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Le vie dell’illegalità sono infinite: storia e misfatti di Jingdezhen, la fornace imperiale

(Tempo di lettura: 10 minuti)

Per i professionisti nel campo dell’arte cinese, Jingdezhen è sinonimo indiscusso di eccellenza e maestria ceramica, di raffinata eleganza e buongusto. Designata anche dall’UNESCO come “Capitale della porcellana” e annoverata per tale motivo dal dicembre 2014 all’interno del Creative City Network, la sua fornace è passata alla Storia come una tra le più prolifiche e di maggior spessore, in termini di qualità manifatturiera, di tutto l’arco della stagione imperiale cinese. Questo anche grazie ad una fortunosa caratteristica geologica del terreno su cui sorge, ricco di caolino, un’argilla bianca pura formata dalla decomposizione dei silicati di alluminio, uno dei due componenti fondamentali per la realizzazione della porcellana (l’altro è la petuntse o bai dunzi, una pietra granitica di colore bianco-grigiastro). Nella fattispecie, il caolino presente in questa zona della provincia dello Jiangxi, si riscontra essere tra i più puri ritrovabili in Cina. Per centinaia di anni, dunque, la porcellana di Jingdezhen ha viaggiato via terra e via mare lungo tutta la cosiddetta Via della Seta, fungendo da prediletto oggetto di scambio culturale e commerciale tra l’Asia e l’Europa. Ciò che forse pochi conoscono, invece, è la sua storia in termini di legalità e illeciti, che risulta possedere contorni piuttosto sfumati e confini spesso labili.

Come si attesta dai siti ufficiali governativi della Repubblica Popolare Cinese, le prime notizie su questa municipalità risalgono al Periodo delle Primavere e Autunni (770 – 454 a.C.), quando essa faceva parte dell’allora Regno di Chu. Il suo nome all’interno dei registri amministrativi non è sempre stato quello con cui la conosciamo a tutt’oggi, ma è mutato nel tempo sino ad essere battezzata come Jingdezhen 景德镇 («cittadina del (periodo della) Fulgida Virtù») dall’imperatore Zhenzong (r. 997 – 1022) della dinastia Song (960 – 1279) che ne trasse il nome da quello dal suo titolo di regno, Jingde, per l’appunto (1004 – 1007). La maestria dei ceramisti locali raggiunse però l’apice molto prima di questa data: era già rinomata durante la dinastia Jin (266 – 420), e questo tipo di porcellana venduta in tutto l’Impero. Da quel momento in poi, vari sono stati gli imperatori a commissionare occasionalmente oggetti d’ogni ordine e genere, ma fu solo l’imperatore Zhenzong a richiedere che la fornace iniziasse a produrre gli oggetti d’uso quotidiano della corte con l’apposizione del sigillo ufficiale (Jingde nian zhi 景德年制). Tuttavia, come specificato nel 2004 da Rose Kerr e Nigel Wood, due dei massimi esperti di arte ceramica cinese, nel volume V di “Science and Civilization in China”, nel X secolo, appena i ceramisti di Jingdezhen furono abbastanza abili da creare fornaci in grado di sostenere cotture ad alta temperatura (la porcellana cuoce tra i 1300 e i 1400 °C), accanto alla produzione consueta si affiancò quella di vasellame smaltato di colore verde somigliante al grès porcellanato delle fornaci Yue dello Zhejiang e di manufatti che imitavano la candida porcellana delle fornaci Ding della Cina settentrionale. Si pensa addirittura che la porcellana blu ghiaccio qingbai (o yingqing), tipica di questo periodo e della provincia in cui è situata Jingdezhen, sia nata per emulare le ceramiche del nord e del sud, come quelle prodotte a Yaozhou nello Shaanxi e a Cizhou nello Hebei. Non bisogna dimenticare, inoltre, che proprio durante la dinastia Song nacque in Cina il collezionismo d’antiquariato come conseguenza di un rinnovato gusto della classe nobiliare per l’arte e i costumi del proprio passato, cosa che diede adito alla riproduzione di quelli che oggi consideriamo falsi storici, ossia oggetti antichi copie di manufatti di epoche precedenti. 

