Arte liberata 1937-1947. La “Peplophoros” di Ercolano
Chi visita il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) non può non rimanere incantato dalla meraviglia degli sguardi intensi di un gruppo di cinque statue bronzee femminili.
Si tratta di giovani ragazze vestite di peplo, tipico abito femminile della Grecia antica, rigide nell’impostazione corporea, tanto da far sembrare le pieghe della loro veste simili alle scanalature di una colonna. La medesima rigidità della veste si riscontra nel volto, con il naso dritto, i capelli con ciocche delineate ma compatte, e quello sguardo fisso, rivolto a qualcosa davanti a loro che noi non riusciamo a comprendere.
Ma quello che le rende uniche è la posizione armonica e aggraziata delle braccia, tutte in pose diverse, eleganti e naturali, che esprimono gesti consueti.
Sono opere originali bronzee, con inserti di altri materiali, come il rame o l’argento, realizzate intorno alla metà del I secolo a.C. da anonimi artisti, molto probabilmente greci, che diedero mostra della loro maestria soprattutto nella resa delle parti nude delle giovani.
Oggi possiamo ammirarle grazie a una scoperta che fu una vera sorpresa: vennero trovate adagiate a terra nel giardino del piccolo peristilio rettangolare di una tra le più famose ville di Ercolano, nota come “Villa dei Papiri”.
Era la metà del 1700 e nella zona vesuviana fervevano gli scavi voluti dai Borbone per riportare alla luce i magnifici tesori che il Vesuvio aveva sepolto nel 79 d.C., sigillando per sempre città piene di vita. Si procedeva scavando dei pozzi dai quali poi partivano cunicoli sotterranei e, proprio durante la realizzazione di uno di essi, tra il 1754 ed il 1756, venne trovata questa magnifica e ricca residenza da Karl Weber, che ne realizzò due planimetrie estremamente precise, indicando i pozzi di discesa, i cunicoli e la posizione dei singoli ambienti e del luogo dove le varie opere erano state trovate. La villa venne esplorata parzialmente ma si capì subito che doveva trattarsi di una residenza lussuosa, disposta su più piani e con una grandiosa terrazza affacciata sul mare.
Si rinvennero 93 statue in marmo e bronzo e più di 1000 papiri, che erano conservati nella biblioteca della villa, che hanno dato alla residenza il nome ancora oggi usato di “Villa dei Papiri”.
Nonostante gli scavi siano ripresi in epoca recente e condotti a cielo aperto non si è ancora riusciti a individuare chi fosse il reale proprietario della sontuosa residenza. Sicuramente, data l’estensione e la ricchezza degli arredi, doveva appartenere a un cittadino romano non solo nobile ma anche colto: secondo molti potrebbe essere Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare e console nel 58 a.C.; alcuni invece propendono per Appio Claudio Pulcro, cognato di Lucullo e console nel 38 a.C.
Le danzatrici furono trovate adagiate sul terreno nel peristilio rettangolare e la loro posizione ha fatto ipotizzare che non fosse quella la loro collocazione, ma che fossero state messe lì temporaneamente durante i lavori di rifacimento della Villa dopo il terremoto del 62 d.C. Si ritiene che fossero esposte in un altro ambiente, il grande peristilio quadrato, in nicchie disposte attorno alla fontana centrale e che rappresentassero la Danaidi. Secondo il mito erano le 50 figlie di Danao, re in perenne contrasto con suo fratello Egisto per il controllo dell’Egitto. Il padre le avrebbe costrette a uccidere i loro mariti, figli del fratello, durante la prima notte di nozze e tutte, tranne una, obbedirono. Per questo furono punite da Zeus a versare acqua in eterno in una botte bucata. Questa identificazione ben si adatterebbe alla loro iniziale posizione intorno a una fontana.
Winckelmann invece, basandosi sui loro gesti, le identificò come danzatrici, mentre oggi si tende ad identificarle semplicemente come peplophorai, ossia portatrici di peplo.
