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La gestione dei beni culturali pubblici e privati tra criticità, catastrofi naturali e sinergie istituzionali

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Non solo soci e non solo proprietari di immobili vincolati, storici e di pregio, ma anche rappresentanti delle istituzioni presenti in sala con riflessioni, esperienze e casi studio per l’iniziativa organizzata dalla sezione Emilia-Romagna dell’Associazione Dimore Storiche Italiane. Un momento per fare il punto sullo Stato di emergenza delle dimore e dei territori: protocollo per gli stati di calamità naturali e priorità da affrontare per il sistema culturale sociale ed economico dei territori, con la salvaguardia dei beni culturali, che rientra nell’ambito del primo ciclo di convegni nazionali dedicati a La Valorizzazione e il Sostegno dei Beni Culturali Privati. A partire dagli episodi alluvionali e dagli eventi sismici che nel 2023 hanno interessato la Romagna, relatrici e relatori si sono confrontati sulle buone pratiche di gestione delle emergenze da disastro ambientale, analizzando quali sono stati gli impatti sul patrimonio culturale pubblico, come archivi e biblioteche, e su quello privato, come edifici e giardini storici.

Hanno portato i loro saluti istituzionali, Anna Lisa Boni, Assessora del Comune di Bologna con deleghe alle Relazioni internazionali e cooperazione, cabina di regia fondi europei, missione clima 2030: neutralità e transizione, portavoce progetto di restauro e raccolta fondi Garisenda e Portici UNESCO; Mauro Felicori, Assessore alla Cultura e Paesaggio della Regione Emilia-Romagna; Andrea Gnudi e Marco Filippucci, rispettivamente Presidente dell’Ordine degli Ingegneri e Presidente dell’Ordine degli Architetti della provincia di Bologna.

Valore, conoscenza, cura, prevenzione, generazioni future, governance, Art Bonus e filiere sono state le parole chiave dell’intervento di Boni che, in particolare, ha sottolineato l’esperienza di partenariato pubblico-privato, attraverso appunto lo strumento ministeriale dell’Art Bonus, in favore degli interventi conservativi della Torre Garisenda, cuore e simbolo della città di Bologna, insieme alla Torre degli Asinelli, la cui fragilità statica nei mesi scorsi ha allarmato istituzioni, tecnici e cittadini: «il privato è interessato e si vuole mobilitare sulla tutela e sulla cura di questi beni». E questo interesse vale anche per i Portici, riconosciuti Patrimonio Mondiale UNESCO dal 2021, che sono prevalentemente di proprietà privata ma che rappresentano uno spazio pubblico. Il 17 maggio 2024 al Cinema Modernissimo, con una sessione accademica, e il giorno successivo in Sala Borsa, con ospiti da altre città europee, si terrà un convegno, un’anteprima della seconda edizione del Festival dei Portici, che si approfondirà proprio il tema della cura del patrimonio culturale pubblico e privato.

«Quando un privato svolge una funzione pubblica, è giusto che le istituzioni riconoscano questa funzione. Stiamo parlando della tutela di beni culturali formidabili – ha esordito Felicori – che fanno parte del settore privato, a cui moltissimi proprietari assicurano il restauro e la manutenzione, spesso l’apertura al pubblico, e quindi anche una funzione di comunicazione culturale». Possibilmente un riconoscimento di tipo fiscale, un contributo o un finanziamento. L’Assessore ha ricordato l’impegno regionale per la formazione professionale di addetti alla manutenzione e al restauro di giardini storici, e lo sforzo per portare questi luoghi allo stesso livello di considerazione culturale e sociale dei palazzi storici. Felicori ha infine evocato le iniziative legislativi regionali sui beni culturali in favore delle Case e studi delle persone illustri dell’Emilia-Romagna e del Riconoscimento e valorizzazione dei cimiteri monumentali e storici dell’Emilia-Romagna.

Gnudi ha puntato sulla «necessità di approfondire gli aspetti tecnici che stanno a monte della tutela dello sconfinato patrimonio che caratterizza il territorio», tenuto conto che «il naturale passaggio del tempo genera una obsolescenza, un invecchiamento che porta a un intrinseco decadimento delle proprietà dei materiali». Questo si associa alle normali aggressioni atmosferiche e agli eventi naturali eccezionali, sempre più frequenti, come gli alluvioni, che accelerano il dissesto idrogeologico, e gli episodi sismici: «abbiamo una certezza, purtroppo, è brutto da dire, ma il terremoto tornerà. Non sappiamo quando e dove, ma tornerà. È parte del nostro costrutto nazionale». Le conoscenze di intervento devono avere un approccio interdisciplinare e multidisciplinare che richiede uno sforzo collettivo delle categorie professionali. Umiltà, dialogo e sinergia devono guidare la collaborazione tra tecnici, enti e privati.

