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La scelta di organizzare un allestimento così importante è legata all’impatto che l’artista del V secolo a.C. ebbe nella Roma di età imperiale e alla grande eredità che ha lasciato nella città anche nei secoli successivi al crollo del mondo romano, con la sua riscoperta grazie a Petrarca proprio nella Capitale. All’interno dell’esposizione sono presenti pezzi notevolissimi provenienti dai più grandi musei del mondo, come il Museo dell’Acropoli di Atene, il Metropolitan Museum di New York, la NY Carlsberg Glyptothek di Copenaghen, la Staatsbibliothek zu Berlin, la Biblioteca Nazionale Francese, il Kunsthinstorisches Museum di Vienna, solo per citarne alcuni. Un progetto ambizioso che ha visto luce grazie anche alla collaborazione di Bulgari, nuovamente in veste di mecenate. La mostra si sviluppa in sei sezioni tematiche che permettono di seguire l’evoluzione dell’artista attraverso le copie di epoca romana delle sue opere più famose corredate da passi di autori antichi, come Luciano di Samosata, Pausania o Plinio il Vecchio, che integrano le testimonianze archeologiche.

Nella prima sezione, Il ritratto di Fidia, il visitatore è accolto da un’opera in marmo e gesso creata da Rodin nel 1896, paragonato proprio al grande ateniese, e al di sopra di un busto femminile viene stilizzato un tempio simboleggiante il Partenone. Di fronte è posto un pannello cronologico con un focus sui principali avvenimenti del V secolo a.C. (tirannide di Pisistrato, Guerre Persiane, Temistocle, Cimone, il lungo periodo del governo di Pericle, Guerra del Peloponneso) messi a confronto con le date che si conoscono relative a Fidia (la sua nascita, la dedica dell’Athena Lemnia, la direzione dei lavori al Partenone, la dedica della Parthenos, il concorso di Efeso, l’accusa di empietà e i lavori ad Olimpia) in modo da calare l’autore nel suo contesto storico.

In questa sezione sono esposte 3 opere che permettono di ipotizzare quale aspetto fisico potesse aver avuto Fidia: un ritratto marmoreo in prestito da Copenaghen, una statuetta bronzea di artigiano dal Metropolitan Museum di New York ed un’altra proveniente dall’Archaeological Museum of Ioannina, oggetti che rendono l’idea dell’artigiano con tratti comuni. Tuttavia, il reperto archeologico che merita la massima attenzione è una brocchetta a vernice nera databile al V secolo a.C. rinvenuta durante gli scavi della cosiddetta Officina di Fidia ad Olimpia. Dallo stesso contesto erano emersi molti altri materiali legati a fasi di lavorazione del periodo in cui l’artista era lì per la realizzazione dell’imponente statua di culto crisoelefantina per l’Olympeion. Sul fondo di questa brocchetta è incisa a caratteri greci la frase “Sono di Fidia”, elemento che testimonierebbe l’appartenenza all’artista e che quella sia sua la firma.

Brocchetta a Vernice Nera con firma di Fidia (Foto: Manuela Ferrari).

Il percorso si snoda nella seconda sezione dedicata a L’Età di Fidia, con le erme di Pericle, Temistocle e Aspasia, dominata dalle tre grandi opere da lui realizzate in bronzo e note da numerose copie romane di età imperiale. L’Apollo Parnopios (colui che allontana le cavallette), è ritenuto la prima commissione pubblica avuta da Fidia ad Atene per celebrare la liberazione della città dalle cavallette in risposta alle preghiere ateniesi al dio. Di questa statua è esposta la copia della collezione Albani dei Musei Capitolini e tre teste del tipo Kassel, dalla copia tedesca ritenuta la più vicina all’originale, provenienti dalla collezione del Museo Barracco, dalla Centrale Montemartini e dal Museo di Palazzo Vecchio a Firenze.

Apollo Parnopios dalla Collezione Albani (Foto: Manuela Ferrari).

