La tecnologie disponibili possono determinare la cronologia di manufatti, l’età di bronzi e ceramiche, le qualità di pigmenti su affreschi e quadri, e aiutano a definire i valori materiali e scientifici circa l’autenticità di un’opera. Tuttavia, secondo Fabrizio Magani, soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, è «fondamentale coltivare l’occhio, tornare alla disciplina classica che riguarda gli storici dell’arte e gli storici dell’archeologia: saper immagazzinare e produrre relazioni nel campo visivo delle immagini, che rappresentano l’archivio mentale di ognuno di noi, e che attraverso l’occhio si riescono a riconoscere». E cita il caso, l’insidia e la responsabilità dei degli Uffici Esportazioni dov’è pane quotidiano il passaggio di opere d’arte false: «se non si è bravi, si possono rilasciare delle perizie di Stato gratuite». Vale per i funzionari ministeriali ma la competenza, di distinguere l’originale da una contraffazione, dovrebbe far parte della cassetta degli attrezzi dell’intera filiera di soggetti e professionalità, istituzionali e non, che maneggiano, scambiano e vendono, ricevono in dono, collezionano e conservano arte.
Lavorare e cambiare quel condizionale è la sfida e l’obiettivo della tutela, già a partire dai banchi accademici, come ha compreso l’Università degli Studi di Padova che, nell’ambito del corso di Laurea magistrale in Scienze Archeologiche, ha attivato da qualche anno un Laboratorio di Autenticazione dei Beni Archeologici e un insegnamento in lingua inglese in Authentication: Concepts and Methods, coordinati dalla professoressa Monica Salvadori. E non a caso questo succede proprio in Veneto: il primo processo sulla falsificazione si tenne nel XVI secolo a Venezia e riguardava una copia di Albrecht Dürer. L’Archivio storico veneziano ne conserva gli atti e «la pena – ha ricordato Luca Zamparo – fu molto più severa di quelle attuali».
Rispetto al tema della legalità, Ivana De Toni, in qualità di rappresentante del Coordinamento del Triveneto di ICOM Italia, ha ammesso come, tra colleghe e colleghi, abbia riscontrato qualche difficoltà nel far riconoscere la portata dell’argomento e una certa “distrazione”: «si guarda altrove e i musei hanno forse priorità diverse, non certo perché non operino nella legalità, anzi. Si lavora nel rispetto della legge, e questo “dovere nel fare” dei musei è così intrinseco da costituirne i principi decisionali operativi, che non merita discussione. Ma noi sappiamo che la cultura della legalità non è solo l’adesione alla norma e alla legge, ma è anche interiorizzazione di quanto questo principio voglia portare nelle pratiche una possibilità di dialogo e soprattutto di non esclusione delle istituzioni più deboli». Si deve guardare avanti, anziché altrove, dunque, e forse non è un caso che «i casi – mi si perdoni il pasticcio di parole – più interessanti e le esperienze più numerose si collochino nelle Regioni del Sud Italia e all’interno delle discipline archeologiche». Se «i musei sono spazi di educazione alla cittadinanza attiva e alla legalità», è necessario valorizzare le buone pratiche e armonizzare la sensibilità anche all’interno delle istituzioni stesse. Da Sud a Nord e viceversa. A partire dalle esperienze virtuose (e talvolta eroiche) presentate, come quelle del Parco Archeologico di Capo Colonna, del Parco Archeologico di Sibari e del Museo Nazionale di Matera, o come quella del Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte in seno all’Università di Padova.