Filippucci, dal canto suo, ha sottolineato l’esigenza «di lavorare nell’ottica di costruirci un patrimonio, e di non pensare che il nostro patrimonio sia solo quello che c’è stato», ottenendo però il massimo della qualità di ciò che si realizza: «necessità di altro genere non mirano alla qualità, ma si fermano alla quantità». Ha poi ricordato i numeri dell’alluvione di maggio scorso: 23 fiumi esondati, allagamenti in 57 comuni e 6 province, fino a 600 millimetri di pioggia, 4 miliardi di metri cubi di acqua in 800 chilometri quadrati, circa un migliaio di frane, 544 strade comunali, provinciali e statali chiuse, danni per 9 miliardi di euro, di cui 2 di somma urgenza, che hanno investito anche i beni artistici e i centri storici. La tutela – ha sottolineato Filippucci – è spesso invisibile: «la prevenzione idraulica non è una cura percepita, non c’è un riscontro diretto, un intonaco nuovo o la fondazione consolidata, ma è qualcosa che ci protegge da un evento futuro» e che protegge il patrimonio culturale.

Beatrice Fontaine, Presidente della sezione Emilia-Romagna di ADSI, che ha introdotto e coordinato i lavori del convegno, ha ricordato che l’iniziativa si inserisce in un ciclo di sei incontri tematici, che proseguiranno fino a dicembre in altre regioni, per i soci ma che è rivolto anche alle associazioni di categoria, a quelle che si occupano di restauro e di edilizia, di turismo, di promozione e di eventi. Alla Regione Emilia-Romagna è toccato il tema sugli eventi climatici, per ragioni abbastanza intuibili, un argomento che necessita di una riflessione in «un Paese che non è strutturalmente pronto, per la densità di edifici e immobili storici, a sopportare questi fenomeni, che vanno a colpire non solo il contenitore ma anche il contenuto». L’impatto disastroso sul tessuto materiale e sociale delle comunità, specie nelle aree interne, determina poi lo spopolamento e l’abbandono dei territori, dove la presenza delle dimore storiche può giocare un ruolo importante. Secondo i dati dell’Osservatorio sul patrimonio culturale privato, «una dimora su dieci si trova in un comune con meno di 2.000 abitanti, oltre una dimora su quattro in un comune con meno di 5.000 abitanti, e oltre un terzo delle dimore si trova in un borgo storico. Questo vuol dire che il patrimonio culturale privato è diffuso su tutto il territorio nazionale e che siamo profondamente radicati nel contesto sociale ed economico. In Italia ci sono più dimore storiche aperte al pubblico che comuni: le dimore sono 8.200 e i comuni 7.900 circa. E rappresentiamo un anello importante della catena». Fontaine ha riservato parole per i proprietari che non aprono al pubblico, e che sono ancora la maggioranza: «comunque grazie al loro impegno, e alla loro costanza nella manutenzione, garantiscono il decoro delle strade e delle piazze dei borghi storici».

Manola Guerra, architetta e funzionaria del Segretariato Regionale del Ministero della Cultura per l’Emilia-Romagna, ha illustrato la funzione dell’Unità di Crisi Regionale. Si tratta di una struttura che viene attivata dall’Unità di crisi nazionale, in caso di eventi e catastrofi naturali e situazioni di particolare emergenza, che s’interfaccia con le Soprintendenze e i Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, con i Vigili del Fuoco e la Protezione Civile, con le Prefetture e gli enti locali, le associazioni e la curia, i volontari e tutti i soggetti che operano sul territorio per raccordarne le attività. Nel corso degli eventi alluvionali del maggio 2023 sono state raccolte oltre 900 segnalazioni, poi verificate con sopralluoghi e la predisposizione di schede rilievo danni. I dati sono confluiti, archiviati e resi disponibili sulla piattaforma WebGIS che al 21 marzo 2024 conta 10324 beni architettonici, 247 beni archeologici e 643 sedi di conservazione degli archivi. «Le operazioni di messa in sicurezza sono state consistenti, soprattutto per il patrimonio archivistico. L’UCR si è preoccupata di trovare degli spazi, perché molti documenti sono stati conferiti in congelamento, ed è stato necessario anche dotarsi di appositi contenitori, che in parte sono conservati presso il nostro deposito a Cesena, in parte presso delle strutture private e in parte alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze», dove sarà effettuato il restauro. Guerra ha infine sottolineato che dal 2022 ogni regione deve individuare un deposito di ricovero temporaneo e che la Regione Emilia-Romagna ha appunto acquisito, grazie al Demanio, un immobile a Cesena: oltre alla custodia di beni artistici e materiale archivistico librario, la struttura sarà sede di un laboratorio per il restauro.

