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«Le isole del tesoro», quando a ragionare si invitavano i migliori

Le isole del tesoro
(Tempo di lettura: 7 minuti)

Ci sono libri perduti e ci sono libri fantasma: dei primi si è occupato Giorgio van Straten in un volume edito da Laterza nel 2016, sui secondi ha scritto lo scorso anno Andrea Kerbaker per Salani. E poi ci sono i libri dimenticati, quelli imperdonabilmente scivolati nell’oblio perché la loro genesi, magari strettamente legata alla committenza, e la loro missione non erano quelle di riempire gli scaffali delle librerie per invadere capillarmente a ricaduta le biblioteche domestiche dello Stivale. E questa è la storia de Le isole del tesoro. Proposte per la riscoperta e la gestione delle risorse culturali, un progetto editoriale di IBM Italia che sul finire degli anni ’80 radunò Umberto Eco, Federico Zeri, Renzo Piano e Augusto Graziani, dei fuoriclasse in patria e all’estero, a ragionare di patrimonio storico e artistico. Cos’è e cosa ne dovremmo fare? A partire da un dato di realtà, già all’epoca pacifico: la tutela e la valorizzazione dei beni culturali sono costrette a fare i conti con «mezzi scarsi, iniziative per forza di cose circoscritte, e per il resto una faticosa e sofferta politica di sopravvivenza».

Eco dedica ampio spazio alla semiotica e all’interpretazione di giacimento culturale che comprende «ciò che non si sa che ci sia e che quindi non si vede», come i beni archeologici, «ciò che si sa che c’è, ma non si può vedere» nei depositi dei musei o nelle biblioteche difficilmente accessibili, «ciò che si sa che c’è, che si può vedere, ma che per varie ragioni non viene guardato» perché chiuso al pubblico, “imprigionato” in chiesette sperdute o palazzi in rovina, «ciò che non si vede perché non c’è più» ma che può essere evocato, e «ciò che c’è ancora ma che si avvia a diventare giacimento» come il patrimonio librario o l’archeologia industriale. E anche quello che oggi definiamo patrimonio immateriale, i beni ambientali e persino la documentazione fotografica, intesa come ultima testimonianza di un bene culturale che non c’è più, sono per Eco giacimenti. C’è un ma: «I beni culturali riscoperti vengono conservati ed esposti nei musei» con il rischio che la museificazione promuova l’oggetto a un qualcosa di «magico», «socialmente etichettato come prezioso», e ciò che esprimeva ed esprime passa – se ci arriva – in secondo piano. Il museo occulta, appiattisce e uccide di eccesso. Nel conservare l’istituzione nasconde parte della sua collezione. Talvolta l’esposizione di oggetti di natura diversa impedisce al visitatore medio «la discriminazione tra bene e bene e rende vaghe le gerarchie di valore», inoltre la sovrabbondanza può trasferire l’idea che nel museo ci siano molte cose, senza dare però il tempo di vederne bene nessuna.

Il saggio di Zeri offre invece una panoramica sulle origini storiche del patrimonio culturale: la straordinaria varietà della produzione artistica e culturale fu incentivata anche dal «frazionamento politico del Centro e del Nord dell’Italia», e non mancò di essere ricca neppure nei secoli oscuri, sopravvivendo a invasioni, guerre e saccheggi. Il declino di alcune forme di economia, lo spopolamento e la concentrazione sul territorio, l’abbandono e la mancata manutenzione dei monumenti antichi, la sparizione di affreschi e mosaici con la demolizione dei palazzi per far posto ad altri edifici, che meglio rappresentassero il potere e i cambiamenti sociali, sono annoverate tra le cause delle diminuzioni e delle distruzioni a cui l’autore dedica un corposo paragrafo. «La vicenda toccata a Roma esemplifica, su scala macroscopica, quella che fu la storia delle antiche città dell’Italia intera: dove continuò la vita, gli avanzi del passato furono sacrificati, anche se si trattava di di reliquie insigni. La distruzione delle anticaglie avveniva allo scopo di creare del nuovo; e il rinnovamento fu la causa della più colossale ecatombe di opere d’arte mai avvenuta in Italia». Specie tra Cinquecento e Settecento. Successivamente, «con il nascere di una coscienza storica, assurde distruzioni e devastazioni vennero operate con il restauro, con il ripristino» e si assistette a un perverso cortocircuito: «il moderno, anche se di alto livello qualitativo e di grande interesse storico, venne sacrificato per privilegiare l’antico, o prodotti di epoche anteriori, anche se di scarso peso». A questo “fenomeno” si sommarono «insensati piani regolatori» e brutali interventi urbanistici ottocenteschi che squarciarono i centri storici per far spazio a una viabilità che cominciava a fare i conti con la velocità e l’aumento dei mezzi di trasporto.

