Site icon The Journal of Cultural Heritage Crime

Il menù indigesto

Claude_Monet_-_Haystacks
(Tempo di lettura: 7 minuti)

La cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa più grande

(H. Gadamer)

Da un po’ di tempo a questa parte si stanno verificando, purtroppo, episodi di danneggiamento, imbrattamento, a scapito dei capolavori d’arte custoditi nei più importanti musei del mondo: l’ultimo della serie, ha riguardato il celebre dipinto “Ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer, esposto al Museo Mauritshuis dell’Aja (NL), insozzato con una sostanza non meglio indicata (dopo il pomodoro in scatola e il purè usati a Londra e a Potsdam). Non è ancora stata resa nota l’entità dei danni riportati dall’opera.

“Ragazza con l’orecchino di perla”, Jan Vermeer 1665-1666,  Mauritshuis, L’Aja (Foto: Wikimedia).

Questi atti, considerato il target potenzialmente aggredibile, potrebbero perpetrarsi ovunque, strutturandosi ulteriormente, compiendo il cosiddetto “salto di qualità”. Differiscono infatti dai soliti gesti sconsiderati, causati da incuria, maleducazione, stupidità, patologia mentale, consumati non solo nei musei, ma anche nei centri storici delle città d’arte, nei siti archeologici e monumentali.

La matrice ideologica, alla base di queste azioni, compiute con sfacciata determinazione in danno dei musei, deve indurci a una profonda riflessione. Perché si arriva a danneggiare volontariamente un’opera d’arte?

Forse per attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica? Apparentemente questa è la versione più accreditata, per lo meno quella propagandata dagli autori materiali. Ѐ evidente che siano alla ricerca del consenso e di una legittimazione delle loro iniziative, anche per neutralizzare lo stigma per il gesto compiuto: annunciano, scaltramente, che la loro è un’alta missione, attuata per porre fine a problemi di rilevanza planetaria, tra tutti quello della salvaguardia dell’ambiente, colpevolmente bistrattata – a loro dire – dalle lobbies economico finanziarie e governative.

Questo è un atteggiamento tipico, ben noto ai criminologici, illustrato dalla teoria di G. Sykes e D. Matza[1] che  considera le reazioni poste in essere dai colpevoli per rimuovere la responsabilità rispetto al disvalore delle condotte devianti/criminali, evidenziandone cinque:

  • Negazione del danno. Si rivendica responsabilità dell’azione ma non il danno cagionato dall’azione stessa;

  • Negazione della vittima. Si scarica sulla vittima la responsabilità della condotta o si nega la sua esistenza;

  • Rapporto condanna/condannato. Si evidenziano le inefficienze delle figure che rappresentano l’autorità, non riconoscendone il ruolo e l’importanza, in senso stretto la legittimazione nel comminare una possibile condanna;

  • Richiamo a principi e valori superiori. L’atto illecito viene neutralizzato dando maggiore credito alle esigenze dei gruppi di riferimento o rispetto a una supposta lealtà verso la comunità di appartenenza e in senso più ampio alla società tutta. L’attivarsi di questi meccanismi, in un contesto subculturale, incentiva le condizioni che rendono possibile la realizzazione dell’atto delinquenziale, attraverso dinamiche preparatorie unite spesso a una condizione di relativa deprivazione e disperazione;

  • Preparazione e disperazione. Ѐ il processo di apprendimento della tecnica di certi atti criminosi. Attività che prevede anche il superamento del timore di essere catturati dalla polizia, atteggiamento che spesso si basa su concezioni sottoculturali anche in merito all’inefficienza del sistema della giustizia penale. La disperazione del giovane, che si sente come una marionetta imprigionata dalla società e avverte l’impulso di compiere qualcosa di eclatante che valga a riaffermare il controllo sul proprio destino: si traduce nel mettere in atto condotte che rappresentano, in questa particolare ottica, perfino un’opportunità valida nell’errata convinzione che questa scelta rappresenti una migliore prospettiva di riuscita rispetto alle attività convenzionali nei cui confronti non si sente all’altezza.

“I Covoni”, Claude Monet 1891, Museo Barberini, Potsdam (Foto: Wikimedia).

Questa analisi va riattualizzata alla luce dei processi di socializzazione mediati dai moderni mezzi e processi di comunicazione caratterizzati da:

  • Velocità della comunicazione;

  • Anonimità (possibilità di disperdere le tracce, non in questo caso);

  • Coinvolgimento di più persone.

Tutti elementi che soggiacciono alle nuove forme dei crimini, devianze giovanili comprese e che ne amplificano gli effetti in termini di accettazione se non peggio di pericolosa emulazione.

La proposta di analisi, se da un lato supporta la comprensione del fenomeno, non fa venire meno il disappunto nell’apprendere che questi gesti sconsiderati sono compiuti per lo più da giovanissimi, in particolare da ragazze. C’è da chiedersi se abbiano piena consapevolezza dei loro comportamenti, al di là della tensione ideologica, della fascinazione perversa della loro azionein vista delle conseguenze che li investiranno a livello personale, in primis il procedimento giudiziario.

Ci troviamo di fronte a degli invasati, con cui è impossibile intavolare un dialogo, ovvero al cospetto di ingenui e un po’ sprovveduti? Nel caso dei più giovani può darsi sia plausibile la seconda ipotesi.

