di Filippo Melli
Se andate in visita al Museo del Bargello di Firenze potrete imbattervi in una “vecchia conoscenza”, ovvero un piccolo Crocifisso di legno (41,3 x 39,7 cm), che ora se ne sta in un angolo ma che qualche anno fa scatenò un vero e proprio uragano nel mondo dell’arte. E non solo.
L’opera è conosciuta come Crocifisso Gallino poiché fu l’antiquario torinese Giancarlo Gallino a proporlo alla pubblica attenzione una trentina di anni fa.
Ma che cosa ha (o aveva…) di così straordinario questo piccolo intaglio in legno di tiglio?
Il fatto che una parte della critica la proponeva a gran voce come un’opera giovanile di Michelangelo, e questa attribuzione (e forse la gran pubblicità che ne derivava…) convinse lo Stato ad acquistarlo per 3.250.000 euro..
Immediatamente dopo (siamo nel 2008) fu esposto in varie sedi prestigiose con grande pompa mediatica. Adesso il cartellino del Bargello è assai meno roboante: “Intagliatore fiorentino inizio Cinquecento”. E Michelangiolo? E i 3 milioni e 250 mila euro di soldi pubblici? Vale la pena ripercorrere questa intricata e affascinante vicenda.
L’opera è in realtà circonfusa, fin dal suo apparire sul mercato, da informazioni poco certe e, come vedremo, da vere e proprie invenzioni.
Negli anni ‘90, quando l’opera comincia a circolare, si vociferava di una sua certa e prestigiosa provenienza, che a un certo punto prende il nome della nobile famiglia fiorentina dei Corsini. A riprova di ciò, viene additato il Ritratto di Sant’Andrea Corsini, capolavoro di Guido Reni, da sempre conservato in Palazzo Corsini. Nell’opera seicentesca il santo è infatti inginocchiato davanti a un altare sul quale si staglia un piccolo Crocifisso nel quale qualcuno ha sostenuto di vedere una stretta somiglianza col nostro.
Niente di più sbagliato e di più falso.
Il Crocifisso ritratto dal Reni non ha niente a che vedere con questo, poiché si rifà ai modelli barocchi di Bernini e Algardi. E anche a riguardo della presunta provenienza dalla nobile famiglia, si è poi scoperto che è stata una vera e propria invenzione, poiché questo piccolo Crocifisso ligneo era da anni sul mercato antiquariale. E proprio un antiquario fiorentino lo aveva acquistato a New York per la modesta cifra di 10.000 euro. Ops.
Ma evidentemente l’astuto antiquario torinese, che nel frattempo era entrato in possesso dell’opera, non si era dato per vinto, e anzi aveva intensificato e potenziato l’operazione di attribuzione al Divino Maestro. E così nel 2004 il Crocifisso Gallino viene per la prima volta esposto al pubblico in una affascinante sede fiorentina, il Museo Horne, con la pubblicazione nel piccolo catalogo di saggi favorevoli di grandi studiosi quali Giancarlo Gentilini, Antonio Paolucci, Umberto Baldini, Luciano Bellosi.
A questa attribuzione aderì in maniera convinta anche la studiosa esperta di Cinquecento Cristina Acidini, Soprintendente allora del Polo Museale Fiorentino, e il famoso studioso Arturo Carlo Quintavalle. Alla conclusione della mostra fiorentina, il Ministero dei Beni Culturali non poté non notificare l’opera e sottoporla a vincolo culturale.
Un passo decisivo per l’intelligente antiquario che continuò a portare avanti la sua strategia, e nel 2006 propose l’acquisto dell’opera alla Cassa di Risparmio di Firenze, da sempre attenta acquirente di importanti capolavori fiorentini, con una richiesta iniziale di 15 milioni di euro. In poche settimane, di fronte alla cautela espressa dagli esperti consultati dall’istituto bancario (in particolare Mina Gregori), il proprietario ridusse le sue pretese a 3 milioni di euro, una mossa che non servì comunque a convincere la banca all’acquisto, e il tutto finì nel nulla.
Giuliano Gallino non si fermò però certo davanti a questo insuccesso, e il 5 luglio 2007 propose l’acquisto al ministero, guidato al tempo da Francesco Rutelli, per un valore di 18 milioni di euro. Dopo i pareri espressi dal Comitato per i beni storico-artistici, organo tecnico-scientifico del ministero, la trattativa si concluse nel 2008, quando a capo del ministero era intanto subentrato Sandro Bondi. Il 13 novembre 2008 fu così formalizzata la proposta di acquisto per 3.250.000 euro che fu, strano a dirsi, accettata dal venditore il giorno successivo: l’affare era concluso e naturalmente grandi enfasi e pubblicità vennero date all’operazione.
La prima esposizione di questo nuovo e prestigiosissimo acquisto dello Stato fu all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, e in seguito alla Camera dei Deputati e ancora in altre sedi, come il Castello Sforzesco di Milano. Dopo alcuni necessari interventi di restauro e ulteriori sessione di studi, il 25 ottobre 2011 il Crocifisso fu destinato al Museo Nazionle di Scultura del Bargello, ed esposto nella teca collocata nella Cappella della Maddalena recante trionfante l’attribuzione a Michelangelo Buonarroti e una data intorno al 1495.
Non è difficile capire che attorno a quest’opera e al presunto illustre autore si era fin da subito accesa un’agguerritissima querelle attributiva, con tanti pareri illustri favorevoli, ma altrettanti assolutamente certi del contrario.