E la tutela? È «soltanto nel corso del secolo XVIII che il governo pontificio ebbe a preoccuparsi seriamente della tutela delle opere d’arte, specie in vista delle continue esportazioni dal territorio degli Stati papali» e pian piano prese corpo la musealizzazione della collezione che oggi possiamo ammirare presso i Musei Vaticani. Inoltre è grazie «alle leggi del governo pontificio se Roma possiede ancora le gallerie private che sono uno dei vanti della città, e cioè le Gallerie Borghese, Colonna, Doria-Pamphilij, oltre alle Gallerie Pallavicini e Spada (quest’ultima, come la Borghese, divenuta poi di proprietà statale». Tuttavia resta incompleto e infinito l’elenco delle opere vendute, delle collezioni disperse, del patrimonio andato perduto per sempre prima che provvedimenti potessero essere adottati dal neonato Regno d’Italia. «È doveroso ammettere – scrive Zeri – che in una società agricola e pre-industriale, come era l’Italia sino a verso il 1930, provvista di infrastrutture culturali che oscillavano tra il positivismo e l’idealismo, l’amministrazione delle Belle Arti ha funzionato in modo efficiente»: compagne di scavo e catalogazione, fondazione di nuovi musei, sistemazione delle grandi raccolte, innumerevoli (buoni) interventi di restauro. Ma è altrettanto doveroso ricordare lo scempio delle strutture e quindi dell’arte, con la fascistizzazione del settore che si verificò proprio dagli anni ’30 e fino al termine della Seconda guerra mondiale: «quando una circolare governativa imponeva (dopo l’entrata in guerra il 10 giugno 1940) di ritirare le opere d’arte concesse in depositi a enti, ministeri, ambasciate, tale disposizione venne ignorata, con gravissime conseguenze di perdite, distruzioni, furti, ecc. Altra mancanza assai grave della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti fu quella, dopo la fine del conflitto, di non aver mai pubblicato elenchi completi e attendibili delle opere d’arte demaniali rubate durante la guerra e presumibilmente distrutte», a differenza di altri Paesi europei che si affrettarono a raccogliere i dati e a divulgarli. «La gravissima crisi in cui versa l’amministrazione dei Beni Culturali non è certo irrisolvibile; essa può essere superata, anche perché la struttura dell’amministrazione stessa è fondata su basi razionali, e le gravi condizioni attuali sono il risultato di una pessima gestione e di una serie assai lunga di errori e di calcoli sbagliati. In realtà, l’amministrazione ha continuato, pur nelle assai mutate condizioni dell’Italia odierna, a funzionare come se il Paese fosse ancora quello, basato sull’agricoltura, sul predominio economico di una ristretta classe di potenti, sul concetto di impiegato statale come passivo servitore degli interessi di chi conta, sullo stato di cose, cioè, tipico della situazione italiana anteriore alla fine degli anni ’50». E ancora dovevano arrivare le liriche di Bondi, lo stupro della Biblioteca dei Girolamini e l’era Franceschini.

