Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà
Giuseppe (Peppino) Impastato
In questi giorni si discetta, cavalcando l’onda emotiva, sulla cattura, dopo una latitanza trentennale, di Matteo Messina Denaro. La notizia sensazionale dell’arresto è di portata mondiale, si intreccia con ricorrenze analoghe (la cattura di Riina), con fiction rievocative e, al solito, con altre questioni più o meno collegate ma di impatto mediatico. Purtroppo qualcuno ne tratta a sproposito, con superficialità e con un vuoto tono retorico, tutte modalità che stridono con la realtà e l’intelligenza altrui. Il tutto finisce nella bolgia della comunicazione, rendendo complicato individuare e interpretare correttamente i fatti per ciò che sono.
Sono stati pubblicati vari articoli stampa sulla carriera criminale de “u siccu”, veicolati anche in rete e sui social, in cui si riferisce di suoi possibili coinvolgimenti nel traffico transnazionale di opere d’arte e reperti archeologici. Qualcuno ha ricordato la Natività di Caravaggio, altri il Satiro danzante di Mazara del Vallo e l’Efebo di Selinunte. Narrazioni colme di fascinose quanto perverse suggestioni, su cui si sono stati consumati fiumi di inchiostro che però non hanno fugato affatto i dubbi, anzi, paradossalmente, li hanno alimentati, se non creati ad hoc, privilegiando una modalità non utile a svelare la verità.
Forse è una pia illusione pensare che il Messina Denaro possa fornire informazioni utili a rintracciare o a chiarire cosa sia capitato al dipinto di Caravaggio sottratto a Palermo, in un notte buia e tempestosa, tra il 17 e 18 ottobre 1969, custodito nell’Oratorio di San Lorenzo. Dopo queste letture, più o meno interessanti, si può azzardare una provocazione per cui l’opera potrebbe essersi “moltiplicata”, come i pani e i pesci, atteso le numerose versioni riguardo la sua sorte. In primis, quelle formulate da “eminenti criminali”, anche attraverso deposizioni e confidenze rilasciate agli investigatori e alla magistratura. Peccato però che nessuna di queste “confessioni” si sia dimostrata attendibile. Dilaniata dal terremoto, distrutta col fuoco, occultata in un porcile, appesa sulla parete della sala dove si riuniva il vertice di Cosa Nostra, esportata in Svizzera: l’opera però è sparita e latita da più di cinquant’anni!
Su alcuni di questi destini profetizzati, sembra aleggiare una sorta di arcana magia connessa all’assenza di quello che ormai è considerato un vero e proprio simbolo. La fantasia di molti ne è stata indubbiamente influenzata, sollecitata, e si è espressa talvolta attraverso racconti bizzarri e pretenziosi di autori in cerca di notorietà. Anche un intellettuale del calibro di Leonardo Sciascia ne è stato ispirato per scrivere il suo romanzo, Una storia semplice. Dopotutto non è un reato dare spazio e dignità all’immaginazione.
È plausibile l’ipotesi, sebbene non molto poetica, secondo cui la mafia abbia avuto un ruolo nel furto sacrilego, probabilmente per averlo commissionato, tollerato per averne qualche tornaconto, ovvero per averlo attuato direttamente con l’impiego di qualche “picciotto”. All’epoca, l’antico quartiere arabo della Kalsa, nel cuore di Palermo, dove è ubicato l’Oratorio di San Lorenzo, era controllato dal mandamento mafioso di “Porta Nuova”. Nello stesso rione, ironia della sorte, sono nati e cresciuti Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Negli anni Sessanta del secolo scorso, a capo di quel mandamento vi era Pippo Calò, noto alle cronache giudiziarie con il soprannome di “cassiere di Cosa Nostra” per la sua spiccata capacità di riciclare i capitali illeciti; condannato, insieme ad altri esponenti mafiosi, anche per le stragi di via Carini, Capaci e via D’Amelio. Uno tra i principali accusati, nell’ambito del maxi processo, dal boss pentito Tommaso Buscetta, affiliato allo stesso mandamento.
Il 1969 (annus horribilis) è stato uno spartiacque temporale che ha visto la conclusione della cosiddetta “Prima Guerra di mafia” e l’inizio di un periodo storico drammatico, inaugurato proprio da crimini assai cruenti avvenuti nel capoluogo siciliano (tra tutti la strage di Viale Lazio) culminati, oltre i confini isolani, nel 1984 con la “strage di Natale” del treno rapido 904. Eventi che, in sede processuale, hanno confermato le connivenze tra mafia, mala politica, massoneria e apparati dello stato deviati e il sopravvento dei “corleonesi” sugli altri clan mafiosi del capoluogo siciliano.
Questo per dire che, illo tempore, la magistratura e le forze dell’ordine sono state impegnate incessantemente in altre faccende, per cui il furto di un dipinto, seppur importante, non era probabilmente tra le priorità. Il gap temporale, lo ripetono di frequente gli stessi investigatori e i criminologi, non giova al positivo e rapido esito delle indagini. Inoltre non è da trascurare un altro aspetto di rilevanza sociologica: i cittadini palermitani, all’epoca, avevano la consapevolezza che in città fosse custodito un capolavoro di tale portata? È possibile tutelare adeguatamente ciò che non si conosce davvero? Questa particolare sensibilità è un percorso molto recente, ancora da realizzare. Tutto ciò non ci assolve, tantomeno può costituire un alibi per giustificare disattenzioni ed inefficienze.