Durante la dominazione Yuan (1271 – 1368) fu inventata la celeberrima porcellana bianca e blu, ancor oggi emblema dell’arte ceramica cinese in tutto il mondo. Ma è documentato che Jingdezhen producesse anche porcellane a smalti rossi, verdi, gialli, blu, a tre colori (sancai), a guscio d’uovo e altri. Sotto questa dinastia furono anche istituite a Jingdezhen la yu yao chang 御窑厂 (Imperial Porcelain Factory), tutt’ora esistente, e un’agenzia speciale al servizio della famiglia imperiale, il Fuliang ci ju 浮梁瓷局 (Fuliang Porcelain Bureau) forse, come suggeriscono Kerr e Wood, per sorvegliare meglio quello che era già il maggior centro dell’industria ceramica di tutto l’Impero. Già dal IX secolo Jingdezhen esportava grandi quantità di porcellana nel sud-est asiatico, in India e in Asia occidentale e sotto gli Yuan, soprattutto durante il governo di Kublai Khan, il commercio marittimo subì un impulso significativo. L’apporto di altre migliorie all’impasto ceramico ha anche creato buone condizioni per la realizzazione di pezzi di grandi dimensioni. Bisogna pensare che, infatti, molte delle ceramiche che giunsero in Europa dalla Cina a quel tempo servivano a trasportare e proteggere beni considerati più pregevoli come tè e spezie. In questo clima multiculturale e di fervore commerciale, gli artigiani della porcellana di Jingdezhen introdussero nuove forme e iniziarono a dipingere i primi motivi cinesi non tradizionali conosciuti, su porcellane di alta qualità, per i dignitari stranieri. Iniziò così la produzione di porcellana personalizzata per soddisfare le esigenze dei regni dell’Asia occidentale, che comprendeva grandi piatti adornati con motivi islamici. Tutte queste informazioni ci consentono di comprendere quanto già in quell’epoca si stesse ampliando il mercato in quest’ambito, indice che spesso si accompagna all’aumento del tasso dei fenomeni di contraffazione e falsificazione. 

Sempre grazie al prezioso lavoro di Kerr e Wood, sappiamo che il primo ordine imperiale, affinché i lavoratori della porcellana di Jingdezhen imitassero ceramiche di altre fornaci e di altri periodi, risale al XV secolo. L’imperatore Xianzong (r. 1464 – 1487) dei Ming (1368 – 1644), ordinò, infatti, di riprodurre copie esatte di manufatti che loro stessi avevano realizzato durante il periodo Xuande (1426 – 1435) della stessa dinastia. Stacey Pierson del Dipartimento di Archeologia e Storia dell’Arte della School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra, in Blue and White for China: Porcelain Treasures in the Percival David Collection (2004) specifica che su alcune di queste repliche furono incisi i marchi del regno Xuande e non quelli del vero periodo di realizzazione. In un altro paper del 2019, True or False? Defining the Fake in Chinese Porcelain, la stessa sottolinea che «L’uso di tali marchi di regno è un problema ancora oggi. La produzione contemporanea di porcellana in Cina, in particolare a Jingdezhen, è gravemente compromessa dalla contraffazione. Numerosi studi e laboratori producono porcellane imperiali contraffatte e ne manipolano il mercato. Sebbene vi siano produttori contemporanei che realizzano prodotti originali e autentici, la produzione di atelier è inferiore a quella di ceramiche per il mercato di massa. Uno dei motivi per cui il mercato dei falsi ha così tanto successo a Jingdezhen è la manodopera specializzata che può e sa produrre quasi tutto in porcellana utilizzando le tecniche tradizionali».

