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Il lungo viaggio del profugo di Jago

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(Tempo di lettura: 5 minuti)

Jacopo Cardillo, classe 1987, nato a Frosinone, in arte Jago, è un artista contemporaneo che negli ultimi anni è riuscito a suscitare interesse e curiosità da parte del pubblico italiano e internazionale. Dopo aver frequentato il liceo artistico e l’Accademia di belle arti, ha lavorato molto in Italia (specialmente a Napoli), ma anche a New York e in Cina. 

La sua scultura e le sue tecniche sono molto tradizionali: le creazioni nascono da disegni e bozzetti in argilla o gesso e i blocchi di marmo vengono lavorati dalle sue mani con la stessa passione e abilità dei grandi maestri del passato. Il blocco, che non ha una forma, la riceve attraverso l’uso di martello e scalpello, come anche del trapano; viene in qualche modo “distrutto” per far nascere qualcosa di bello. Proprio come gli artisti del Rinascimento, non da ultimo Michelangelo, anche lui è un uomo del suo tempo, che tratta nelle opere temi di grande attualità e rappresenta ciò che vede e ciò che sente, ponendo spesso la figura umana al centro dell’arte. Così nel 2020, mentre il mondo era piombato improvvisamente ed inaspettatamente nell’incubo del Covid e la vita sociale era stata interrotta costringendo tutti al distanziamento, è arrivata la sua installazione Look Down in piazza del Plebiscito a Napoli che voleva far riflettere sul difficile momento che l’umanità stava vivendo nell’affrontare la pandemia e sulla necessità di ricominciare a guardarci attorno, o meglio a scendere dal nostro piedistallo e volgere lo sguardo verso il basso, a non chiuderci nel nostro egoismo e dedicarci a chi soffre e ha 5bisogno del nostro aiuto. 

Nel vivere la contemporaneità Jago sa anche sfruttare le illimitate risorse che l’era digitale offre: attraverso i social e Youtube riesce infatti a stabilire un rapporto costante con il pubblico al quale consente di entrare nel suo studio e assistere al lavoro, per scoprire attimo per attimo il procedimento con cui nascono le sue sculture, dal marmo informe all’opera finale.

Jago è stato anche il primo artista ad inviare una sua creazione sulla stazione spaziale internazionale: il suo First Baby è stato mandato nello spazio tramite la missione Beyond dell’ESA, per poi essere riportato sulla terra dalle mani dell’astronauta Luca Parmitano. Questo bimbo “spaziale” può essere ammirato attualmente a Palazzo Bonaparte a Roma, dove è in corso la mostra JAGO – The Exhibition, prorogata fino al 28 agosto. Proprio qui, tra le altre sculture, ritroviamo anche la Pietà, che è stata esibita per quasi un anno nella chiesa di Santa Maria in Montesanto a Piazza del Popolo (nota a tutti come la “chiesa degli artisti”). Il nome e la materia, il marmo bianco di Carrara, richiamano indubbiamente il celebre capolavoro michelangiolesco. Ma Jago ne dà una sua versione laica e moderna: la statua rappresenta in generale il dolore, quello che ognuno può provare in diversi momenti della vita. L’intento – valido per tutte le sue opere – è quello di lasciare spazio a una libera interpretazione, affinché ognuno possa far riemergere ricordi o sensazioni: «Ognuno viva l’arte liberamente, in base alle emozioni che prova», esorta l’artista.

Il dolore e l’emozione sono temi che ritroviamo anche nel Figlio Velato, opera che richiama, nel titolo e nella forma, il celeberrimo Cristo Velato di Giuseppe Sammartino della Cappella Sansevero di Napoli. Jago offre un altro sguardo: Sammartino ha voluto rappresentare Cristo che si è sacrificato per il bene dell’umanità, il bambino è invece simbolo di innocenza e delle tante vittime di guerra e violenze, sacrificate non più per un bene superiore, ma per interessi economici e personali.   

