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Money
Get away
You get a good job with more pay and you’re okay

Pink Floyd, Money (1973)

Seguire o meglio analizzare il mercato dell’Arte è un’operazione fondamentale per comprendere l’evoluzione dei gusti, le dinamiche commerciali e fornire alcuni spunti di discussione con riferimento alle norme di tutela, nazionali/sovranazionali, e quelle sulla trasparenza del mercato stesso, che ormai vede le aste internazionali protagoniste assolute.

In linea generale, considerando l’andamento delle vendite all’asta del 2022, sembra confermata la ripresa dopo il periodo della pandemia. Il mercato statunitense si conferma ancora una volta quello principale, con il ruolo centrale della piazza di New York. Subito dietro, spostandosi verso Oriente, consolida la propria posizione di rilievo la piazza di Hong-Kong. È confermato l’andamento positivo delle vendite di opere di arte contemporanea, ma anche una ripresa netta dell’arte antica dopo un periodo un po’ incerto.

Tra le opere d’arte contemporanea più quotate spiccano quelle di Warhol, Allen e Basquiat. Per quanto riguarda l’arte antica e moderna, di particolare interesse è la performance degli impressionisti: Cézanne, Monet e Van Gogh. Tra gli old masters spiccano Botticelli e Turner. Sul podio delle prime tre aggiudicazioni in asta troviamo tre dipinti. Al primo posto Andy Warhol con Shot Sage Blue Marilyn del 1964, venduto per 195 milioni di dollari; al secondo, Georges Seurat Le poseuses, ensamble venduto per 149,2 milioni di dollari; al terzo, Paul Cézanne Le Montagne Sainte-Victoire, battuta a 137,79 milioni di dollari.

Stupisce il trend negativo degli NFT che, nonostante le previsioni entusiaste di qualche tempo fa, hanno avuto scarso successo. Evidentemente il mercato non ha ancora compreso a fondo questo strumento innovativo, nonostante le premesse lusinghiere e l’esplosione di Beeple con la vendita all’asta di Everyday: The First 5000 Days battuto a 69,3 milioni di dollari nel marzo 2021.

Una considerazione a parte meritano le aste destinate alla vendita di reperti archeologici su cui non esistono dati precisi. E’ un mercato di nicchia, un po’ particolare per l’oggettiva difficolta di commerciare tali prodotti con una documentazione coerente e precisa che ne attesti origine e provenienza, così da scongiurare possibili rivendicazioni in relazione a scavi illeciti e/o illecite esportazioni/importazioni.

In effetti, sfogliando i cataloghi d’asta, non è sempre facile ritrovare indicazioni precise sulla provenance, salvo prender nota dei passaggi in collezioni private per lo più non riportate compiutamente. Del resto, il fenomeno degli scavi clandestini ha ancora una certa diffusione. La trafila seguita dai beni trafugati porta talvolta proprio alle gallerie e alle case d’asta dei paesi occidentali, grazie all’azione di intermediari. Solitamente passano anni prima che un reperto saccheggiato sia destinato alla vendita; nel frattempo, gli oggetti sono tenuti occultati per mascherarne la reale provenienza. Spesso vengono depositati nei porti franchi, che consentono ai collezionisti di conservare le opere al riparo dai controlli doganali.

È noto che vi siano porti franchi dove sono custoditi numerosi oggetti d’arte, reperti archeologici compresi. Per poter commercializzare le opere, le gallerie d’arte e le case d’asta devono conferire ai reperti una filiera di legalità. A fronte di queste cautele gli operatori di vendita sono soliti affermare che tra i loro doveri vi sia soprattutto quello di proteggere la privacy dei clienti. A volte però è un modo per coprire certe pratiche poco chiare, per eludere possibili controlli delle autorità deputate. I mercanti d’arte dichiarano di rispettare le regole suggerite dalla due diligence, ma ciò non è collegato a un riferimento giuridico preciso, vincolante, si rifa in sostanza a norme basilari di precauzione, utili per scongiurare la possibilità di trattare beni provenienti dal traffico illecito. Il sistema si basa essenzialmente sul principio di buona fede, che riguarda anche l’acquirente, motivo per cui le opere non possono di fatto venir sequestrate, specie nei paesi dove vige il common law, che non hanno sottoscritto accordi giudiziari o recepito le normative sovranazionali più restrittive.