Un’ampia sezione è dedicata subito dopo al rapporto tra Fidia e la rappresentazione della dea Athena, con due delle tre famose statue da lui realizzate, sempre in bronzo, e note da copie marmoree di età romana. Si tratta dell’Athena Promachos (la dea combattente in prima linea) che Fidia realizza per l’acropoli di Atene a ricordo della vittoria contro i Persiani e dell’Athena Lemnia, a lui commissionata da cittadini ateniesi trasferitisi nell’isola di Lemno e che volevano omaggiare la loro dea con una scultura posta ugualmente sull’acropoli. Queste due grandi opere aiutano a comprendere non solo la grandezza e la maestria di Fidia, ma anche la sua importanza nell’età dominata dal governo di Pericle, al quale l’artista era legato da profonda amicizia. La Promachos aveva un’iconografia già assodata che mostrava la dea nell’atto di avanzare e con il braccio destro sollevato pronta a scagliare la lancia, come si può osservare dalla statuetta bronzea proveniente dall’acropoli di Atene, databile attorno al 500 a.C., e dalla rappresentazione sul collo di un’oinochoe dalle pendici dell’acropoli e databile attorno al 410 a.C. esposte all’ingresso della sala. Fidia invece modifica la sua posizione, ponendo il braccio destro non più verso l’alto ma lungo il fianco e la lancia poggiata a terra: questo perché la sua statua aveva un’altezza di circa 8 m ed era posta sulla sommità dell’acropoli, ben visibile da chi arrivava per mare svettando oltre i propilei, e la posizione canonica avrebbe creato dei problemi di staticità. La statua originale è andata perduta probabilmente attorno la XIII secolo ma una moneta emessa nel III secolo d.C. (in prestito dal British Museum) permette di avere una veduta dell’acropoli in quel periodo, con il Partenone e la Promachos ben riconoscibili nonostante le ridotte dimensioni dell’oggetto. La realizzazione di questa statua ebbe un costo elevatissimo, testimoniato dai frammenti, rinvenuti in parte sull’acropoli e in parte dalle pendici e dall’agorà, dei rendiconti dei supervisori dei lavori. Questi erano incisi su lastre di marmo bianco e divisi in colonne nelle quali erano riportate le singole cifre con accanto la specifica di ciò per cui erano state usate.

Al centro della sala troneggia la ricostruzione in gesso bronzato dell’Athena Lemnia da Dresda, realizzata tra il 1910 e il 1915, quando si riuscì, attraverso studi approfonditi della testa Palagi e del torso di Dresda, a ricostruire quale fosse l’iconografia della statua commissionata a Fidia dai cleruchi ateniensi stabilitisi a Lemno. La dea è stante, il volto rivolto verso il braccio destro con il quale tiene l’elmo e con la mano sinistra chiusa attorno alla lancia poggiata a terra. È una dea pacifica ma allo stesso tempo fiera e possente che mostra tutta la sua grandezza: era ritenuta da Luciano, autore del II secolo d.C., non solo la più bella ma anche quella più degna di ammirazione tra le opere fidiache.

A supportare la ricostruzione sono esposte due teste appartenenti alla Lemnia: la prima, scelta come immagine simbolo della mostra, è la Testa Palagi in prestito dal Museo Civico Archeologico di Bologna e appartenente alla collezione privata dell’architetto Palagi, donata alla sua morte nel 1870 al Museo. È realizzata in marmo pentelico, databile tra il I ed il II secolo d.C., ed è ritenuta la copia più vicina all’originale che si sia conservata.

Testa Palagi (Foto: Manuela Ferrari).

Accanto è esposto il torso dalla Centrale Montemartini, databile agli inizi del II secolo d.C. e riconoscibile come copia della Lemnia per l’egida, la pelle di capra usata come mantella in guerra dalla dea e caratterizzata da una testa di Medusa al centro, posta in diagonale sul petto. In questo caso però l’egida è in posizione opposta rispetto alla copia ricostruita di Dresda.

