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In partenza il primo Corso di Perfezionamento in “Cultural Security Management”: l’intervista a Carlo Hruby

Scala per Fenice
(Tempo di lettura: 7 minuti)

Era il 4 ottobre 2007 quando formalmente si costituiva a Milano la Fondazione Enzo Hruby per volontà della famiglia Hruby, proprietaria di HESA S.p.A., l’azienda presieduta dal fondatore Enzo Hruby – e a cui la Fondazione è intitolata – che dal 1968 opera nell’ambito della sicurezza elettronica. Un programma filantropico strutturato e solido che affianca l’attività imprenditoriale per “la promozione d’una cultura della sicurezza intesa quale protezione o salvaguardia dei beni pubblici e privati – in primis, quelli di interesse artistico, monumentale, storico e paesaggistico – attraverso il corretto impiego di tecnologie appropriate” (art. 2 dello Statuto). Abbiamo intervistato Carlo Hruby, vicepresidente della Fondazione, per fare un bilancio delle attività in occasione del decollo dell’ultima proposta formativa in collaborazione con l’Università degli Studi di Pavia.

Carlo Hruby, da Facebook.

Quali sono i partenariati e i progetti più importanti che la Fondazione ha realizzato in questi anni?
«Sin dall’inizio abbiamo deciso di impostare l’attività della Fondazione su alcuni binari paralleli. Da una parte vogliamo assumerci gli oneri di un contributo concreto alla protezione del patrimonio del nostro Paese attraverso il sostegno di progetti sul territorio: è la dimostrazione che portiamo avanti la diffusione della cultura della sicurezza applicata ai beni culturali e nello stesso tempo ci rimbocchiamo le maniche, seguendo lo spirito imprenditoriale che ci ha portato a creare questa Fondazione, con un intervento fattivo. In questi anni abbiamo sostenuto circa 95 progetti, andando a operare anche in contesti di grande pregio, penso alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia con un progetto che mi è molto caro perché particolarmente sfidante dal punto di vista tecnologico: un intervento che si è sviluppato nel corso degli anni e, secondo me, abbastanza caratteristico di quelle che sono le esigenze del mondo dei beni culturali, ovvero l’integrazione di diversi sistemi, realizzati in epoche e aree differenti del complesso della Fondazione Cini, in un’unica interfaccia che renda all’operatore estremamente semplice il compito di controllare e supervisionare tutto quello che dev’essere monitorato. Prima ancora della presentazione ufficiale della Fondazione Enzo Hruby alla stampa, abbiamo operato presso la Biblioteca del Sacro Convento di Assisi: un progetto che mi è particolarmente caro perché è stato il primo e perché la Fondazione – ce ne siamo accorti dopo – è stata formalmente costituita il 4 ottobre, giorno di San Francesco. Abbiamo lavorato alla Biblioteca Ambrosiana, alla Basilica Palladiana di Vicenza, al Teatro La Fenice di Venezia, al Museo Teatrale alla Scala di Milano, nello stesso tempo senza trascurare il patrimonio meno conosciuto: una caratteristica del patrimonio culturale italiano è quella di essere così numeroso e diffuso sul territorio che qualche cosa, in maniera ingiusta, è considerata minore. Siamo convinti che l’attività della Fondazione possa in qualche modo attirare l’attenzione anche su questi beni: noi, che ci occupiamo di sicurezza e di tecnologie, siamo perfettamente consapevoli che la conoscenza del nostro patrimonio alla fine sia la base di tutto. Dunque portiamo avanti interventi sul patrimonio più conosciuto e su quello magari meno noto ma molto legato al territorio, penso alla Basilica di Nostra Signora del Pilastrello di Lendinara, in provincia di Rovigo, o al Sacro Monte di Varallo Sesia. In parallelo coltiviamo un’attività preziosa e che adesso sta diventando molto rilevante proprio in ambito accademico: per diffondere la cultura della sicurezza, andiamo là dove la cultura viene tramandata e insegnata. L’impegno educational si sviluppa sia attraverso incontri con gli studenti delle scuole superiori – che abbiamo fatto e che riprenderemo a breve – in sinergia con i Carabinieri del TPC per sensibilizzare i giovani sull’importanza del nostro patrimonio, sulla tutela e sulla sua protezione, sia collaborando con alcune università. In particolare presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia ogni anno siamo ospiti del Corso di Economia e Gestione dei Beni Culturali e del MaBAC, il Master in Management dei Beni e delle Attività Culturali che si tiene sei mesi a Parigi e sei mesi a Venezia. Per l’Università degli Studi di Pavia interveniamo durante il Corso di laurea in Economia e Gestione dell’Arte e adesso con questa nuova iniziativa del Corso di Perfezionamento. Oltre a questo, ed è il terzo filone, abbiamo un’attività editoriale, per noi molto importante, anche perché tra poco presenteremo un nuovo volume di particolare attualità».