Tornando al periodo Ming, la dinastia stabilì a Jingdezhen forni ufficiali per le produzioni di Palazzo, incaricati di produrre solo ed esclusivamente “porcellana imperiale”. Secondo Luo Xuezheng, artista e studioso del Jingdezhen Ceramic Institute of Fine Arts, anche le fornaci riservate al commercio si cimentarono nella produzione di manufatti imperiali, probabilmente poiché la produzione per i mercati esteri era stata ridotta per far fronte alla domanda dell’enorme mercato interno, forse già nel 1426 e sicuramente nel corso del XVI secolo. Lo scienziato Song Yingxing nella sua celebre enciclopedia Tiangong kaiwu scrisse: “… diverse prefetture, tutte insieme, non potevano battere Jingdezhen sotto l’aspetto della produzione di porcellana”. I documenti storici riportano addirittura i nomi dei singoli ceramisti che si sono distinti nella copiatura di manufatti dei periodi Yongle (1403 – 1424), Xuande e Chenghua (1465 – 1487) e delle fornaci Ding (attive sino al periodo Yuan) durante la metà e la fine dei Ming. Tuttavia, come riportato da Harrison-Hall (2001), queste repliche presentano iscrizioni sia del periodo in cui sono state realizzate sia del periodo in cui sono state copiate. Se da un lato questa attività di copiatura può costituire un problema nella valutazione degli originali e delle opere contraffatte oggi giorno, dall’altro ci permette di avere traccia di oggetti o testi andati perduti o non ancora scoperti: come elencato nel contributo di Maris Gillette, antropologa sociale presso l’Università di Gothenburg in Svezia, che nel 2003 condusse uno studio etnografico a Jingdezhen poi riportato nel suo articolo del 2010 Copying, Counterfeiting and Capitalism in Contemporary China: Jingdezhen’s Porcelain Industry, i lavoratori della porcellana di Jingdezhen si ispiravano anche ad oggetti in bronzo, in argento della Persia, giada, lacche, vetri a cammeo. Un testo del 1743, scritto dal direttore della manifattura imperiale di Jingdezhen, indica che i decoratori Ming imitavano i disegni delle stoffe in seta e persino i dipinti a inchiostro realizzati dai letterati, forse come tributo all’arte del passato o di altri imperi. Pertanto, benché le copie costituiscano talvolta delle risorse per gli studiosi, talvolta delle insidie di dubbia autenticità, sono giunte sino a noi testimonianze sull’esistenza di un autentico falsario d’antiquariato di Jingdezhen durante i Ming: il suo nome era Zhou Danquan e pare che la sua bravura nella contraffazione fosse tale da essere molto richiesto dai collezionisti dell’epoca. Vasaio, restauratore, commerciante, pittore, daoista e in seguito monaco buddista, Zhou fu attivo durante i periodi Longqing (1567 – 1572) e Wanli (1573 – 1619). L’antiquario britannico Robert Lockhart Hobson riportava nel 1915 che uno dei falsi di Zhou, una riproduzione di un incensiere in ceramica di tipo Ding della dinastia Song, ebbe un tale successo che un importante conoscitore dell’epoca non fu in grado di distinguerlo dall’originale. Mentre Craig Clunas, nel 1991, ci fornisce qualche dettaglio in più sulla vicenda: l’intenditore acquistò comunque la riproduzione in segno di apprezzamento per l’abilità del falsario e suo nipote la vendette in seguito come un originale Song.

Al momento dell’ascesa al trono di un’altra dinastia non cinese, quella dei Mancesi, i Qing (1644 – 1911), il numero delle fornaci presenti a Jingdezhen ammontava a 3000. Seguendo nuovamente l’opinione di Luo Xuezheng, il periodo di massimo splendore di Jingdezhen per le copie di ogni tipo fu il XVIII secolo. Ancora Luo, Pierson, Kerr e Wood e Harrison-Hall confermano che i ceramisti delle epoche Kangxi (1662 – 1722), Yongzheng (1723 – 1735) e Qianlong (1736 – 1796) realizzarono copie dirette di manufatti delle dinastie Song, Yuan e Ming. Inoltre, l’imperatore Shizong, più comunemente conosciuto con il suo titolo di regno, Yongzheng 雍正 (retta/appropriata armonia), istituì quello che Kerr e Wood descrivono come «un vero e proprio laboratorio sperimentale di smalti a Ching-te-chen [Jingdezhen], dove venivano realizzate a mano copie in ceramica molto convincenti di lacche intagliate, bronzi bruniti e pietre rare». Al contempo, le riproduzioni commerciali d’antiquariato potevano essere tanto precise quanto quelle realizzate nella manifattura imperiale, al punto che alcune porcellane commerciali del XVIII secolo non si distinguono dalle ceramiche imperiali. 

