Quello della guerra è, purtroppo, oggi come non mai un tema di grande attualità, con il quale nell’ultimo anno abbiamo dovuto imparare a convivere ancor più da vicino. Si sa che i conflitti armati sono sempre causa di distruzione: di edifici, case, soprattutto di vite. E di identità. Sì, perché i danni e le distruzioni provocati a musei, gallerie e opere d’arte minano l’identità culturale dei luoghi, delle persone, dei popoli.
Diverse pagine sono state scritte sulla salvaguardia del patrimonio culturale durante l’ultimo grande confitto che ha devastato l’Europa nel secolo scorso. Sono note a molti le vicende dello spostamento delle opere alla ricerca di luoghi sicuri, dei gravi danneggiamenti causati da bombardamenti e incendi, dei furti e delle vendite forzate commessi prima e durante la guerra e della lunga strada delle restituzioni, che si sta ancora percorrendo. Come spesso si usa dire, però, c’è sempre una luce in fondo al tunnel, perché una volta chiuse le ostilità inizia una nuova vita e comincia l’importante fase della ricostruzione. Il volume di recente edito da Skira, Musei italiani del dopoguerra (1945-1977). Ricognizioni storiche e prospettive future, curato da Valter Curzi, professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università “La Sapienza” di Roma, racconta proprio questo. Primo di una serie di volumi che tratteranno lo stesso tema, per arrivare cronologicamente alla nostra epoca, raccoglie i contributi scientifici del primo anno del Corso di Alta Formazione di Museologia e Museografia tenutosi a Palazzo Butera, a Palermo, nel 2020.
Nella prefazione dello stesso professor Curzi, il punto di partenza sono le parole pronunciate da Bruno Molajoli, allora Soprintendente alle Gallerie della Campania, il 29 settembre del 1948, quando si ricominciò ad aprire i musei napoletani: “Da otto anni noi aspettavamo quest’ora, da quando cioè un telegramma cifrato, l’ordine atteso e temuto, ci tramutò da direttori di gallerie e musei, in imballatori di opere d’arte, in trasportatori di casse”.
Pagina dopo pagina diventa chiaro al lettore che il periodo del Dopoguerra ha segnato in qualche modo una svolta epocale: già nel 1939, alle soglie dell’inizio del conflitto, si erano gettate le basi per questo cambiamento con la fondazione dell’Istituto centrale per il Restauro, la riforma delle Soprintendenze (che erano state create nel 1904) e con la Legge Bottai (1089/1939) si preparava il terreno per la nascita del concetto di “Beni Culturali e Paesaggio”. Gli anni che seguono la Guerra sono quelli in cui si presenta la necessità di restaurare o in molti casi ricostruire e quindi di pensare ad un nuovo allestimento di musei e gallerie. Sono quelli in cui, come detto egregiamente dallo stesso professor Curzi durante la presentazione del volume all’Accademia di San Luca, si arriva a riconoscere che i Beni Culturali non solo sono un bene pubblico, ma hanno anche un forte valore identitario. Prova ne sia il fatto che nel territorio italiano, nell’epoca di cui parliamo, vengono rinnovati più di 180 musei.
Gli attori e autori principali di questa svolta epocale sono i curatori e i soprintendenti che scelgono i migliori architetti del periodo per allestire le nuove collezioni. È questo il momento in cui gli stessi architetti diventano anche museografi e a dire il vero è proprio l’occasione in cui iniziano a delinearsi le differenze tra “museografia” e “museologia”, considerate da sempre un tutt’uno. Tra i nomi più celebri c’è quello di Carlo Scarpa, che sperimenta le sue idee con un nuovo campo di azione che ebbe grande fortuna proprio nel Dopoguerra: le mostre. Da Giovanni Bellini a Paul Klee, da Piet Mondrian ad Antonello da Messina, l’architetto (che di fatto architetto non era) mette in gioco le proprie abilità per creare degli allestimenti nei quali il tempo e la luce diventano dei veri e propri “materiali da costruzione”. Questa attività creativa del museografo sfocia poi nei suoi più grandi lavori di successo, come le Gallerie dell’Accademia di Venezia, il Museo di Castelvecchio a Verona o Palazzo Abatellis a Palermo.