La sensibilizzazione e la formazione sono ambiti in cui la Fondazione è da sempre impegnata: ha notato un cambiamento nella consapevolezza dei rischi a cui è esposto il nostro patrimonio culturale?
«Devo dire di sì. Sarò io un inguaribile ottimista, però, per una volta, non ci dobbiamo sentire inferiori ad altri Paesi: le carenze che vediamo in Italia – e ce ne sono tante – non sono maggiori di quelle che troviamo altrove. Ma soprattutto noto una sensibilità diversa. Forse lo stesso Corso di Perfezionamento e la nostra presenza in ambito accademico sono il segnale di un’attenzione rinnovata verso il tema della sicurezza. Forse anche “grazie” – mi spiace usare questo termine – al fatto che oggi il problema non è tanto dei furti quanto quello dei danneggiamenti: un fenomeno negativo, a cui assistiamo quotidianamente, ci aiuta a diffondere una maggiore sensibilità e la necessità che qualcosa si debba fare».

Ritiene che l’inasprimento delle pene, dovuto all’approvazione delle Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici, sia un deterrente sufficiente ad arginare le azioni dimostrative degli “eco-vandali”? E quanto le tecnologie possono fare la differenza?
«L’inasprimento delle pene è un elemento importante, ma non è sufficiente. Le tecnologie e l’educazione possono fare la differenza. Difronte a questo tipo di problemi è necessario portare avanti, in maniera organica, interventi su più fronti: la parte normativa sicuramente è utile, la conoscenza e la consapevolezza del patrimonio è importante, quello in cui, secondo me, c’è ancora molta carenza è la conoscenza di quello che le tecnologie permettono. Abbiamo un’arma straordinaria, ma non la conosciamo abbastanza e quindi non la possiamo utilizzare al massimo perché spesso non sappiano neanche di averla. Quando andiamo a parlare, con direttori di musei o responsabili di istituzioni importanti, di quello che oggi la tecnologia può fare, le persone spesso ci guardano come stessimo parlando del futuro e invece è già presente. Lo stesso concetto di videosorveglianza, cioè il fatto che a posteriori si possa ricostruire attraverso un video quello che è successo – e basta guardare un qualsiasi telegiornale per vedere quanto sia utilizzato – è già vecchissimo. La nuova tecnologia oggi si chiama videosicurezza, un termine con il quale identifichiamo i sistemi di videoanalisi: l’applicazione dell’intelligenza artificiale a un sistema di videosorveglianza consente di segnalare all’operatore, o chi dev’essere avvisato, un’anomalia prima ancora che succeda, quando sta accadendo. Sono sistemi in grado di fare un’analisi del comportamento, che riescono a riconoscere la presenza anomala di persone o quando qualcuno sosta troppo tempo davanti a un quadro o a una opera. E non è fantascienza, ma sono tecnologie che già sono utilizzate in altri settori, soprattutto in ambito commerciale o industriale. Credo che questo sia il punto su cui dobbiamo lavorare di più: le tecnologie non sono la bacchetta magica che risolve tutto, ma possono offrire un aiuto enorme all’elemento umano. Abbiamo il dovere di farle conoscere meglio e questa è una responsabilità sia di noi operatori della sicurezza, che evidentemente non sappiamo comunicare in maniera corretta con il mondo dei beni culturali, sia del mondo dei beni culturali che non si è mai aperto in maniera adeguata alla tecnologia».