Durante quello che dai cinesi viene ancor oggi ricordato come il «secolo dell’umiliazione», il collezionismo straniero registrò un’impennata. In particolare, soprattutto tra il tardo periodo Qing e il primo periodo repubblicano (1912 – 1949), la colonizzazione europea prima e quella giapponese poi, fecero aumentare la richiesta di ceramiche antiche cinesi. La dispersione delle collezioni imperiali, favorita dal saccheggio da parte delle truppe britanniche, francesi e statunitensi del Palazzo d’Estate nel 1860, dalle vendite per conto dell’imperatore e dai furti da parte dei funzionari di Palazzo, ha fornito ai ceramisti di Jingdezhen una gran quantità di materiale da copiare e l’opportunità di vendere oggetti contraffatti che rifilavano come provenienti direttamente dalla collezione dell’imperatore. Alla fine del XX secolo, esperti valutatori collaboravano con i lavoratori della porcellana per creare imitazioni e contraffazioni estremamente accurate. Dai lavori di Luo e Harrison-Hall si legge che negli anni Venti e Trenta, i ceramisti delle fornaci commerciali di Jingdezhen furono incaricati dai commercianti di Shanghai di realizzare oggetti antichi contraffatti di alta qualità, sia repliche sia prodotti in nuovi stili che spacciavano per periodi precedenti. Anche la capitale Pechino costituiva un florido mercato per le contraffazioni di Jingdezhen. Le copie, infatti, non si limitavano alle porcellane dell’antichità: le ceramiche Jurentang e Hongxian del presidente Yuan Shikai venivano copiate ancora cinque anni dopo la sua morte. Il già citato antiquario Robert Lockhart Hobson insieme al collega Archibald Dooley Brankston, entrambi personalità eminenti del British Museum, raccontarono di aver assistito personalmente a contraffazioni a Jingdezhen all’inizio del XX secolo. Prima del 1915, Hobson vide lavoratori della porcellana che realizzavano riproduzioni antiche, riparavano e/o ridecoravano vecchi vasi e li vendevano come pezzi d’antiquariato originali, rimuovevano le date di regno corrette di riproduzioni tarde di vasi Song e Yuan (i falsi storici già citati) e le sostituivano con altre spurie. Durante la sua visita nel 1937, Brankston vide la gente del posto usare i cocci della manifattura imperiale per fare riproduzioni. A detta di Hobson, le migliori copie di Jingdezhen dell’inizio del XX secolo erano di oggetti smaltati a sovrasmalto e monocromi Kangxi; mentre le riproduzioni Ming erano «generiche» e inferiori rispetto alle repliche giapponesi contemporanee. 

Con l’avvento dell’epoca maoista dal 1949, anche l’attività di contraffazione subì una battuta d’arresto. Alla fine degli anni Cinquanta, il Partito nazionalizzò l’industria ceramica così da utilizzare le vecchie fornaci per la produzione di stoviglie, oggetti per la casa e strumenti ad uso elettrico e ingegneristico. Durante la Rivoluzione Culturale (1966 – 1976) riprodurre repliche di oggetti antichi venne dichiarato illegale. Alcuni modelli tradizionali di decorazione e di statue votive erano considerati feudali, capitalisti, revisionisti e controrivoluzionari. Tuttavia, stando al resoconto etnografico di Gillette, la produzione artigianale su piccola scala non è mai cessata del tutto e alcune fabbriche hanno portato a termine commissioni governative per riproduzioni antiche. 

