In altri luoghi bisogna andare a cercare le cose importanti, qui se n’è schiacciati, riempiti a sazietà.
E la sera si è stanchi e spossati dal tanto vedere ed ammirare.
W. Goethe, Viaggio in Italia
Quante volte abbiamo sentito espressioni come «l’Italia è un museo a cielo aperto» o «Quante bellezze e quanta cultura ci sono in Italia»? Un po’ più prosaiche, per usare un eufemismo, alcune risposte, maturate in ambito politico sono «con la cultura non si mangia» e recentemente «mettiamo a profitto la bellezza». Domande e risposte. Forse meglio dire domande senza risposte concrete, semplicemente inchiodate lungo un asse diacronico. Sono lontani i tempi del Gran Tour, quando la nostra penisola era meta privilegiata ove ristorare il corpo, la mente e lo spirito: la fonte di massima ispirazione per la creazione artistica in ogni sua forma. Questo afflato romantico, che gli eristi della comunicazione contemporanea giudicherebbero arcaico e classista (o peggio), si è però rarefatto: perciò niente paura, nessuna forma di subdolo revanscismo mediatico per legittimare nuove possibili crociate. Siamo per la pace perpetua.
È inutile, se non pericoloso, illudersi e cercare di rispolverare, per condividerla, l’antica passione per il bello, senza passare per retrogradi nostalgici, imprigionati idealmente nell’arcadia. Dobbiamo esplorare dunque gli universi paralleli ed essere aperti alla meraviglia in una modalità ipertecnologica, senza badare troppo alla realtà e alla verità. In cosa si è trasformato il bel paese? In cosa si è trasformata la politica?
Il “museo Italia”, sospinto tra tante e insidiose procelle, sembra essere inondato dalle acque che vanno e vengono violente. Giove Pluvio ce l’ha con gli italiani? In realtà non c’è proprio da scherzare. Basta guardare le immagini dell’alluvione (l’ultima di una lunga serie in ordine di tempo, sic!) che ha flagellato intere aree dell’Emilia-Romagna. Quanto bisogna ancora attendere perché siano messe in campo idonee misure per prevenire rischi e conseguenze rispetto ad un cambiamento climatico sotto gli occhi del mondo intero? Come pensiamo di tutelare il paesaggio senza tenere conto delle sue fragilità, che spesso si ripercuotono pesantemente sulla vita dei cittadini, mettendo a repentaglio la sicurezza, perfino la sopravvivenza?
Il museo a cielo aperto, ovvero il paesaggio, è un po’ disastrato anche dal punto di vista delle infrastrutture: il ponte sullo Stretto di certo non è la soluzione definitiva che allargherà a sufficienza gli orizzonti culturali e turistici. Sarebbe auspicabile un monitoraggio costante e coordinato del territorio a cui dovrebbe seguire l’adozione di un piano strategico codificato in legge per gestire il consumo del suolo.
E i musei, in senso stretto, come se la passano?
Soffermiamoci sull’azione politica di governo. La ricetta attuale per la salvaguardia dei musei, prevede due ingredienti principali: aumento del costo d’ingresso e gestione diretta e unificata per l’emissione dei biglietti. Negli ultimi tempi se n’è sentito parlare in modalità ondulatoria e sussultoria, un po’ come accade con i terremoti. L’ultima notizia è quella secondo cui la piattaforma di bigliettazione non rappresenterà l’unica chance ma fungerà da integrazione e supporto per quelle realtà museali sprovviste di biglietteria che potranno avvalersi di un canale digitale. Nella sostanza un ripensamento.