Un altro grande protagonista di questi anni è l’architetto e urbanista Franco Albini, a cui dobbiamo uno dei primi progetti di riallestimento dalla fine del conflitto, il Palazzo Bianco a Genova, insieme al Museo del Tesoro di San Lorenzo. Nelle pagine dedicate a questo primo, grande intervento del Dopoguerra, viene messo anche in evidenza il ruolo, importantissimo, di Caterina Marcenaro, allora responsabile dei Musei Genovesi: non si tratta di una mera funzione di supervisione, ma di una stretta collaborazione, di un confronto continuo, testimoniato da un lungo e articolato carteggio tra i due. Così come fitto e intenso è anche il dialogo tra il già citato Carlo Scarpa e Licisco Magagnato, direttore dei Musei Veronesi, che aveva scelto appositamente il designer veneziano, per la sua eccellente capacità di coniugare l’antico delle opere al moderno delle strutture. Un rapporto importante ma qualche volta anche difficoltoso, come quello che porta un altro grande architetto, Piero Sanpaolesi, a dissidi e scontri con Noemi Gabrielli, Soprintendente alle Gallerie per il Piemonte, nell’allestimento della Galleria Sabauda a Torino.
Questa fervida attività di ricostruzione e allestimento si sposa perfettamente con una concezione del museo tutta nuova che si va delineando nei decenni successivi alla Guerra: non un semplice “contenitore” di opere d’arte, ma un luogo di trasmissione della cultura, nel quale bisogna mettere il visitatore a proprio agio, accompagnandolo tra le varie sale con dei percorsi appositamente ideati, pannelli, ricostruzioni. Uno spazio di aggregazione sociale in cui il “contenitore” e il “contenuto” trovano un equilibrio perfetto, creato anche dalla giusta scelta cromatica e da una adeguata illuminazione. Un modello innovativo questo che nella maggior parte dei casi prevede, proprio a partire da quest’epoca, anche la realizzazione dei vari “servizi”, come la caffetteria o il bookshop e le sale conferenze per studiosi e addetti ai lavori.
L’ondata di modernizzazione coinvolge tutto lo stivale, da nord a sud e arriva fino alla Sicilia, dove l’architetto/museografo Franco Minissi si occupa dell’allestimento di alcuni dei siti e musei più importanti dell’isola, come la copertura del teatro di Eraclea Minoa, la Villa del Casale di Piazza Armerina e il Museo Paolo Orsi di Siracusa, dedicandosi anche alla sperimentazione di nuovi materiali.
In questa nuova concezione il visitatore ha un ruolo di primo piano e tutti gli elementi contribuiscono a creare una più facile comprensione dei capolavori esposti. Negli allestimenti tuttavia rimangono primarie la tutela e la conservazione delle opere che vanno protette dall’usura e dalle intemperie per preservarne l’integrità.
Mi sono laureata a Roma in archeologia e storia dell’arte greca e romana e ho conseguito la specializzazione nello stesso ambito a Lecce. Dopo diversi anni di esperienza sui cantieri urbani ho frequentato un master incentrato sui temi della tutela e dei reati contro il patrimonio culturale, discutendo una tesi sulla ricerca della provenienza e la restituzione dei beni trafugati durante la Seconda Guerra Mondiale. Dal 2015 sono guida turistica autorizzata di Roma: tra le visite che propongo più spesso, oltre la Roma antica, ci sono quelle su Occupazione tedesca e Resistenza, e sulla Street Art. Oggi divido la mia vita tra i tour con i turisti, lo studio e la ricerca.