Le due Athena introducono alla sezione Il Partenone e l’Athena Parthenos dedicata al Partenone, l’edificio legato indissolubilmente alla fama di Fidia, essendo lui stato scelto da Pericle per sovrintendere e gestire tutte le operazioni relative alla costruzione del grandioso tempio e per ideare il grande e unico nel suo genere apparato decorativo (metope, fregio e frontoni). Si dà ampio spazio in questa prima parte della sezione alle sue trasformazioni nel corso dei secoli (chiesa, moschea) e ai danni subiti a partire dall’esplosione del 1687, con testimonianze importanti che permettono di seguirne la storia (il Codice Hamilton, il libretto a stampa dello Spon e del Wheler, le vedute del Fanelli). Degno di nota è un acquerello realizzato nel 1801 da Sir W. Gell, che faceva parte dell’ambasceria inglese guidata da Lord Elgin e in quest’opera non solo dà testimonianza dello stato effettivo di conservazione del Partenone ai suoi tempi, ma soprattutto immortala dei personaggi che stanno dialogando davanti a parti delle decorazioni originali del tempio che verranno poi portate vie.

The removal of the sculptures from the pediments of the Parthenon by Elgin, Sir W. Gell (Foto: Manuela Ferrari).

Nella grande sala successiva sono stati ricreati, in scala ridotta, i propilei che portano il visitatore all’interno della ricostruzione dell’acropoli, con un grande plastico del Partenone sulla destra e uno schermo sulla sinistra che permette di approfondire alcuni aspetti del grande monumento. Qui sono esposte quattro piccole porzioni del fregio originale della cella del tempio con la processione delle Grandi Panatenee: due in prestito dal Museo dell’Acropoli di Atene e due, ugualmente originali, dal Kunsthistorisches Museum di Vienna. Legato a questi reperti è un pannello dove si tratta brevemente il problema della diffusione dei frammenti originali al di fuori di Atene e della loro restituzione.

La sala successiva, dedicata all’Athena Parthenos, accoglie dei reperti che riproducono alcune parti della grandiosa statua crisoelefantina realizzata da Fidia per l’interno del tempio tra il 438 ed il 437 a.C. Incrociando i dati archeologici con le fonti antiche si deduce che l’opera aveva un’altezza di circa 12 m, era realizzata in oro e avorio e il suo costo sembra avesse superato quello del Partenone stesso. Stando ai rendiconti (dei quali è esposto un frammento) l’oro utilizzato era pari circa a 44 talenti, ossia più o meno 1000 kg, rendendo la statua stessa uno strumento per tesaurizzare le ricchezze della città ma, allo stesso tempo, una soluzione per averlo a disposizione in caso di necessità. Per l’avorio, usato per le parti nude, il fornitore fu la Libia, dove venne acquistato in grande quantità.

Athena, sulla base delle descrizioni di autori antichi, come Pausania, e sulle copie di diverse dimensioni giunte fino a noi, era rappresentata stante, con un lungo peplo dorato che le avvolgeva il corpo, una cintura alla vita e l’immancabile egida sulle spalle. Nella mano destra la dea teneva una nike alata, sempre in oro. Il braccio sinistro era invece lungo il fianco e con la mano teneva il grandioso scudo riccamente ornato: nella parte esterna si ritrova a rilievo il tema dell’Amazzonomachia già presente nelle metope del lato Ovest del Partenone; nella parte interna era invece riprodotta in pittura la Gigantomachia, anch’essa nelle metope del tempio ma sul lato Est.

Sono esposti tre frammenti che riproducono in dimensioni inferiori lo scudo. Il reperto più grande è lo “scudo Stangford” del III secolo d.C., in prestito dal British Museum, sul quale è il volto della gorgone al centro e intorno scene di lotta tra amazzoni e uomini. Alcuni riconoscono nel personaggio posto subito al di sotto della gorgone e nell’atto di scagliare una pietra il ritratto di Fidia stesso: basandosi su testimonianze di epoche successive all’età periclea si riteneva che l’artista, non avendo potuto firmare la sua grande creazione, avesse deciso di rappresentare sé stesso sullo scudo, vanità che lo avrebbe poi portato all’accusa di empietà della quale fu vittima intorno al 432 a.C.

Scudo Stangford (Foto: Manuela Ferrari).