È bene ricordare che questa specifica attività è disciplinata, a livello normativo, dagli artt. 101 e 117 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004, che indica e definisce come luoghi della cultura: i musei, le biblioteche, gli archivi, le aree e i parchi archeologici e i complessi monumentali. Tutti questi luoghi sono destinati alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico. L’art. 117 definisce nel dettaglio i servizi di assistenza culturale e di ospitalità che gli istituti culturali possono istituire, rimandando alle modalità di gestione disciplinate dall’art. 115 dello stesso Codice. Da tutto ciò è necessario pervenire a una sintesi operativa, attraverso tre parole chiave: servizio pubblico, accoglienza/valorizzazione, gestione. Il faro che ci deve guidare è sempre la nostra Costituzione, perché ad essa bisogna rifarsi per evitare che siano adottate norme non coerenti giuridicamente. In questo caso i riferimenti sono dati dagli artt. 43 e 97. L’attività amministrativa del patrimonio storico-artistico, in relazione ai servizi al cittadino, è annoverabile tra quelle a prestazione garantita. Per questo, anche in conformità del Codice dei Beni Culturali, le attività di questo settore possono essere gestite in regime di mercato. Qui si inserisce la vexata quaestio tutela vs valorizzazione, che tuttora anima il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, soprattutto con riferimento all’evoluzione del concetto di attività gestionale. La gestione dovrebbe saper coniugare la protezione e la fruizione del patrimonio, non solo da un punto di vista privatistico o economico, piuttosto, riferendosi alla sintesi dei poteri di carattere squisitamente pubblicistico del bene culturale, senza privilegiare scelte sbilanciate verso meccanismi economici privatistici. Questi due aspetti discendono dai principi propri della cultura, che vanno oltre la sfera giuridica di una comunità, perseguendo la crescita, nello stesso ambito, della cittadinanza. Il servizio pubblico culturale, in termini complessivi, riguarda la gestione del patrimonio, per la tutela e la valorizzazione.
È necessario un altro distinguo, in seno al patrimonio storico artistico, nel caso in cui la fruizione debba essere a cura di una proprietà privata ovvero pubblica. La natura concettualmente unitaria di patrimonio storico artistico, secondo il presupposto della proprietà, incide sulla qualificazione oggettiva del servizio pubblico. Insomma sembra mancare un riferimento normativo chiaro che possa far superare queste contraddizioni. In questo senso non è stato certo risolutivo il decreto-legge n. 146/2015, frutto dell’ennesima produzione di leggi a fronte delle cosiddette emergenze, in questo caso limitare la possibilità di astenersi dal lavoro per protesta degli operatori del settore culturale, valutato come fondamentale per l’economia della nazione: il ricorso all’interpretazione prevale sulla soluzione.
Forse è arrivato il momento di una riforma sostanziale, ispirandosi a principi e sensibilità che ormai si vanno affermando per il mondo, tra tutti la sostenibilità. Aspetti di indiscussa rilevanza per determinare anche l’adozione di buone pratiche tecniche e di gestione. Si pensi alla definizione di museo di ICOM, che sottolinea la peculiarità di questi contesti, definendoli istituzioni permanenti senza fini di lucro. Basterebbe uno sguardo oltre i confini patri per trovare esempi virtuosi in questo campo, per elevare così la qualità dei servizi e delle potenzialità che è in grado di esprimere e offrire un sistema culturale degno di questo nome.
E se avesse ragione il “padre di Faust”? Del resto le citazioni non dovrebbero essere mai riproposte a caso, solo per darsi un tono. Le nostre energie sembrano davvero esaurirsi in viaggi della speranza sui mezzi pubblici, in code chilometriche ai caselli autostradali per poter godere delle bellezze nostrane. Non di meno trascorrere ore in fila per entrare nei musei, di fare a gomitate per ammirare questa o quell’opera, mentre schiere di avanguardisti ipertecnologici monopolizzano lo spazio espositivo ormai divenuto un set dove realizzare selfie. Sarebbe il colmo stancarsi della bellezza, riposarsi e poi ricominciare ad apprezzarla. Lo schema è chiaro anche se antico. Basterebbe forse riattualizzare la citazione in premessa, agevolando una gestione integrata di tutte queste attività, creando magari un itinerario o più itinerari reali, non solo virtuali, con caratteristiche più accoglienti ed inclusive, con una maggiore attenzione alle categorie sociali più fragili. Il museo, più in generale gli spazi espositivi, dovrebbero essere catalizzatori di bellezza e cultura. Il bel paese ne possiede numerose per quantità, qualità e soprattutto unicità.
È possibile questo cambiamento senza fare patti col diavolo? Probabilmente sì, nella misura in cui ognuno di noi si attiverà concretamente anche per gli altri.
Opinionista