Il cestino, coperto di alghe secche o foglie di vite, sembrava contenere conchiglie o forse qualche pesce; e le guardie di finanza – tutti amici, si intende – ci stavano al giuoco, purché avvenisse nei modi stabiliti tacitamente. […] e ti faceva intravedere, sotto le alghe, il mucchio di sottili e ruvidi cocci antichi, più o meno interi e qualcheduno con deboli segni di ornamenti rossoneri. […] Con i turisti più sprovveduti, cominciava invece con qualche lékhytos tutto splendente di colori (“fatto a mano” ti diceva a parte con una strizzatina d’occhio ) o delle monetine uscite dal bagno d’acido. L’altra roba, quella vera, poteva anche regalarla quando se la sentiva. Bastava non insistere troppo per saper la provenienza: al massimo, faceva un gesto vago in direzione dei templi, sul promontorio al di là del vecchio porto greco.
(Eyvind Hytten, Il raccoglitore di cocci di Selinunte, in Le Coste d’Italia – Sicilia, 1968).
Selinunte, il parco archeologico più grande d’Europa. Un parco giochi per i tombaroli siciliani e nello specifico una miniera d’oro per la famiglia Messina Denaro.
Don Ciccio, il padre di Matteo Messina Denaro, di professione “campiere”, il terreno lo conosceva bene, soprattutto quello così ricco della sua zona: la valle del Belice. Fu proprio lui ad assoldare abitualmente i tombaroli che dagli anni ‘60 depredarono la zona del parco archeologico di Selinunte. Gente comune, contadini, pescatori, che con i tesori del sottosuolo arrotondavano i loro redditi.
«Baciamo le mani, professore. Quando siamo senza lavoro, dobbiamo pur dare da mangiare ai bambini», è il ricordo riportato da La Repubblica dell’allora soprintendente del parco, Vincenzo Tusa, quando al mattino incontrava i tombaroli che rincasavano. Fu proprio la visione del frequente saccheggio di Selinunte che spinse Tusa a fare una proposta che fece scalpore e suscitò non poca indignazione: assumere i tombaroli. In questo modo riuscì a controllare l’emorragia dei reperti archeologici selinuntini.
Francesco Messina Denaro inizia la sua carriera proprio come tombarolo e successivamente trasmette la “passione” per l’archeologia al figlio Matteo che con il traffico di opere d’arte ha mantenuto la famiglia e la sua latitanza. Padre e figlio infatti furono anche i mandanti di due grandi furti: l’Efebo di Selinunte e il Satiro Danzante di Mazara del Vallo, il secondo fortunatamente non portato a termine.
L’Efebo di Selinunte, è una statua di bronzo alta circa 85 cm che raffigura una figura maschile, nuda, in stile severo. Un vero e proprio Kouros siceliota datato al 480-460 a.C., che può essere ammirato presso il Museo Civico Selinuntino di Castelvetrano (TP). La statuetta venne ritrovata nell’800 in maniera fortuita nella necropoli di contrada Galera Bagliazzo nel comune di Castelvetrano. Dato il rinvenimento in prossimità di un sarcofago di argilla, si ritiene appartenesse ad un contesto funerario. La statua fu venduta per 50.000 Lire al Comune di Castelvetrano, ma nel 1927 venne sottoposta ad un lavoro di restauro eseguito dal Museo di Siracusa, a seguito del quale venne esposta al Museo Archeologico di Palermo. Solo nel 1933 fece ritorno a Castelvetrano e venne collocata nell’anticamera del Gabinetto del Sindaco dove vi rimase fino al 1962 quando fu trafugata. Mandante del furto sarebbe stato Francesco Messina Denaro, noto per il suo amore per le cose antiche. I banditi che eseguirono il furto tentarono, senza successo, di venderlo a collezionisti esteri. Al Comune di Castelvetrano venne persino presentata una richiesta di riscatto di 30 milioni di lire, mai pagata.
Nel 1968 la polizia, sotto il comando del questore di Agrigento coadiuvato dagli uomini di Rodolfo Siviero, organizzò un’operazione di recupero della statua a Foligno, che ebbe come conseguenza uno scontro a fuoco e l’arresto di quattro persone. Gli anni di clandestinità avevano visibilmente deteriorato l’opera e fu necessario un secondo restauro di cui si occupò l’Istituto Centrale del Restauro di Roma. La campagna di restauro fu particolarmente complessa, la statua era stata nascosta in fusto di benzina e gli urti e le incaute manipolazioni avevano provocato danni alle giunture degli arti.
Dopo il restauro la statua venne esposta al museo Salinas di Palermo e infine restituita alla cittadinanza di Castelvetrano nel 1997, presso il Museo Selinuntino di Palazzo Maio.
Archeologa. Laurea magistrale in “Orientalistica: Egitto, Vicino e Medio Oriente” con una tesi in Archeologia dell’Arabia Meridionale. Ha frequentato la Scuola Interateneo di Specializzazione in Beni Archeologici di Trieste, Udine, Venezia Ca’ Foscari, concludendo con una tesi sulla legislazione dei bbcc, incentrata sui crimini contro i beni culturali in Sicilia. Alterna il lavoro di cantiere a quello di operatrice museale.