La parte successiva della mostra è dedicata a Fidia fuori da Atene, partendo dalla sua partecipazione al concorso di Efeso. Stando a un passo di Plinio il Vecchio, nel 435 a.C. Fidia, Policleto, Kresilas, Kidon e Phradmon parteciparono a un concorso nella città di Efeso per realizzare la statua bronzea di un’amazzone ferita. A Efeso le amazzoni erano considerate delle eroine legate alla dea Artemide, a differenza di Atene dove erano ritenute nemiche e associate, nelle decorazioni del Partenone, ai Persiani invasori poi sconfitti. A opere ultimate venne loro chiesto di votare la migliore ma ognuno scelse la propria statua non decretando alcun vincitore. Fu allora nuovamente chiesto di votare escludendo le loro e l’esito fu che Policleto ottenne la vittoria a discapito di Fidia. Tutte le statue vennero poi esposte ugualmente nel santuario di Artemide.

Al centro della sala è quindi stata posta la copia della statua policletea vincitrice, proveniente dalla collezione capitolina. È il tipo detto Sosikles per la firma dell’artista presente sull’opera stessa. L’amazzone è stante, con il braccio destro sollevato a mostrare la ferita subito sopra il seno destro. Accanto a questa è esposta la copia dell’Amazzone Mattei, con la ferita sulla coscia destra, che dovrebbe rappresentare la statua creata da Fidia. Anche questa opera venne ampiamente riprodotta nei secoli successivi, alimentando ulteriormente la fama del grande artista ateniese.

Amazzone Mattei (Foto: Manuela Ferrari).

Altra città dove Fidia ebbe modo di dimostrare la sua abilità fu Olimpia, dove gli venne commissionata la realizzazione della monumentale statua di culto per il tempio di Zeus. Anche in questo caso l’artista decise di creare un’opera crisoelefantina, e si fece costruire un’officina delle stesse misure della cella del tempio, in modo da poter avere sempre sotto controllo le proporzioni e l’effetto finale. Attorno all’officina vi erano una serie di ambienti usati come laboratori per realizzare i singoli elementi che avrebbero composto l’opera; proprio dallo scavo di questi è emersa la coppetta con la firma di Fidia esposta all’inizio della mostra. Pausania è fonte fondamentale per ricostruirne l’aspetto anche di questa statua: alta circa 13 m, rappresentata con una nike nella mano destra e lo scettro sormontato da un’aquila nella sinistra, seduta su un grandioso trono tutto istoriato. Al trono appartengo due riproduzioni decorative esposte: una in gesso con elementi in basalto originali raffigurante la sfinge di Tebe che affonda i suoi artigli nel petto di un giovane e un rilievo con il mito dei Niobidi; nella ricostruzione del trono la sfinge doveva trovarsi sul bracciolo e il rilievo subito sotto.

Lasciata la sala di Olimpia si attraversa un corridoio dedicato a L’eredità di Fidia con l’esposizione di alcuni acroliti, come l’Apollo da Cirò Marina prestato dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, statue con le estremità marmoree e la parte centrale con supporti lignei o metallici, che ebbero grande successo grazie alle opere crisoelefantine dell’artista ateniese.

La mostra si conclude con la sezione Opus Phidiae: Fidia oltre la fine del mondo antico. Qui si ritrova il personaggio di Fidia a seguito della sua riscoperta, dopo secoli di oblio successivi alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, grazie a Francesco Petrarca, che identificò nell’artista ateniese l’autore di una delle statue dei Dioscuri al Quirinale la cui firma, opus Phidiae, era nel basamento.

Antonio Canova sedente nell’atto di abbracciare l’erma di Fidia, G. Ceccarini (Foto: Manuela Ferrari).

L’identificazione venne ben presto smentita, ma questo permise comunque di riportare in auge non solo Fidia ma anche tutta la sua produzione: nell’Ottocento tornò a essere il grande artista da imitare e da seguire e, grazie anche all’arrivo a Londra delle decorazioni originali del Partenone, il suo mito raggiunse il culmine. Due scultori si ispirarono a lui, tanto da meritarsi il soprannome di Fidia italiano e Fidia danese, ossia Canova e Thordvalsen. E la statua rappresentante Canova, in prestito dal Palazzo Comunale di Frascati, nella posizione dello Zeus fidiaco, che abbraccia l’erma di  Zeus, campeggia al centro della sala. A lui si devono il riconoscimento dei marmi Elgin come originali opere del genio fidiaco e il rifiuto di integrare con aggiunte i marmi stessi, dando così vita a una nuova concezione del restauro.

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