L’ingegnere Bartolomeo Letizia, funzionario dell’Agenzia Regionale Ricostruzioni dell’Emilia-Romagna che coordina gli interventi sugli immobili sottoposti a tutela e danneggiati dagli eventi sismici del 2012, ha ricordato i numeri dei terremoti del 20 e del 29 maggio: 28 morti, 300 feriti, 45mila sfollati, con una prima stima dei danni che si aggirava intorno ai 12 miliardi di euro e 60 comuni coinvolti, 2000 edifici pubblici danneggiati, scuole, municipi, biblioteche, 33 teatri, quasi 500 chiese di cui 325 inagibili. Il processo di ricostruzione abitativo e produttivo è sostanzialmente al termine, diversa è la situazione della ricostruzione degli edifici pubblici: partita in un secondo momento, è stata condizionata da diversi fattori che ne hanno rallentato il percorso. «Il processo di ricostruzione – ha sottolineato Letizia – deve essere fatto in modo collettivo, condiviso e partecipato». In questa ottica l’Agenzia ha istituito una Commissione Congiunta composta da più esperti di diverse competenze per analizzare e istruire gli interventi sui beni pubblici vincolati.

Gian Pietro Vittorio Venenti, comproprietario di Villa Certani Vittori Venenti a Vedrana di Budrio, ha offerto la testimonianza del suo immobile di campagna: un tipico palazzo rinascimentale bolognese di 3000 metri quadrati, completato sul finire del Settecento, danneggiato e certificato inagibile dopo il sisma del 2012. La famiglia Venenti ha provveduto all’assegnazione dei lavori recupero e restauro attraverso una gara d’appalto, in rapporto al prezzo e alla qualità offerti, che è stata vinta dall’azienda Leonardo S.r.l.. L’intervento è stato complesso e molto costoso, e ha riguardato il consolidamento statico, il restauro delle tempere e delle tele, la tinteggiatura totale della villa, l’adeguamento dell’impianto elettrico e la pavimentazione. I lavori sono stati avviati senza la certezza di finanziamenti pubblici, che comunque sarebbero stati del 50% solo per la parte di adeguamento e miglioramento sismico: il contributo è arrivato nel 2024, dopo che le opere erano state terminate, in 3 anni, nel 2018. «Gli eventi – ha detto Venenti – non sono business: otto matrimonio all’anno servono a solo mantenere l’immobile nelle condizioni migliori».

Simile e altrettanto faticosa è stata l’esperienza di Livia Imperiali, comproprietaria di Palazzo e Giardino Giusti a Verona, beni che la stessa famiglia possiede dal 1300. Il Giardino Giusti nasce nel Cinquecento, su ispirazione della natura rigogliosa del Giardino dei Boboli di Firenze, come giardino aperto al pubblico, per farlo vedere e «per maravigliare le persone». I secoli, le mode, i cambiamenti climatici e le sfighe, alluvioni, terremoti e il nubifragio di fine agosto 2020, hanno modificato il giardino: «la tromba d’aria pensò bene di fermarsi all’interno delle mura del giardino, tirando a terra il famoso cipresso di Goethe» insieme ad altri 60 cipressi monumentali, che sono caduti sopra i cespugli e i bossi. Il nubifragio è stato una ecatombe per il Giardino Giusti ma, grazie al Comune di Verona e alla Protezione Civile, che ha liberato i camminamenti, dopo 5 giorni ha riaperto. Complessivamente i lavori di manutenzione, affidati a una ditta trentina specializzatasi dopo la tempesta Vaia, sono durati circa 3 mesi, senza precludere la fruizione pubblica. Grazie alla visita di un membro di Europa Nostra, il giardino è stato inserito nel 7 Most Endangered programme 2021, ricevendo 10mila euro. L’evento traumatico ha permesso un ripensamento complessivo sul futuro del Giardino Giusti.

Devastazione del Giardino Giusti

La parola è dunque ritornata ai professionisti con gli interventi di Alessandro Sidoti, funzionario restauratore del Settore restauro materiali cartacei e membranacei dell’Opificio delle Pietre Dure e responsabile del Laboratorio di Restauro della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, e di Maria Grazia Palmieri, responsabile della Biblioteca Comunale “Luigi Dal Pane” di Castel Bolognese.