Ѐ innegabile che dietro le quinte vi siano regie determinate, le giovani leve per far presa sull’opinione pubblica: chi possiede la gioventù possiede il futuro, era lo spot utilizzato per rimpinguare ed esaltare le fila della Hitlerjugend. Un paragone inquietante, che non posso fare a meno di considerare, per esorcizzare il possibile ritorno di uno spettro analogo ai roghi nazisti, in cui sono stati bruciati migliaia di libri sulle piazze, di fronte alle scuole e alle università tedesche e alla sistematica campagna di distruzione delle opere d’arte ritenute “degenerate” dal regime.

Le organizzazioni che promuovono queste iniziative dispongono di siti Internet, sono presenti su tutti i principali social network da dove diffondono il proprio credo, le varie attività compresa la raccolta di fondi (non se ne riporta la denominazione per evitare ogni forma di pubblicità). Da fonti aperte risulta che a favore di una di queste organizzazioni vi siano state elargizioni da parte di un noto esponente di una famiglia di magnati dell’oro nero. Forse è qui l’arcano da svelare, passatemi la sibillina provocazione, alla base del controverso legame tra il petrolio (maledetto, sic!) le opere d’arte, i reperti archeologici e altri oggetti preziosi provenienti da tutte le parti del mondo.

Che dire oltre? Che fare in concreto? Non certo riaprire la caccia alle streghe, un’altra crociata: significherebbe usare gli stessi metodi degli attivisti ciecamente ideologizzati. D’altro canto, le schiere dei colpevolisti a prescindere e dei forcaioli fanatici non mancano, specie sui social, ma lasciamo da parte questo aspetto peculiare, non  strettamente funzionale alla comprensione e alla possibile risoluzione del problema.

Trattare la questione solo in termini di risposta penale è certamente riduttivo. Ѐ indubbio che il grado di deterrenza delle norme sanzionatorie ha il suo peso sia in termini generali che specifici anche se, a livello concettuale, vi sono teorie discordanti, focalizzate sulle problematiche di risocializzazione seguite ai periodi di detenzione più o meno prolungata, alla severità dell’esecuzione della pena e la recidiva in connessione alle istanze di giustizia.

Se si considera la previsione dell’ordinamento penale italiano, dopo la recente ratifica del Trattato di Nicosia, tra le fattispecie specifiche è stato introdotto il delitto di cui all’art. 518 novies, danneggiamento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici che qui riporto: “Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, non fruibili beni culturali o paesaggistici è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
Lo strumento repressivo, dopo un lungo dibattito anche a livello internazionale, è stato perciò adeguato rispetto alla precedente normativa molto blanda in termini di pene comminabili: fermiamoci qui, riservandoci di esprimere la nostra opinione a riguardo, anche nel merito, tra qualche anno, a fronte di una casistica processuale e di una giurisprudenza consolidata.

Sarebbe invece auspicabile e strategico investire sulla prevenzione, e mi riferisco quindi – seppur tenendo nel debito conto la componente sociale in relazione alla percezione di sicurezza e gli standard di difesa dalle aggressioni criminali comprendenti i beni mobili – anche ai musei e più in generale ai siti culturali nel loro contesto ambientale. Potrebbe essere proficuo allargare il dibattito privilegiando la componente educativa fondata sulla legalità, la formazione delle future generazioni, in un’ottica di ampio respiro in connessione alle varie istanze degli stakeholder per raggiungere, in concreto, fuori dalla sterile retorica, gli obiettivi dell’agenda UNESCO 2030 per lo sviluppo sostenibile.

“I Girasoli”, Van Gogh 1888, National Gallery, London (Foto: Wikimedia).

In questo senso è illuminante la recente determinazione di ICOM:

Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale.

Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità.

Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze.

Ѐ una definizione molto importante, frutto di un lungo ed elaborato dibattito che ha coinvolto i comitati nazionali dell’ICOM facenti capo a 126 nazioni.

Queste premesse per arrivare ad una sintesi che prefigura il museo come il contesto elettivo per dirimere il/i conflitto/i, non una sovrastruttura di potere creata per fuorviare le coscienze. Sul piano dialettico significherebbe rivedere e nobilitare ulteriormente la funzione del luogo, che non può essere di certo ritenuto un obiettivo da colpire o peggio un terreno di scontro; potrebbe diventare una moderna agorà interconnessa, dove discutere responsabilmente di tutti questi temi e trovare soluzioni per influenzare perfino l’agenda politica e sperimentare la partecipazione attiva in chiave inclusiva.

In ambito “human security”, rivestono un ruolo cruciale, in connessione al ruolo di possibile mediatore qualificato e imparziale, le istituzioni pubbliche, l’associazionismo organizzato, il volontariato. Ѐ il paradigma che fa riferimento, in senso più ampio, alla cosiddetta mediazione dei conflitti, un metodo che si prefigge di raggiungere una verità condivisa, equa, alleviando le tensioni sociali. Il contesto culturale, a maggior ragione il museo, rappresenta il luogo ideale, quello dove si incontrano le varie esperienze estetiche; se fruito nel modo corretto apre gli orizzonti di conoscenza e di comprensione della realtà: l’arte e la cultura sono la base di un processo più ampio, di portata universale, che coniuga e armonizza le diversità culturali.

In definitiva è importante prendere spunto anche dagli eventi negativi, perfino dalle crisi, non solo per migliorare la sicurezza delle strutture, l’idea di fruizione e valorizzazione, la formazione e lo scambio culturale.

Un luogo di cultura deve essere uno spazio aperto, intriso di civiltà, dove sia possibile anzitutto respirare aria di pace e libertà. Ne abbiamo veramente bisogno.


[1] Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency – American Sociological Review – 1957

Exit mobile version