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La scultura in cera nera di Medardo Rosso tra pregio artistico, contraddizioni e storia collezionistica

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Il massimo giudice amministrativo si è recentemente pronunciato sulla legittimità di un provvedimento di diniego dell’attestato di libera circolazione avente ad oggetto una scultura in cera nera di Medardo Rosso denominata Ecce puer: i titolari del bene hanno impugnato tale provvedimento in quanto fondato su atti istruttori apparentemente contraddittori e non completi. La vicenda giudiziaria ha visto accogliere in primo grado il ricorso dei proprietari e, al contrario, in secondo grado respingere le loro istanze, essendo stata riformata dal Consiglio di Stato la sentenza appellata da parte del Ministero della Cultura e così riconosciuta la piena legittimità dell’operato dell’amministrazione.

In sede di istruttoria procedimentale, l’amministrazione, con atti emessi anche da organi diversi, evidenziò diffusamente come l’opera in questione rappresenterebbe un assoluto inedito, in quanto non coincidente con quella che l’autore trasse dal modello in gesso originale e non corrispondente ad alcun precedente nella bibliografia dell’artista.

Al contrario, tra i vari motivi di censura sollevati dal ricorrente, si è messo in luce come l’opera rappresentasse un mero multiplo di quattro esemplari tutti esposti in Musei italiani e che quindi il diniego all’esportazione non fosse adeguatamente giustificato. A riprova della limitata rilevanza storica della statua in questione, i ricorrenti hanno sostenuto come sia lo stesso suo autore sia i suoi eredi dopo la morte non l’avrebbero mai esposta in vita, preferendone le altre versioni, una delle quali oggi è conservata presso il Museo Rosso a Barzio.

Il giudizio di primo grado davanti al Tar Lazio si è incentrato sul fatto che il provvedimento di vincolo dell’amministrazione sulla scultura in oggetto, oltre ad essere contraddittorio, si riferisse in via quasi esclusiva alla qualità artistica dell’opera.

Quanto alla contraddittorietà dell’attività amministrativa, il T.A.R. ha messo in luce come il contenuto della relazione storico-artistica redatta dalla Direzione Generale del Ministero a supporto della valutazione di interesse culturale della scultura sarebbe concettualmente opposto alla precedente relazione redatta dall’Ufficio esportazioni di Genova. Più precisamente, nell’indicare la rilevanza culturale del bene sotto il profilo della storia del collezionismo, il T.A.R. ha messo in luce come nelle due relazioni non vi fosse coerenza rispetto alla ricostruzione dell’origine collezionistica della scultura. Secondo il ragionamento del giudice amministrativo, tale contraddizione sarebbe sintomatica della superficialità dell’istruttoria che si evince in particolare dall’ ”uso di formule dubitative circa l’appartenenza dell’opera alla collezione Sforni di Firenze”. Il deficit istruttorio dell’agire amministrativo sarebbe inoltre dimostrato, secondo il T.A.R., dal fatto che la relazione ministeriale si sarebbe basata esclusivamente sulla fotografia caricata dallo spedizioniere sul Sistema informativo degli Uffici Esportazione e non per mezzo di una visione materiale e concreta del bene.

La contraddittorietà della complessiva attività istruttoria del Ministero sulla scultura di Medardo Rosso viene valutata dal T.A.R. del Lazio alla luce dei recenti indirizzi di carattere generale desumibili dal D. m. n. 537 del 2017, in particolare rispetto al fatto che vadano formulati i provvedimenti restrittivi “evitando giudizi apodittici non sostenuti da adeguata argomentazione critica e storica”. La riflessione preminente in questa sentenza riguarda il fatto che l’apposizione del vincolo incide significativamente sul diritto di proprietà privata riconosciuto e garantito dalla Costituzione: nel ragionare in tali termini, pertanto, secondo il giudice amministrativo deve essere scongiurato il rischio di giudizi non supportati da riferimenti bibliografici aggiornati e riferibili esclusivamente all’alto livello qualitativo dell’opera. Giova infatti sottolineare come le prescrizioni derivanti dal recente decreto ministeriale citato impongano che, a fondamento dei provvedimenti di vincolo, non si ponga esclusivamente una valutazione legata alla qualità artistica del bene, dal momento che tale qualità, per espressa previsione, non è più ritenuta sufficiente da sola a giustificare un provvedimento di tutela: in definitiva, per emettere un provvedimento di diniego all’esportazione è necessario individuare “l’associazione di più di un principio di rilevanza fra quelli formulati nei nuovi indirizzi”.