Tra i pezzi in mostra a Palazzo Bonaparte c’è anche il busto/ritratto di Papa Benedetto XVI, Habemus hominem, che l’artista ha “svestito” dopo la rinuncia alla Cattedra di Pietro: l’opera ha ottenuto il prestigioso riconoscimento della Medaglia Pontificia.

Ma la scultura che recentemente è balzata agli onori della cronaca è la sua ultima creazione, Marmo ItalianoIn flagella paratus sum: una statua in marmo nero raffigurante un giovane profugo che affronta un lungo viaggio nella speranza di un futuro migliore. L’opera ha viaggiato un mese sulla nave Ocean Viking, durante il quale sono state portate in salvo molte persone. Dopo una breve sosta al centro dello Stadio Olimpico, la scultura è approdata sul Ponte degli Angeli, davanti a Castel Sant’Angelo, nella notte tra il 5 e il 6 agosto, per un’esposizione temporanea prima della sua vendita all’asta: la base d’asta di 1,250 milioni di euro, il ricavato sarà devoluto ad un’associazione umanitaria che si occupa proprio di aiutare i profughi. 

Ma le parole dell’artista, scritte sui social pochi giorni fa, sono state davvero profetiche: “il futuro di Marmo Italiano è incerto, come lo è per tutti coloro che affrontano l’incognita del viaggio”. Come infatti il destino di un profugo che affronta il cammino per raggiungere una terra lontana e piena di sogni e speranze è legato ad un filo molto sottile, spesso in balìa delle onde del mare, così quello della statua, posta su uno dei luoghi più frequentati ed amati della Capitale, messo letteralmente nelle mani del pubblico e dei passanti, è incerto ed effimero. Sono passati difatti pochi giorni prima che dei vandali staccassero la mano e una parte del braccio della scultura, ormai posizionata in una parte laterale del ponte e ricoperta di schegge di vetro di bottiglie spaccate. 

Questo ennesimo gesto di vandalismo ai danni di un’opera d’arte invita certamente ad una serie di riflessioni. Potrebbe sembrare quantomeno azzardato da parte dello scultore il fatto di aver esposto la propria creazione in uno spazio esterno, in un punto di passaggio e perdipiù senza una protezione. Ma davvero è questo ciò di cui abbiamo bisogno? Davvero servono delle barriere, che allontanino la gente dall’opera e che funzionino da dissuasori contro atti di questo tipo? Non sarebbe meglio, al contrario, avvicinare l’arte al pubblico? Non gioverebbe di più alla nostra vita e alle nostre città educare alla bellezza, all’importanza di quella creazione, al lavoro e al pensiero che ci sono dietro e far comprendere che quell’opera non è dell’artista, ma è un dono per la comunità, cioè per tutti noi?

D’altro canto questa “ingenuità” nel mettere la scultura a disposizione di tutti, potrebbe piuttosto celare un intento ed un messaggio chiaro dell’artista: così come spesso i profughi giacciono per le nostre strade ignorati, inosservati o addirittura anche maltrattati perché considerati gli ultimi, allo stesso modo il giovane viaggiatore di Jago si tiene il suo piccolo posticino sul Ponte, in mezzo agli angeli di scuola berniniana, alla mercé dei passanti, sia di quelli rispettosi ed entusiasti che di quelli ignoranti ed irriverenti. Se anche non fosse stato questo l’intento iniziale, è certamente il messaggio che trasmette adesso. Tutto sta racchiuso nelle parole di un bimbo che casualmente passa di lì insieme ai suoi genitori e commenta: “Papà, ma quanto è brutta questa statua, manca pure una mano!”. Sta a noi forse spiegare al bambino che quell’opera che adesso ai suoi occhi appare così trasandata ha affrontato un lungo viaggio e ha visto il dolore, la sofferenza ma anche la speranza di chi compie questo tragitto per mare e oggi sta lì per raccontarci tutto questo e forse, per un attimo, risvegliare la nostra coscienza.   

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