Matteo Messina Denaro, nel 1969, aveva sette anni. Suo padre “Don Ciccio”, deceduto nel 1998, è stato capo cosca di Castelvetrano, dove si è sempre dedicato all’agricoltura e pare anche a qualche scavo archeologico non autorizzato nella zona e nelle aree confinanti dell’agrigentino. Sono state rese note le connessioni con un commerciante d’arte di livello internazionale, originario dello stesso paese del trapanese, coinvolto in numerose indagini su traffici illegali di reperti archeologici. Recentemente è balzato di nuovo alle cronache per la confisca definitiva, emessa dal Tribunale di Trapani, di un patrimonio di dieci milioni di euro. Qualcuno ha sostenuto che costui, per anni, godendo della potente copertura, abbia commerciato ed esportato illecitamente numerosi reperti e commissionato a suo tempo il furto dell’Efebo, recuperato in seguito a Foligno, nel 1968, in un rocambolesco blitz della Polizia di Stato, che ha visto protagonisti il Questore Ugo Macera e il monuments man italiano Rodolfo Siviero. Il nome di questo faccendiere, questa volta con riferimento al Caravaggio palermitano, emerge anche dalle risultanze dell’inchiesta del 2018 della Commissione antimafia. Le dichiarazioni di un pentito, già gregario di “Don Ciccio”, rimandano a una presunta pista elvetica e ai contatti tra la famiglia Messina Denaro, lo stesso commerciante e i corleonesi facenti capo a Totò Riina. In ultima sintesi l’opera potrebbe essere ovunque o peggio irrimediabilmente perduta: nihil sub sole novi.
A questo punto non resta che confidare nell’impegno delle risorse dello Stato, tra queste ve ne sono di create appositamente per contrastare e prevenire questi fenomeni criminali. Ricordo in proposito le parole del Generale Roberto Riccardi, già alla guida del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, riportate anche nel suo libro, Detective dell’arte: la Natività del Caravaggio ad oggi è il ricercato numero uno. Poi, abbiamo i falsi, che da sempre affliggono l’arte. Tanti aspetti della tutela che si deve all’arte, a fronte di traffici che hanno dimensione planetaria e che hanno un volume d’affari stimato, per la prima volta, nel 2000, dalla Camera dei Comuni di Londra, in 6 miliardi di euro all’anno. Sono tanti soldi che fanno gola alle mafie. Dobbiamo essere tutti impegnati nella tutela del nostro patrimonio culturale.
Quindi? Possiamo pendere unicamente dalle labbra di uno o più feroci assassini? Parlerà, parleranno? Quanto tempo ci vorrà ancora?
Soffermiamoci con attenzione su questi aspetti e proviamo a ragionare in prospettiva. Sfortunatamente non ho potuto ammirare dal vivo la Natività di Caravaggio, la potranno apprezzare le future generazioni? Cosa raccontiamo e soprattutto cosa insegnamo ai nostri giovani?
Questa dolorosa assenza va colmata con la conoscenza, la diffusione della cultura e della legalità, partendo dalle peculiarità delle identità culturali locali. Questi concetti sono richiamati, oltre che dall’art. 9 della nostra Costituzione, dall’articolo 1 della Dichiarazione seguita alla conferenza generale dell’UNESCO del 1997:
“Le generazioni presenti hanno la responsabilità di sorvegliare affinché i bisogni e gli interessi delle generazioni future siano pienamente salvaguardati”.
Vi è un forte invito a promuovere una missione etica che deve coinvolgere ognuno di noi. Le organizzazioni strutturate, hanno certamente il compito di diffondere questi precetti e di intraprendere tutte le misure necessarie alla loro realizzazione, al fine di sensibilizzare il pubblico ai valori di cui ognuno di noi è chiamato a condividere.
Non si sconfigge il crimine, più in generale il male, solo con l’impegno delle forze di polizia o con la speranza dell’intervento provvidenziale delle splendide schiere di arcangeli. Saremmo tutti lieti di rivedere il Caravaggio nel suo contesto originario, ma non si vorrebbe pagare un prezzo troppo alto, frutto velenoso di un patto scellerato con un nemico spietato. Del resto, se il dipinto della Natività fosse ancora intatto sarebbe invendibile ed esporrebbe chiunque lo detenesse a pesanti conseguenze di natura penale.
Arriverà prima o poi l’illuminazione, il pentimento, la definitiva redenzione? Non si può escludere a priori il verificarsi di una sorta di miracolo. A volte credere è l’unica motivazione per agire virtuosamente e risvegliare le coscienze. Sarebbe altresì doveroso, partendo proprio dall’analisi attenta ed onesta di queste dinamiche, sensibilizzare la politica per evitare di scialacquare risorse pubbliche per la caccia alle chimera, così da non frustrare le legittime aspettative dei retti cittadini.
Impegnamoci, nella vibrante attesa di buone novelle, a mantenere viva la memoria, per recuperare se non altro la bellezza nei cuori. Non facciamoci incantare dai bagliori luccicanti e perversi del potere e dal vile denaro sterco del diavolo.
Opinionista