente di provenienza; tale soluzione è comunque preferibile a che la Commode venga trattenuta forzatamente in Italia e sottratta alla pubblica fruizione. In definitiva, permettere che tale opera sia esposta al pubblico in Francia è preferibile rispetto a trattenerla in Italia “sottratta alla pubblica fruizione e visionabile semmai solo in virtù di eventuale, e non dovuta, graziosa concessione del proprietario a studiosi di suo gradimento”.
Sebbene il metodo adottato e le conseguenti risultanze in questa pronuncia siano di fatto molto innovativi, è lecito pensare che il benevolo approccio del giudice amministrativo dimostrato in questa sentenza, che in definitiva annulla il diniego del conferimento dell’attestato di libera circolazione, fosse particolarmente influenzato dal fatto che il pregiato mobile in questione non fosse destinato al mercato, ma all’esposizione pubblica presso il Museo di Versailles. A ragion veduta, se l’opera d’arte in questione fosse stata sottoposta al procedimento per il conferimento dell’attestato di libera circolazione per finalità di mero commercio non si sarebbe ragionevolmente assistito a un’interpretazione delle norme così teleologicamente orientata.
[1] TAR Lazio, Sez. II quater, 24 marzo 2011, n. 2659 e Cons. St., Sez. VI, 5 luglio 2012, n. 3930.
[2] Significativa a tal proposito è l’argomentazione disposta dal giudice amministrativo a supporto di questa tesi: “sembra ovvio che per quanto una maschera africana possa far parte della cultura universale e debba essere rappresentata dalle collezioni pubbliche italiane, non è necessaria la presenza di tanti esemplari quante sono le tribù africane”. Come efficacemente rilevato A. PIRRI VALENTINI, Il controllo giurisdizionale sull’esportazione di opere d’arte, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2 del 2020, p. 507: “il discrimine avviene quindi tra due situazioni che si distinguono a seconda che l’oggetto abbia un forte valore identitario e sia adeguatamente rappresentato nelle collezioni nazionali attraverso l’esposizione di esemplari simili oppure rappresenti l’unico pezzo mancante di una collezione, rivelandosi quindi imprescindibile”.
[3] A. PIRRI VALENTINI, Il controllo giurisdizionale sull’esportazione di opere d’arte, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2 del 2020, p. 491 e ss. L’autrice non manca di osservare come, scegliendo questa formula di stile, il giudice abbia da una parte fatte salve le valutazioni tecniche dell’amministrazione, ritenute impermeabili da qualsiasi tipo di revisione, e dall’altra, abbia potuto esprimersi nel merito dei modi attraverso i quali l’amministrazione mira a perseguire l’interesse pubblico.
Svolgo la professione di Avvocato amministrativista a Padova e sono dottore di ricerca in Diritto, Mercato e Persona presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia: ho dedicato i miei studi in particolare al tema della circolazione internazionale dei beni culturali sotto il profilo amministrativistico.