Il contributo di Piano si sofferma sul giacimento di tipo archeologico perché quasi nulla come l’archeologia attira visitatori in cerca di Cultura con la C maiuscola. L’architetto individua almeno due elementi di appeal: «La distanza nel tempo rispetto al presente, la quale crea una forma di rispetto (in verità non sempre abbiamo registrato questo rispetto e lo abbiamo constatato anche di recente ai danni del Colosseo, ndr), di sacralità e di meraviglia per il fenomeno indagato»; e «la intrinseca miracolosità insita nel concetto medesimo di “ritrovamento”», come qualcosa di leggendario o segreto che riprende vita, esattamente come Pompei. Ed è proprio per la «città del tesoro» che Piano studia un progetto analizzando quattro condizioni: come accedere al parco archeologico, come rendere efficace e piacevole la visita, come restituire al pubblico il fascino dello scavo e come conservare l’enorme quantità di reperti ritrovati.

Il 6 dicembre 1997 le Aree archeologiche di Pompei, Ercolano, Torre Annunziata sono state inserite nella lista dei siti Patrimonio Mondiale dell’Umanità perché rappresentano «una testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa» (criterio III), offrono «un esempio eminente di un tipo di costruzione o di un complesso architettonico o di un paesaggio che illustri un periodo significativo della storia umana» (criterio IV) e costituiscono «un esempio eccezionale di un insediamento umano tradizionale o di un utilizzo del territorio che sia rappresentativo di una o più culture, specialmente se divenuto vulnerabile per l’impatto di cambiamenti irreversibili» (criterio V). Nel 2011 le ispezioni dell’UNESCO constatano la necessità di procedere urgentemente con interventi e azioni per la salvaguardia del patrimonio archeologico, con la revisione e implementazione del Piano di gestione e l’ampliamento della buffer zone per garantire la conservazione del paesaggio. Così il Governo italiano, dopo l’incuria, i crolli che fanno il giro del mondo e il richiamo del Comitato del Patrimonio Mondiale, corre ai ripari e nel 2013 fa partire il Grande Progetto Pompei «per favorire la tutela e la valorizzazione dell’area archeologica, con un programma di interventi conservativi, di prevenzione, manutenzione e restauro»: 73 interventi (lavori, servizi e forniture) per circa 110 milioni di euro. Chissà se uno dei 58 cantieri che si sono avvicendati in questi ultimi dieci anni, ha preso spunto dai suggerimenti di Renzo Piano. Di certo è che il Parco archeologico di Pompei, con 20.537 ingressi, è il sito italiano più visitato (gratuitamente) nella prima domenica di luglio.

Il giro si conclude con l’intervento di Graziani, che si muove con disinvoltura nella nomenclatura economica per distinguere gli obbiettivi dell’investimento privato dall’ottica del decisore pubblico: lasciare al mercato, avocare per intero allo Stato o puntare su una collaborazione tra pubblico e privato per la gestione del nostro patrimonio storico e artistico? Questo è IL problema.

Doveva essere una tavola rotonda pomeridiana, ospitata nella sala riservata di una grande albergo milanese, con la moderazione e gli appunti di Carlo Bertelli, è invece diventato il testamento di una generazione: con questo volume così denso e ricco di tavole e fotografie – ne citiamo solo alcuni per brevità – di Alinari, Basilico e Berengo Gardin, dunque pure esteticamente significativo, si ha l’impressione che il pensiero sul patrimonio culturale si sia fermato lì. Certo, la tecnologia e il digitale hanno pervaso ogni poro delle esistenze e inciso anche sul modo attraverso cui si conserva e si fa esperienza dell’arte; ma è quando ci si deve arrendere a iniziative ministeriali cognitivamente umilianti, come Open to Meraviglia e VeryBello, che si scorge il bagliore dei bravi maestri: dopo trentacinque anni non si è spento.

Il libro con la copertina bianca, custodia in cartoncino e talloncino dell’IBM, è pressoché introvabile, ma c’è consolazione per i nostri lettori afflitti dal morbo di Gutenberg: nello stesso anno Electa l’ha ristampato e di quella edizione c’è ancora traccia nelle vetrine del web.

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