Semidei. Rapsodia archeo-sociologica
Una recensione sul docufilm che racconta i Bronzi di Riace e il loro rapporto col territorio che li ha accolti
L’ambizione ha gli occhi di bronzo, che mai il sentimento ha inumiditi
(Friedrich Schiller)
I Bronzi di Riace, al di là della loro raffinata bellezza, rispettosa del canone estetico classico, racchiudono una potenza evocativa e simbolica come pochissime altre opere, frutto della più ispirata creatività. Forse per questo hanno attraversato il tempo e lo spazio quasi senza invecchiare, toccando, nel profondo, la sensibilità di ognuno di noi, che si pone nei loro riguardi, secondo il caso e la situazione, con affettività, curiosità, rispetto.
Il docufilm di cui ci pregiamo di proporre la recensione su queste pagine pone sotto una nuova luce l’afflato dai tratti immortali, proponendoci la narrazione di vicissitudini che ampliano ulteriormente l’empatia per i due bronzi, offrendoci una prospettiva fondata su un’identità culturale che, da Riace, si riverbera sul mondo intero.
Le storie, il vissuto umano, sono fondamentali per delineare la via del sapere, il cui portato va doverosamente mantenuto e consegnato alle future generazioni. Non è pienamente appagante, per l’intelletto e lo spirito, trattare solo gli aspetti di cronaca, le questioni legali, discutere ancora sulle modalità di ritrovamento delle statue, seppur avvenuto in modo rocambolesco e per certi versi controverso, al netto del definitivo pronunciamento dell’Autorità Giudiziaria. Non da meno soffermarsi, a volte ottusamente, su quisquilie tecniche, di stretta pertinenza degli archeologi, degli storici dell’arte. Giova ricordare che, all’epoca, l’archeologia subacquea era ancora agli albori, nonostante le brillanti intuizioni e gli studi di Nino Lamboglia.
È stato certamente suggestivo poter udire, per la prima volta, la ricostruzione di Stefano Mariottini, romano di origine, all’epoca giovane virgulto, appassionato di immersioni. L’individuazione dei due bronzi è avvenuta nelle acque prospicienti Porto Forticchio, lungo la spiaggia di Riace Marina, a poco più di duecento metri dalla battigia. Galeotta è stata dunque la battuta di pesca subacquea in apnea, in un contesto di scogli sommersi e sabbia, a una profondità relativamente bassa, quel mercoledì (giorno dedicato al dio Mercurio, sic!) 16 agosto 1972: la pesca è stata davvero miracolosa, passatemi la provocazione. Altrettanto suggestiva, densa di pathos, la narrazione del gruppo dei ragazzi del posto, rappresentati nella circostanza da Antonio (Antonio e Cosimo Alì, Domenico Campagna e Giuseppe Sgrò) che, lo stesso fatidico giorno, hanno individuato, a loro volta, sott’acqua, i bronzi. Da lì è scaturita una diatriba, un lungo procedimento giudiziario connesso alle distinte segnalazioni sul ritrovamento, presentate rispettivamente ai Carabinieri e alla Guardia di Finanza. Le successive indagini sulla vicenda hanno accertato che la denuncia di Mariottini ha preceduto l’altra, pertanto gli è stato riconosciuto un cospicuo premio per lo straordinario ritrovamento. Con buona pace di tutti, stemperando le polemiche rinfocolate anche in occasione del cinquantennale della scoperta, le due statue sono state recuperate, nei giorni successivi, dai funzionari della Soprintendenza calabrese e dai Carabinieri Subacquei.
La storia dei due bronzi, come accennato, non si è fermata lì. Il documentario lo illustra con dovizia di particolari. Si annoda con i fatti occorsi in quei territori, con le problematiche connesse al fenomeno della criminalità organizzata, con le depredazioni di reperti archeologici, con le fortissime tensioni sociali scaturite dai cosiddetti Moti di Reggio del 1970-1971. Tutto è in connessione e ha una spiegazione. I bronzi sono stati, per certi versi, in mezzo a queste dinamiche, come una sorta di catalizzatore che favorisce l’agognata alchimia: il riscatto sociale della Calabria e dell’intera Italia. Le statue, nel corso degli anni, hanno viaggiato, sono state curate, restaurate, esposte con grande successo a Firenze, Roma per tornare a Reggio Calabria: è ardito dire a casa? Lo testimoniano, con sincerità ed emozione, i protagonisti del documentario, le cui esperienze si intrecciano con le vicende delle due statue. Storie di vita vissuta che, con le loro connotazioni e peculiarità, ci inducono ad una riflessione sull’importanza della cultura nella quotidianità e in un contesto più ampio di civiltà.
Per comprendere è fondamentale, come sempre, saper ascoltare. Le interviste di Damiano, Anzhela, Daniele, Gaia, Serena, oltre quelle già citate, ci restituiscono spaccati di esistenza: pratiche di devozione, scoperte, studi, processi di integrazione e di sofferenze ma, soprattutto, una comune espressione di speranza. Sullo sfondo la presenza dei due eroi, plasmati e trasformati, sapientemente, in una “viva” materia bronzea: così delicati e così imperituri.
Il documentario, è stato prodotto da Palomar, con la regia di Alessandra Cataleta e Fabio Mollo. È stato presentato, nella sessione giornate degli Autori-Notti Veneziane, in occasione dell’ultima edizione della Biennale di Venezia, riscuotendo un ottimo successo di pubblico e critica. Confidiamo venga diffuso il più possibile, in particolare nelle scuole. Che sia stimolo per nuovi progetti culturali condivisi e per promuovere una critica costruttiva ed intelligente, che si prefigge di conseguire obiettivi concreti, frutto di un consapevole quanto maturo percorso di conoscenza. La trasmutazione artistica dei due personaggi, il messaggio che trasmettono, ci aiuta a migliorare le nostre percezioni e ad affrontare meglio i drammi esistenziali della contemporaneità. È la forza dirompente del mito, generatosi in un lontano passato, intriso di elementi riconducibili al divino. Siamo sollecitati perciò a raccogliere una sfida su vasta scala, in direzione di una rinascita che parte dal basso, in cui la componente culturale e la bellezza sono poste al centro di ogni attività umana.
Opinionista