A riprova della imprevedibilità di questo tipo di giudizi, il Consiglio di Stato, in sede di appello proposto dal Ministero della Cultura, non ha condiviso le considerazioni del T.A.R. Lazio, sostenendo che la motivazione della sentenza non fosse corretta.

Il presupposto su cui si basa il ragionamento dei giudici di Palazzo Spada è fondato sulla nota distinzione tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa, laddove la prima integra la valutazione dei fatti complessi richiedenti particolari competenze e la seconda concerne scelte politico-amministrative. Se nel primo caso il giudice può vagliare le competenze espresse in sede procedimentale, alla luce della loro specifica ‘attendibilità’ tecnico-scientifica, nel caso di discrezionalità amministrativa il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ragionevole ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme. La sentenza del Consiglio di Stato ricorda come il potere ministeriale di vincolo si basa non sulla dimensione oggettiva di ‘fatto storico’, accertabile in via diretta dal giudice, ma su un fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione rispetto al quale “il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’amministrazione, dovendo di regola verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto”.
Alla luce di tali premesse, in forza di un orientamento molto radicato nella giurisprudenza amministrativa, per veder riconosciuta l’illegittimità del provvedimento impugnato incombe sull’interessato l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia “scientificamente inaccettabile”[1].

Ciò posto, il Consiglio di Stato ha ritenuto nel caso di specie sia che il vizio istruttorio di contraddittorietà riscontrato dal T.A.R. non fosse sussistente sia che la qualità artistica dell’opera non fosse l’unico elemento posto a giustificazione del vincolo: di conseguenza il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione risulta scientificamente accettabile, anche se non necessariamente condivisibile. A tale assunto il giudice giunge osservando come nell’istruttoria siano ricavabili elementi che dimostrano che la scultura fosse a tutti gli effetti una testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo, come il fatto che sul basamento in legno vi fosse un’etichetta incollata che recita “Galleria del Milione/Milano”, che l’immagine dell’opera fosse schedata e autenticata nell’archivio dell’artista e che sia stata esposta al MiArt di Milano nell’edizione del 2019 presso lo stand della Galleria Russo di Roma. Quanto alla contraddittorietà dell’attività istruttoria, secondo il Collegio rientra nelle prerogative della Direzione generale del Ministero compiere più approfondimenti istruttori di quanti realizzati dall’Ufficio esportazione, avendo peraltro l’organo sovraordinato individuato ulteriori convincenti elementi critici e storici dai quali si ricava che l’opera in esame fosse un inedito.

 Parimenti rigettata è stata anche la censura inerente alla violazione del termine finale per la conclusione del procedimento amministrativo di dichiarazione di interesse culturale previsto per legge in centoventi giorni, dal momento che dalla sua violazione non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo in assenza di alcuna norma che riconnetta al ritardo in questione la consumazione del potere di apposizione del vincolo.

La pronuncia del Consiglio di Stato, per quanto opposta rispetto alle risultanze del T.A.R. del Lazio, si pone in linea di continuità con un orientamento molto diffuso e pacifico nella giurisprudenza amministrativa in merito al sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche sottese al procedimento di vincolo di interesse culturale, sebbene le stesse siano strutturalmente e insuperabilmente connotate da soggettività e relatività: il giudizio ad esse sotteso, infatti, fa capo a scienze umane non esatte le cui risultanze sono caratterizzate da un’opinabilità tale da rappresentare un’ ”eventualità naturale e fisiologica”[2] dal momento che le norme operanti in questo contesto affidano all’amministrazione “una valutazione non giuridica (e perciò non tecnica) ma non sicura (e perciò opinabile)”[3].

In definitiva, per annullare in sede giurisdizionale un provvedimento fondato su valutazioni tecniche che si riferiscono a scienze non esatte (come la storia dell’arte) non è sufficiente che quanto determinato dall’Amministrazione non sia condivisibile, dovendo essere invece “scientificamente inaccettabile”.


[1] Precisa ulteriormente il massimo giudice amministrativo che, in questo tipo di giudizi, “fino a quando si fronteggiano opinioni divergenti, tutte parimenti argomentabili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto, e quindi nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla posizione ‘individuale’ dell’interessato”.

[2] G. SEVERINI, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in Aedon, Rivista di Arti e Diritto online n. 3 del 2016, par. 2.

[3] F. CINTIOLI, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e giurisdizionalizzazione, Giuffré, Milano, 2005. p. 4.  

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