Coloro che erano a favore dell’autorevole autore si rifacevano al confronto con l’unico altro Crocifisso di mano di Michelangelo, quello nella basilica di Santo Spirito a Firenze, un’altra opera con una storia rocambolesca e avvincente, e della cui autografia praticamente nessuno ha mai dubitato. Quella è un’opera giovanile che Michelangelo eseguì durante i mesi che passò nascosto dal priore di quel convento in seguito alla cacciata dei Medici del 1494. È quella una scultura dolcissima, serena, priva di quella terribilità che tanta parte avrà nella produzione successiva di Michelangelo, dove l’autore mostra una conoscenza strabiliante dell’anatomia umana, dovuta all’opportunità che ebbe in quei mesi di studiare i cadaveri dell’infermeria del convento grazie all’appoggio del priore (sezionare i cadaveri era allora fermamente proibito dalla Chiesa). Per ricompensarlo di così tanto aiuto ricevuto, Michelangelo scolpì per lui quel meraviglioso Crocifisso. Quest’opera per forza è un importante riferimento per i confronti anche per questo piccolo Crocifisso.
In effetti anche il Crocifisso Gallino ha un’attenta resa nei dettagli anatomici, ben visibile nei tendini dei piedi o nell’articolazione del ginocchio ma soprattutto nella mirabile resa del torso. Anche l’espressione, silenziosamente dolente ma non straziata, ricorda l’opera di Santo Spirito. La datazione per il piccolo Crocifissoviene quindi collocata, per analogia, tra il 1495 e il 1497 circa. Ma si devono tenere presenti anche aspetti che stridono con tale autografia, come la resa del retro della figura, non particolarmente accurata (al contrario di quello di S. Spirito), come non lo sono il retro delle mani o la resa dei capelli. Anche la testa, così profondamente reclinata, ha rivelato alle indagini un dettaglio tecnico, una tassellatura di legno che non corrisponde per niente alla lavorazione tipica del Maestro.
Nell’intricata questione sicuramente ci sono poi altri aspetti da sottolineare, come il fatto che non ci sia nessun appiglio documentario dell’opera, e questo, nel caso di un artista come Michelangelo, è un aspetto che pesa tantissimo in senso negativo.
L’altra cosa è che il prezzo pagato non è assolutamente congruo, anzi ridicolmente basso per una scultura giovanile e autografa di Michelangelo, visto che, per esempio, un suo disegno passato da Christies nel maggio 2022 ha raggiunto la ragguardevole cifra di 23 milioni di euro. Invece, quello stesso prezzo diventa uno «sproposito» se riferito a un’opera seriale o di dubbia attribuzione.
Chiaramente la vicenda ebbe anche degli strascichi giudiziari da parte della Corte dei Conti, che investirono i fautori di quell’acquisto, e cioè l’allora sovrintendente al Polo Museale Fiorentino, Cristina Acidini, e Roberto Cecchi, il sottosegretario al ministero dei Beni culturali che firmò l’accordo, che però alla fine sono stati assolti in quanto ritenutii non colpevoli di danno erariale. La scultura era ancora attribuita a Michelangiolo.
Purtroppo, pero’, oggi l’opera è esposta con un cartellino che recita “Intagliatore fiorentino inizio Cinquecento”, menzionando vagamente “ulteriori e approfonditi studi” che hanno fatto rivedere al ribasso le sue quotazioni e quindi siamo finiti proprio in quell’ipotesi, e cioè che è stato pagato un prezzo spropositato per l’opera di un anonimo legnaiolo di primo Cinquecento, che era stata valutata al massimo 700.000 euro. Chi ha fatto questi studi? Quali studi? Quali approfondimenti scientifici? E perché non sono stati fatti prima? E perché non sono stati pubblicati?
Quello che comunque fu a lungo discusso, e del quale conviene continuare a parlare, è anche l’opportunità di un tale acquisto. Quando un’opera è così controversa (è vero che a favore erano studiosi di peso, ma è altrettanto vero che si erano espressi in maniera totalmente negativa altri studiosi del calibro di Luciano Berti, Margrit Lisner, Paola Barocchi, Francesco Caglioti e Mina Gregori) (senza contare che il Crocifisso poteva contare nella sua breve storia di ben importanti dinieghi all’acquisto, come quello di Luciano Berti per Casa Buonarroti, di Mina Gregori per la Cassa di Risparmio di Firenze e dell’allora ministro della Cultura Giovanna Melandri che disse “non ci vidi chiaro e non comprai quel Cristo”), lo Stato dovrebbe muoversi con i piedi di piombo, e non agire di fretta, evidentemente mosso dal battage pubblicitario che un nome come quello di Michelangelo muove. E soprattutto si dovrebbe valutare ancora meglio se è lecito e opportuno pagare così tanti soldi un’opera di assoluta incertezza in un panorama nel quale alla salvaguardia e alla protezione del patrimonio culturale vengono dedicate così poche risorse.
Ma se davvero il Crocifisso non è di Michelangelo, chi potrebbe averlo intagliato? In effetti non mancano le proposte alternative al Divino Maestro, come quella di Margrit Lisner che aveva proposto l’attribuzione al Sansovino, mentre Stella Rudolph proponeva come autore il legnaiuolo fiorentino Leonardo del Tasso con valide argomentazioni, come l’esecuzione di sua mano della cornice del Tondo Doni di Michelangelo e un interessante confronto col San Sebastiano intagliato da Leonardo nella chiesa di Sant’Ambrogio.
Francesco Caglioti invece sottolineava come il piccolo Crocifisso si inserisce in una tradizione di alto artigianato artistico, quello dei legnaioli fiorentini, i cui altissimi livelli qualitativi garantivano a Firenze un vero e proprio primato in questo campo.
In conclusione, un gran pasticcio di cui non sentivamo il bisogno. Ma la domanda da un milione di dollari è questa: questi esperti ed i loro metodi rimangono credibili? Forse per questo della notizia del declassamento del Crocifisso, avvenuto durante il Covid, non ne ha dato notizia nessuno.
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