Siamo più in ritardo culturalmente o tecnologicamente in materia di sicurezza dei beni culturali?
«Culturalmente, di sicuro. Quando incontro gli studenti, dico sempre “ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”, riporto la frase del film Blade Runner ma sono troppo giovani e non la capiscono. Difronte alle possibilità che la tecnologia offre, vediamo invece situazioni che gridano vendetta: non è possibile trovare primarie istituzioni non protette o protette in maniera assolutamente inadeguata. E tra l’altro non possiamo neanche rifugiarci dietro al pretesto che le tecnologie ci sono, ma non ci sono i fondi: non è vero. Le tecnologie costano sempre meno e agli studenti spiego nel dettaglio la spesa della non sicurezza e come sia molto più alta del costo della sicurezza. Dunque non c’è nemmeno la scusante del prezzo, è proprio un discorso culturale: manca la conoscenza di quello che la tecnologia offre, manca la sensibilità verso la tecnologia. Il Corso di Perfezionamento vuole essere un piccolo contributo proprio per cercare di colmare questo gap: abbiamo un problema di sicurezza perché il patrimonio italiano è enorme, estremamente diffuso sul territorio e molto visitato. Questi tre elementi, che sono motivo di orgoglio per il nostro Paese, sono invece un bel dilemma per chi si occupa di sicurezza. Un patrimonio ampio va custodito, se è diffuso sul territorio è particolarmente difficile da proteggere e un numero dei visitatori così alto lo espone a molti rischi. È giusto esserne orgogliosi, ma dobbiamo avere la consapevolezza che abbiamo anche un compito difficile e una forte necessità di sicurezza, non solo verso il fenomeno dei furti ma anche verso quello dei vandalismi, più o meno volontari. Le tecnologie rappresentano la soluzione, non abbiamo un problema di prezzo eppure non riusciamo a far dialogare questi due mondi: la tecnologia e i beni culturali sono come due rette parallele che per definizione sono destinate a non incontrarsi mai; la nostra Fondazione vuole sfidare le leggi della geometria e fare in modo che queste due rette parallele invece s’incontrino in una nuova figura professionale, il cultural security manager, che deve adeguare il settore dei beni culturali a quello che già avviene in altri ambiti. Il cultural security manager deriva da realtà come il retail, conosce le esigenze di protezione di cui si occupa, frequenta il mondo della tecnologia, dialoga con chi offre la tecnologia e identifica le soluzioni migliori per le proprie necessità».

Il prossimo 7 marzo prenderà avvio la prima edizione del Corso di Perfezionamento in Cultural Security Management (iscrizioni entro il 26 febbraio), promosso dalla Fondazione in collaborazione con l’Università degli Studi di Pavia. Si rivolge ai giovani in possesso di una laurea triennale o di un titolo superiore nell’ambito dei beni culturali, che desiderano intraprendere una carriera dedicata alla tutela, alla gestione e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico ed archeologico italiano. Quali sono i punti di forza e di innovazione didattica di questa nuova proposta accademica?
«Finalmente questo tema viene portato in ambito accademico in un Corso di Perfezionamento, quindi in un corso destinato a chi già è laureato e che spesso già lavora in questo ambito, in una Università tra l’altro di grande prestigio come quella di Pavia, il che è di per sé un segnale importante. È l’edizione zero nella quale vogliamo toccare un po’ tutti i vari ambiti in cui è coinvolta questa nuova figura professionale. Ampio spazio chiaramente alla normativa, all’analisi dei rischi, all’attività di una eccellenza italiana come quella dei Carabinieri del Comando Tutela Patrimoniale Culturale, ma soprattutto alle tecnologie per cercare di tradurre in un linguaggio comprensibile ai non addetti ai lavori le potenzialità già disponibili. Le nuove tecnologie offrono anche strumenti di business intelligence che servono a capire e modulare al meglio l’offerta culturale della struttura, dall’analisi dei visitatori nei momenti di maggiore affluenza al percorso all’interno delle sale espositive, all’individuazione dei punti di maggiore permanenza. È una iniziativa particolarmente cara, che si inserisce in un progetto molto ampio della nostra Fondazione, e che mi fa anche essere ottimista: un po’ di anni fa non ci sarebbe stata la sensibilità per arrivare a proporre un Corso di Perfezionamento come questo. Oggi invece l’Università di Pavia si mostra all’avanguardia, da questo punto di vista, e spero che la proposta possa essere portata dalla nostra Fondazione anche in altre università e in altri contesti».

Prossimo appuntamento con le iniziative della Fondazione?
«L’ha già detto lei, sarà il 7 marzo con l’avvio del Corso di Perfezionamento, ma subito dopo nella tarda primavera ci sarà la presentazione del nostro nuovo volume, a cui stiamo lavorando. Riguarderà un tema di grande attualità come la protezione del patrimonio culturale contro il fenomeno dei vandalismi, che sarà analizzato da diversi punti di vista: dallo psicologo, dall’avvocato, dai Carabinieri del TPC, dalle tecnologie».

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