Alla luce dello scandalo che ha travolto il British Museum, «i musei sono davvero dei luoghi sicuri? E sono più sicure le collezioni esposte al pubblico o le opere conservate nei depositi? E quali sono le azioni e gli strumenti che da adottare per aumentare la sicurezza?», si è chiesta Babet Trevisan di ICOM Italia. Il “caso British” ha inoltre riacceso il dibattito sulle restituzioni delle opere d’arte ai Paesi di origine, il cui «quadro normativo è piuttosto scarno: dobbiamo fare riferimento alla Convenzione UNESCO del 1970 e alla Convenzione UNIDROIT del 1995. Purtroppo, entrambe non sono retroattive perciò, tutto quello che è avvenuto prima, dev’essere oggetto di negoziazioni bilaterali» ed è soggetto – ancora una volta – alla sensibilità e alla disponibilità dei singoli Paesi. Finora si è mediato, di volta in volta, su oggetti isolati o piccoli nuclei, «le trattative non hanno mai previsto una restituzione massiccia di opere d’arte, opere perlopiù sottratte come bottino di guerra o depredate dai Paesi delle ex colonie». ICOM International affronta il tema negli articoli 6.2 e 6.3 del Codice etico, lo strumento di «autoregolazione professionale che fissa gli standard minimi di condotta, performance e prestazione dei musei ma anche dei singoli professionisti». È stato adottato nell’assemblea generale del 1986 e successivamente aggiornato a Barcellona nel 2001 e a Seul nel 2008. Un ulteriore adeguamento è atteso a Dubai nel 2025. Il Codice interviene anche su altre questioni come il traffico illecito di beni culturali: «è fondamentale per i musei, prima di acquistare oggetti d’arte o di accettare una donazione, un lascito o uno scambio, accertare che le opere siano state movimentate legalmente e non siano oggetto di traffico illegale». Questo vale anche per i singoli professionisti e tutti coloro che lavorano nei musei che «non devono mai contribuire, né direttamente né indirettamente, al traffico e al commercio illecito di beni culturali». ICOM si schiera anche su sicurezza e protezione museale: adeguate misure di sicurezza, contro il furto e contro i danni, devono essere garantite nelle aree espositive e di lavoro ma anche nei depositi. I musei devono essere tutelati in caso di calamità naturali o conflitti armati e, in tal senso, ICOM stila delle Red Lists di oggetti altamente a rischio di furto o di danno. Ad oggi gli elenchi sono 20, hanno individuato 53 tipologie di oggetti, coprono più di 50 Paesi nel mondo e l’ultimo è dedicato al patrimonio ucraino. Nel 2021 il Louvre ha esposto una serie di reperti archeologici sequestrati dalle autorità francesi tra il 2012 e il 2016, «questa è una iniziativa interessante, che può essere considerata una buona pratica, perché dà voce e forza a queste Red Lists e nel contempo riesce a sensibilizzare un pubblico molto più ampio». Nel 2013 inoltre «ICOM ha istituito un Osservatorio internazionale sul traffico illecito di beni culturali, nello spirito della Convenzione UNESCO. Si tratta di una piattaforma di cooperazione internazionale i cui obiettivi sono raccogliere i dati, monitorare costantemente le situazioni, fare ricerca e proporre le buone pratiche». Infine «il Comitato Internazionale dello Scudo Blu, Blue Schield, è stato creato nel 1996 dalle quattro associazioni di categoria – ICA per gli archivi, ICOM per i musei, IFRA per le biblioteche e ICOMOS per i monumenti e i siti -, è una sorta di Croce Rossa dei beni culturali ed è strutturato per lavorare sulla prevenzione e sulla gestione delle emergenze. A settembre di quest’anno è stato costituito il Comitato Blue Schield italiano».
Anna Cipparrone, coordinatrice del Gruppo di lavoro Musei, legalità e territorio di ICOM Italia, ha posto sul tavolo una suggestione attorno ad un piccolo episodio fortuito e casuale di cui è stata testimone: una ragazza chiedeva alla madre se è un atto di vandalismo scrivere il proprio nome o quello del proprio fidanzato su un ponte antico di Venezia. Dal genitore non è arrivata alcuna risposta. Allora – ha incalzato Cipparrone – «noi parliamo di legalità nelle istituzioni, ma i cittadini, quando vanno a lavorare, quando vanno a scuola, quando vanno al supermercato, di questo tema cosa sanno? Cosa fanno per contrastare, denunciare, evitare i danni contro il patrimonio? Conoscono questi reati, anche quelli “più piccoli”? Evidentemente non sempre» e questo necessita di un rafforzamento di consapevolezza «per conoscere e riconoscere (e rispettare) la nostra radice, la nostra identità, e costruire il futuro».
La Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, presieduta da Massimo Osanna, nel 2022 si è fatta promotrice di due iniziative rilevanti, sia sul piano divulgativo sia su quello simbolico: il podcast Paladine e l’istituzione a Roma del Museo dell’Arte Salvata. «Se parliamo di legalità – ha sottolineato Osanna – è necessario fare rete tra istituzioni: il Ministero e tutte le sue articolazioni periferiche non possono prescindere dai rapporti strettissimi con tutte le istituzioni pubbliche che operano sul territorio e a presidio della legalità. È nella consapevolezza dell’importanza di questo rapporto che è nato il Museo dell’Arte Salvata, il punto di arrivo della decennale sinergia tra MiC e Arma dei Carabinieri che, proprio sulla fruizione pubblica dei beni recuperati, aveva delle pecche. Non c’era un approccio sistematico: spesso gli oggetti venivano consegnati alle Soprintendenze e dipendeva – neanche a dirlo – dalla sensibilità del dirigente o del funzionario la loro esibizione». Il Museo dell’Arte Salvata, «concepito come il luogo di presentazione», accoglie una prima mostra poi, secondo la valutazione del tavolo istituito presso la Direzione generale Musei, i beni vengono assegnati ai musei più idonei e lì subito esposti.
Non si può parlare di legalità senza menzionare l’impegno del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, che nella fattispecie trova applicazione nelle attività di contrasto alla contraffazione di opere d’arte, «un crimine che va combattuto». Secondo il Ten. Col. Giuseppe Marseglia, a capo del Gruppo TPC di Monza, «il danno, che questo fenomeno produce al nostro patrimonio culturale, è prevalentemente un danno culturale perché falsifica un elemento di informazione scientifica, che è alla base della nostra ricerca. Nel mandato del TPC la ricerca scientifica è al primo posto, poi ci sono altri ambiti come la conservazione, la fruizione, la tutela, che fanno parte della strategia globale». Marseglia ha sottolineato come l’Italia sia un modello operativo, una eccellenza, perché «dal 1969 abbiamo creato una unità operativa multidisciplinare dedicata alla tutela del patrimonio culturale che vede coinvolti più soggetti: i Carabinieri, ma anche tutti gli uffici periferici del Ministero della Cultura, gli storici dell’arte, gli archeologi e le università». Competenze ed esperienze maturate, nel tempo e sul campo, sono richieste e impiegate all’estero per l’addestramento di altre forze di polizia: «evidentemente siamo considerati i migliori». Dalla prospettiva privilegiata dei Carabinieri si osserva come ci sia una minore richiesta di reperti archeologici e che la falsificazione si sia diffusa nell’arte contemporanea, dove la problematica principale è l’attribuzione: «Il falsario è un singolo soggetto, che di per sé non è rilevante, ma è all’interno di una organizzazione più ampia e complessa. Il falsario è il soggetto attivo nella creazione del falso, ma ci dev’essere una cornice di riferimento, composta da uno o più intermediari, nazionali o internazionali, che collocano l’opera d’arte o il reperto archeologico falso sul mercato clandestino e poi, a questi, si aggiungono – purtroppo – anche funzionari dello Stato che, più o meno colpevolmente, agevolano le operazioni di autenticazione. Quando poi non sono addirittura degli storici dell’arte o critici d’arte che, approfittando della loro ampia autonomia di valutazione discrezionale, rilasciano dei certificati di autenticità. Se sono, più o meno, onesti lo appuriamo noi con le nostre attività d’indagine, però il fenomeno esiste e va preso in considerazione».
C’è ancora molto su cui lavorare.
Dopo la laurea a Trento in Scienze dei Beni Culturali, in ambito storico-artistico, ho “deragliato” conseguendo a Milano un Perfezionamento in Scenari internazionali della criminalità organizzata, un Master in Analisi, Prevenzione e Contrasto della criminalità organizzata e della corruzione a Pisa e un Perfezionamento in Arte e diritto di nuovo a Milano. Ho frequentato un Master in scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Colleziono e recensisco libri, organizzo scampagnate e viaggi a caccia di bellezza e incuria.