In questi mesi però al MANN si possono ammirare solo quattro delle cinque fanciulle perché una di loro è esposta nella mostra Arte Liberata 1937-1947 – Capolavori salvati dalla guerra, allestita a Roma alle scuderie del Quirinale. Si tratta della fanciulla che, con estrema naturalezza, alza il braccio destro sulla testa e sembra voler tenere qualcosa con la mano, forse un’anfora per l’acqua da tenere in equilibrio. Il braccio sinistro è invece lasciato morbido lungo il fianco, leggermente aperto verso l’esterno. Il suo volto non è rivolto verso il gesto ma è fisso in avanti, come se non ci fosse nessuna necessità di osservare quanto sta per fare perché è un’azione talmente comune e quotidiana che può farla senza guardare. Un accenno di movimento del corpo è dato invece dalla gamba sinistra leggermente piegata in avanti e dal ginocchio che si mostra tra le rigide pieghe del peplo.
Negli anni precedenti lo scoppio del secondo conflitto mondiale, Hitler aveva fatto realizzare un progetto per il Führermuseum che voleva realizzare a Linz, sua città natale.
Per arricchire la sua collezione, basata sull’estetica dell’Arte per esprimere il pensiero del regime, avviò operazioni sistematiche di spoliazione di collezioni pubbliche e private, nelle quali venne coinvolta anche l’Italia, in particolare dopo l’8 settembre 1943. Con la scusa della tutela, i suoi militari operarono confische o vendite forzate a prezzi irrisori di beni di inestimabile valore. In questa “missione” fondamentale fu l’aiuto di mercanti d’arte, esperti del settore e direttori di musei. Nel 1939 venne creata un’apposita sezione denominata Sonderauftrag Linz, con lo scopo di individuare opere idonee al nuovo museo.
Un po’ ovunque si iniziò a temere per i capolavori conservati nei propri musei e tra coloro che erano spaventati da questa ipotesi ci fu anche Amedeo Maiuri, a quell’epoca direttore del Museo Archeologico di Napoli e degli scavi di Pompei ed Ercolano. Temendo sia i danni che la guerra ormai imminente avrebbe potuto apportare all’immenso patrimonio del museo e sia, soprattutto, la concreta possibilità che quei preziosi reperti tanto amati potessero essere portati chissà dove, decise di nascondere e proteggere quante più opere possibili, aiutato da persone di fiducia, compresi muratori che avevano il compito di creare nicchie nei muri o nei pavimenti per nascondere i tesori del Museo e poi chiuderle e nasconderle con intonaci come se non esistessero.
Maiuri ha raccontato quelle terribili giornate nel suo taccuino personale; alla data dell’8 e 9 giugno 1940 si può leggere: “Si lavora febbrilmente tra montagne di terra e montagne di sacchi, a scaricare, riempire e stilare come se si trattasse del carico d’una nave. […]. E così i bronzi della Villa dei Pisoni, le Danzatrici e i Pugilatori, sono scesi dai loro podi marmorei; […]. Dopo il lavoro affannoso della scoperta nelle tenebre dei cunicoli e l’ansia di rivedere il nitore del metallo puro e mondo dal duro cortice del magma terroso, era necessario riaffondarli, risommergerli di nuovo per una più sicura difesa da ogni possibile atto di cieca e criminosa follia”.
Maiuri pensava di proteggere alcune importanti casse facendole trasportare nell’Abbazia di Montecassino in quanto, per opinione comune, si credeva che essendo un baluardo religioso non sarebbe mai stata un obiettivo bellico. Ma con il passare del tempo e l’avanzata degli Alleati, anche quello si dimostrò non essere più un luogo sicuro e molte casse vennero portate via dalla Divisione Goering che, ufficialmente, aveva il compito di metterle in salvo portandole in Vaticano.