La produzione di repliche riemerse negli anni Ottanta su iniziativa di alcuni residenti. Lo stesso Luo Xuezheng ha dichiarato di aver fondato una produzione privata di antichità a Jingdezhen nel 1984. Quando un esportatore di Pechino convinse Luo dell’esistenza di un mercato, Luo cercò, senza riuscirci, di convincere la sua unità di lavoro a seguirlo nell’impresa. Così, insieme ad altre quattro o cinque persone, aprì una fabbrica privata per produrre repliche antiche da esportare. Luo e i suoi soci studiarono le testimonianze archeologiche e utilizzarono vecchie tecnologie come le ruote da vasaio per imitare la porcellana tradizionale, assunsero ceramisti che avevano imparato a fabbricare vasellame e a dipingere prima degli anni Cinquanta. Quando, nel 1985, il governo decretò che i dipendenti statali non potevano lavorare nelle aziende dopo l’orario di lavoro, Luo e i suoi soci furono costretti a vendere la fabbrica. La maggior parte dei produttori odierni di repliche è entrata nell’industria ceramica nel momento in cui il governo ha chiuso tutte le imprese statali e collettive di produzione della porcellana, a metà degli anni Novanta. I nuovi immigrati dalle campagne, i lavoratori delle fabbriche statali e collettive che avevano perso il lavoro e gli abitanti del luogo la cui cattiva nomea aveva impedito loro di ottenere un impiego regolare nelle unità di lavoro, si sono concentrati sulla produzione di repliche antiche. 

Oggi, oltre agli imprenditori privati, esistono istituzioni locali come il Light Industry Ceramics Research Bureau e il Jingdezhen Ceramics Institute, che godono di un certo grado di sostegno statale e sono impegnate nella produzione di ceramiche d’arte, gran parte delle quali contemporanee. Il Bureau riproduce, tuttavia, anche copie di manufatti realizzati per il governo negli anni Sessanta e Settanta e alcune porcellane tardo-imperiali. Come documenta Gillette, presso il Jingdezhen Ceramics Institute, insegnanti e studenti si dedicano alla produzione di nuove opere, ma realizzano anche una piccola quantità di repliche antiche, benché ci tengano a dichiarare che l’Istituto sia molto più interessato alla prime che alle seconde. Sempre secondo lo studio etnografico di Gillette, i professori dell’Istituto di ceramica non hanno una profonda conoscenza della ceramica tradizionale e non possiedono le competenze necessarie per realizzare riproduzioni di alta qualità, quanto invece i piccoli imprenditori privati, estremamente specializzati in stili, tecniche e periodi specifici. La maggior parte dei ceramisti lavora su ordinazione per clienti di lunga data, per telefono o di persona, ma, occasionalmente, anche istituzioni come i musei commissionano dei pezzi. Nel 2005, durante i tre anni studio sul campo di Gillette, il Palace Museum di Pechino, il China Art Museum di Shanghai e il Nanyang Museum hanno ordinato copie di oggetti storici alla fabbrica di Jiayang e da altri produttori locali. Alcuni di questi sono stati contrassegnati con il timbro del destinatario istituzionale, mentre altri hanno ricevuto l’apposizione del sigillo d’epoca.

Il problema della contraffazione, come abbiamo appurato, è talmente vasto che, scrive Pierson, negli ultimi vent’anni, gli artisti contemporanei hanno iniziato a utilizzare i lavoratori della porcellana di Jingdezhen e delle zone limitrofe, come il Fujian, per produrre installazioni artistiche in porcellana e, in alcuni casi, oggetti falsi palesemente tali in modo da concettualizzare e quindi rendere evidente il problema. Ne sono un esempio le lattine di soda schiacciate, bianche e blu di Lei Xue (“Drinking tea”, 2001-2003) e il naufragio di Cai Guoqiang, pieno di statuette di porcellana Dehua (“Reflection”, 2004). 

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