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La civiltà dell’immagine non ha prezzo?

(Tempo di lettura: 4 minuti)

Come il volto è l’immagine dell’anima, gli occhi ne sono gli interpreti

(Marco Tullio Cicerone)

La polemica si è attestata ai massimi livelli e sui massimi sistemi. Il Ministero della Cultura ha recentemente emanato un Decreto (DM 11 Aprile 2023, n. 161), che ha messo in allarme il mondo della ricerca e delle pubblicazioni scientifiche. Gli organismi e le associazioni di settore hanno criticato, pressoché coralmente, la decisione del dicastero che si appresta a predisporre un tariffario per il pagamento e l’uso delle immagini dei beni culturali. Una decisione che, a detta degli specialisti, minerebbe la diffusione delle immagini per una più condivisa e democratica divulgazione, nonché lo studio e la valorizzazione. Tutte attività che dovrebbero ispirarsi e conformarsi alla previsione costituzionale dell’art. 9.

Veduta del Collegio Romano, stampa (Foto: ICCD).

Nel merito sono state sollevate problematiche di ordine pratico, laddove queste tariffe siano applicabili sulle riproduzioni già nella disponibilità del soggetto, per essere state prelevate da fonti aperte sul web o con altri mezzi da qualsiasi produzione editoriale, facendo così venire meno i criteri per promuovere la gratuità delle pubblicazioni come previsto, in precedenza, dal DM 8 aprile 1994. La riforma non sembra affatto allineata alla sensibilità maturata a livello planetario, di cui è un prezioso riscontro la Convenzione di Faro. Nel documento sono enunciati i principi cardine su cui fondare l’azione coordinata a favorire la diffusione delle diversità culturali, anche attraverso dati e immagini del patrimonio culturale. L’obiettivo annunciato nella Convenzione è il raggiungimento della massima apertura e condivisione dei contenuti di sapere, ritenendo fondamentale la promozione dell’editoria scientifica e della ricerca, nonché lo sviluppo dell’economia di settore. Questa scelta della compagine governativa induce a sostenere l’ipotesi per cui il valore del patrimonio culturale sia valutato solo in termini economici. Viene perciò rovesciata la teoria consolidata, risultato di un lungo percorso intellettuale, che ha influenzato l’adozione della legislazione di tutela tutt’ora vigente secondo cui il bene culturale è una testimonianza materiale avente valore di civiltà (cit. dai lavori della Commissione Franceschini istituita nel 1964). Imporre balzelli alla ricerca e all’innovazione scientifica per reperire nuove entrate appare un controsenso, tenuto conto che in questo ambito l’Italia è notoriamente al di sotto della media europea per finanziamenti e spesa pubblica destinata al settore. L’UNESCO, nel 2016, ha collocato il nostro Paese al ventiduesimo posto, a parità di potere di acquisto pro capite investiti in ricerca e sviluppo.

Insomma, da una parte i beni culturali sono considerati beni comuni per cui ne andrebbe garantita la massima fruibilità, dall’altra se ne limita l’utilizzabilità in quei comparti che, più di altri, sono vocati a innovare anche con riguardo al patrimonio immateriale, costituito dalle immagini stesse. Paradossale, no?

Quanti soldi bisognerà sborsare per utilizzare queste immagini? Riusciranno i giovani studenti a far quadrare i conti, magari con l’affitto di un alloggio fuori sede?

Non da meno c’è da chiedersi che fine abbiano fatto le linee guida del Piano Nazionale di Digitalizzazione, da attuarsi nel quinquennio 2022-2026, in connessione anche con il PNRR. L’obiettivo primario era quello di conseguire la digitalizzazione del patrimonio culturale e la trasformazione digitale dei luoghi e degli istituti della cultura: dal paradosso si perviene all’antitesi.

Insomma, il diritto d’autore esercitato dallo Stato, secondo questa nuova formula, appare contraddittorio se non vessatorio. Non è ancora chiaro, infatti, attraverso quali criteri saranno assegnati i prezzi alle immagini. Non si vorrebbe assistere all’ennesimo esito per cui le interpretazioni e le scelte nel merito sono lasche per gli “amici” e restrittive per i “nemici”.

Nell’epoca della tecnologia digitale soverchiante, sdoganata dal governo in altre occasioni, si pensi alla discussa campagna pubblicitaria Open to Meraviglia, viceversa in questo caso si vuole compromettere uno dei pilastri dell’informatica avanzata, il cosiddetto sfruttamento dei contenuti open source (abbiamo uniformato il tutto alla lingua albionica, sic!). Quanto durerà questo esercizio di equilibrismo tra antinomie? Soprattutto ha un senso, un’utilità socio-culturale?

Sarebbe auspicabile, per un’azione politica di reale cambiamento, vista la portata della materia riformata e dei suoi potenziali effetti sul sistema paese, un coordinamento tra ministeri, in particolare: MiC, MIUR, MIMIT e perché no del Turismo. Ne gioverebbe, probabilmente, l’immagine del governo stesso, sarebbe un’occasione per dimostrare che la partecipazione politica dal basso non è morta. Sarebbe un modo per dimostrare compattezza ed efficienza. Forse però non è prudente inoltrarsi troppo nell’arte della politica, dove, per dirla con Machiavelli, “tutti valutano per quello che appari”.

Le immagini sono la risultante di un’azione sensoriale, ma anche di una rielaborazione mentale. Guardiamoci allo specchio senza essere narcisi, ma per un esame di coscienza. Guardiamo al mondo che ci circonda, proiettato ormai verso un’inarrestabile, a volte incontrollabile, processo costellato di cambiamenti repentini che vanno saputi cogliere in termini di opportunità per migliorare le condizioni di vita di tutti. Guardiamoci soprattutto negli occhi, per ritrovare l’essenza profonda di noi stessi e non un’immagine diafana di un vuoto sé, destinato a disperdersi nell’indifferenza o peggio imprigionato nelle pieghe di un cieco potere.

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