In un altro passo del 5 gennaio 1944 l’archeologo scriveva: “Infuria la battaglia di Montecassino. Tra il 15 e il 16 ottobre, un convoglio della Divisione Goering aveva trasportato le casse verso una ignota destinazione al Nord. Il 5 gennaio giunge una notizia: a Piazza Venezia a Roma le opere d’arte sono state consegnate al Governo Italiano. Finirono poi nei depositi dei Musei Vaticani. Non tutto venne riconsegnato: qualcosa era in Germania come l’Apollo Citaredo di Pompei e una Danzatrice di Ercolano, una cassa di ori e opere della Pinacoteca ritrovati poi in un deposito a Monaco e altrove”.
Molte casse erano state dirottate vicino Spoleto in attesa di essere poi riconsegnate al Vaticano ma, durante quella sosta umbra, un esperto d’arte tedesco fu incaricato di selezionare opere da portare poi in Germania. I preziosi reperti furono nascosti in una miniera di sale presso il villaggio di Altaussee a circa 70 km da Salisburgo e tra questi era anche la peplophoros di Ercolano.
Fu soltanto grazie all’azione di alcuni protettori dell’Arte che le opere poterono essere salvate facendo esplodere mine all’ingresso della miniera, sigillando tutto quello che vi era all’interno fino all’arrivo degli Alleati che scoprirono il prezioso tesoro nel luglio del 1943. Una volta recuperate tutte le opere, si poté far tornare nei luoghi di origine quanto era stato ritrovato, grazie ad accordi precisi.
In questo modo anche la nostra danzatrice, dopo un lungo e travagliato viaggio, ebbe la possibilità di rientrare a Pompei per essere ricongiunta alle sue compagne, non prima di essere esposta con altri capolavori nella Mostra delle opere dell’arte recuperate in Germania inaugurata il 9 novembre 1947 nelle sale della Farnesina a Roma.
Consegue a pieni voti la laurea in Lettere Antiche con Indirizzo Archeologico presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” con una tesi in Metodologia e Tecnica della Ricerca Archeologica. Successivamente, consegue il Diploma di Specializzazione in Archeologia Classica presso l’Università La Sapienza di Roma con una tesi in Teorie e Tecniche del Restauro Archeologico. Ha approfondito gli studi inerenti al Patrimonio Culturale e la sua tutela e difesa attraverso l’analisi dell’Operazione Ifigenia del CC TPC. Dal 2004 si occupa di assistenza archeologica, di direzione di scavi archeologici e della redazione della relativa documentazione. Ha partecipato a missioni archeologiche in Giordania presso il sito di Wadi Useykhim. Dal 2012 al 2016 ha collaborato occasionalmente con il Museo Civico Archeologico di Albano Laziale. Dal 2014 al 2016 ha rivestito il ruolo di socio fondatore e vice presidente dell’ associazione culturale Honos et Virtus e per il sito www.honosetvirtus.roma.it, ha curato la rubrica “Recensiones”. Dal 2017 è socio fondatore e vice presidente dell’associazione culturale no profit Niger Lapis. Dal 2018 ricopre il ruolo di OS 25 e da giugno 2021 collabora con Munus srl come operatore didattico presso Musei Capitolini, Mausoleo di Augusto, Ara Pacis e Mercati di Traiano. Ѐ iscritta nell’elenco nazionale ai sensi del DM 20/05/2019 n. 244 per il profilo di “Archeologo di I Fascia” ed è iscritta con il n. “RM – 2472” nel ruolo di Periti ed Esperti Sezione Unica della CCIAA di Roma per la Categoria XXIV ANTICHITÀ E BELLE ARTI.
Ѐ tra gli autori del progetto “Assassini dell’Arte — I podcast che raccontano le storie dei Crimini contro la Cultura”, patrocinato dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e sponsorizzato da Intesa San Paolo. A maggio 2022 ha ricevuto il Premio “Jean Coste” per la sezione Università – Archeologia.