Un noto mercante d’arte statunitense, membro della Confederazione internazionale dei commercianti di opere d’arte, ha dichiarato qualche anno fa: «In molti paesi archeologicamente ricchi, le antichità sono considerate nel migliore dei casi oggetti da vendere agli stranieri o nel peggiore oggetti sacrileghi da distruggere. Il libero scambio di beni culturali è esso stesso un’istituzione che deve essere tutelata. Un commercio aperto e legittimo di antichità è ora più che mai necessario per garantire la conservazione e la diffusione del patrimonio culturale in tutto il mondo». Probabilmente bisognerebbe andare al di là di questa sorta di contrapposizione. Il dibattito in merito è aperto da lungo tempo e resta assai controverso.

Una soluzione operativa, che progressivamente potrebbe essere utile per raggiungere questo obiettivo, sono i controlli basati su procedure condivise a livello sovranazionale per tutelare ciò che è veramente bene culturale, superando le logiche legate al mero valore economico di soglia e le attribuzioni non fondate su una documentazione coerente e puntuale.

Non si può perciò prescindere dai seguenti elementi di rilievo: provenienza, proprietà, eventuali pubblicazioni su cataloghi, attribuzione/autenticità, stato di conservazione, vincoli amministrativi o di altro genere. È necessario adottare standard per migliorare l’azione preventiva. In questo sarebbe opportuno calibrare meglio i controlli negli spazi doganali che sono i contesti dove avviene il transito delle merci, beni culturali compresi.

Più complesso è cercare di comprendere se dietro certe vendite vi siano condotte di frode, speculazione, riciclaggio. Non va trascurato che queste fonti di denaro sono appetibili anche per le associazioni criminali organizzate, che le sfruttano per diversificare i propri traffici illeciti. Tanti sono stati i casi che hanno fatto discutere, su tutti il Salvator Mundi attribuito a Leonardo. Un caso paradigmatico che ha fatto emergere tutte le criticità riguardanti l’attribuzione, la circolazione e la vendita di un’opera antica passata in asta ad una cifra astronomica.

Il valore economico assume una rilevanza cruciale e purtroppo, a volte, sembra essere l’unico elemento degno di considerazione, quello che fa più presa a livello comunicativo ma anche per gli addetti ai lavori. È il meccanismo su cui si basano le aste che, partendo da una valutazione base, puntano su innalzare i prezzi per realizzare maggiori guadagni.

Non è questa la sede per addentrarsi in disquisizioni economiche, meglio dire econometriche. Ci sono metodi scientifici che consentono di stabilire il valore degli asset culturali e del contributo che detti beni restituiscono all’economia di uno stato. Si pensi allo studio condotto nel 2022 da Deloitte su un bene culturale mobile come il Colosseo, valutato circa 77 miliardi di euro e che contribuisce a incrementare la ricchezza del paese per 1,4 miliardi l’anno.

Questo per dire, in definitiva, che bisogna tenere conto di una molteplicità di aspetti nell’ottica di stabilire un equilibrio tra i vari aspetti considerati, valendosi di un approccio multidisciplinare, focalizzando l’attenzione sul bene specifico per definirlo in maniera corretta. Se non altro a livello concettuale e in rapporto al nostro paese, vale la definizione di bene culturale risalente ai lavori della commissione Franceschini ovvero “ogni bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”.
È un concetto ancora attuale? Ha una valenza etica finalizzata alla sola tutela?

Non è semplice rispondere a questi quesiti. Certo è che dovrebbe essere anzitutto lo Stato a mettere in atto e garantire tutte le precauzioni necessarie a definire quali bene tutelare e quali no; le funzioni amministrative degli organi di tutela e la loro organizzazione e quale sia il modello migliore da adottare per rendere il più trasparenti possibili le varie procedure, senza gravare oltremodo sul cittadino e/o perfino penalizzare il mercato lecito basato sulla libera concorrenza.

Domandiamoci perciò se le norme di riferimento, quelle vigenti, in particolare quelle che hanno un risvolto diretto sul mercato, siano adeguate alla contemporaneità, proiettata alla globalità, e siano adatte a concepire il bene culturale secondo una visione universale e condivisa, che tenga conto delle varie identità e dell’evoluzione delle pratiche commerciali. Non da ultimo, un po’ provocatoriamente, riflettiamo se le risorse economiche pubbliche messe a disposizione dalla politica, sia nazionale che internazionale, siano effettivamente adeguate alle necessità del comparto culturale.

Parallelamente, dovrebbe crescere la sensibilità di ognuno di noi verso queste tematiche. È anzitutto un percorso di conoscenza e di aderenza ai valori etici, quelli che sono a fondamento di ogni nazione democratica, ma che spesso dimentichiamo. Esploriamo dunque nuove strade, raccogliamo sfide per far circolare la cultura, rifuggendo dalle posizioni estremiste, privilegiando il dialogo virtuoso che fa crescere ed elevare lo spirito e non i prezzi.

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