Sidoti ha ricordato «che la storia delle emergenze è lunga: entrambi gli istituti in cui lavoro sono dovuti alla grande emergenza dell’alluvione di Firenze del 1966 di cui sono ancora in atto interventi sui beni archivistici e librari. I tempi che dobbiamo tenere in considerazione in questo caso sono epocali e da questo punto di vista la storia è triste perché abbiamo dovuto intervenire su altre emergenze come attentati (Georgofili-Uffizi 1993), sismi (Abruzzo 2009, Emilia-Romagna 2012, Lazio-Marche-Abruzzo-Umbria 2016), e altro (alluvione Marche 2022)». L’Opificio delle Pietre Dure non lavora solo su materiale archivistico librario, ma moltissimi interventi sono stati fatti su collezioni museali, anche private, successivi alle prime fasi che mobilitano l’opinione pubblica: «l’attenzione dovrebbe essere mantenuta molto alta perché gli interventi di recupero non sono veri e proprio restauri, ma sono restauratori che si prestano alle prime fasi di gestione dell’emergenza per evitare che avvengano ulteriori danni». Le attività iniziali sono dunque opere di messa in sicurezza per stabilizzare le condizioni di conservazione. I depositi di ricovero hanno una vita molto lunga e possono essere svuotati solo dopo complesse e costose campagne di restauro. La BNCF è diventata, obtorto collo, un punto di riferimento: nel 1997 è stato acquistato e messo a disposizione degli istituti pubblici, un impianto di liofilizzazione dei volumi bagnati, in seguito ad alluvioni e allagamenti, opportunamente congelati. Il primo tentativo di salvataggio si verificò nel 1994 con l’alluvione dei manoscritti di Cesare Pavese, a cui seguirono l’alluvione di Praga del 2002, l’incendio della Società Letteraria di Verona del 2004 e l’incendio degli archivi nazionali di Baghdad, e ancora l’asciugatura del materiale recuperato dopo il terremoto dell’Aquila nel 2009 e quello dopo l’esondazione del fiume Magra ad Aulla nel 2011. «La BNCF, a fronte delle continue richieste di aiuto, ha iniziato a produrre della documentazione per favorire chi non fosse preparato all’emergenza. Abbiamo quindi realizzato nel 2018, grazie alla collaborazione di una ditta privata, cinque video didattici disponibili su YouTube, che si sono rivelati subito molto utili con l’acqua granda a Venezia nel novembre 2019». L’ultimo intervento in ordine di tempo è quello stato quello presso l’antica Biblioteca del Seminario Vescovile di Forlì, allagata nel maggio 2023, con cui la BNCF ha siglato un protocollo gratuito di collaborazione: «con la Soprintendenza archivistica e bibliografica dell’Emilia-Romagna è stata fatta una cernita del materiale, cercando di salvare ciò che valeva la pena, perché ovviamente i costi di recupero sono molto alti». Sono state coinvolte più di 800 persone e 48 giorni di lavori solo per la selezione, rimozione e risciacquo del materiale, che adesso è congelato in attesa delle fasi successive di salvataggio.

Palmieri invece ha portato la testimonianza del Comune di Castel Bolognese sull’esperienza della gestione dell’emergenza e il recupero dopo l’alluvione del 2023 dell’Archivio Storico Comunale; un archivio, istituito nel XIII secolo in concomitanza con la fondazione del comune, la cui storia era già stata caratterizzata da manomissioni e spoliazioni, anche da parte degli studiosi che non restituivano ciò che avevano preso in prestito, da riordini e mancata cura. Nonostante «sottrazioni volontarie e cause violente, l’archivio aveva resistito abbastanza bene fino alla Seconda Guerra Mondiale: l’antico palazzo è stato bombardato nell’inverno del 1944 e il materiale documentario si è impoverito perché il comando militare di istanza a Castel Bolognese ha iniziato a utilizzare i fogli dei registri di protocollo, anteriori al 1938, per la distribuzione di sale, pasta e farina». Inoltre molte cassette, che custodivano il materiale cartaceo, sono diventate pacchi di vivere da spedire. «Altro momento significativo, il 31 maggio 1947, forse il più drammatico, quando la Giunta comunale approva una deliberazione per la vendita degli atti comunali perché “la storia comincia il 25 aprile 1945”». 81,53 quintali di documenti, considerati carta da macero, venduti a 63 lire al chilo. «Sfuggirono alla distruzione solo quei pochi atti che, poco prima della guerra, erano stati trasferiti nei locali del Convento di clausura delle suore di Castel Bolognese». Nel corso della travagliata storia dell’archivio sono stati approntati di diversi riordini, nel 1718 e nel 1880, e in occasione di quello massivo e puntuale del 1960 sono confluiti diversi archivi aggregati come quelli delle Confraternite della Santa Madonna del Suffragio o del Santo Corpo di Cristo. La ricognizione del 2004 ha portato il Comune a spostare la parte più antica dell’archivio nel 2008 nei locali sotterranei attrezzati della biblioteca, in accordo con la Soprintendenza. Con il secondo episodio alluvionale del 16-17 maggio 2023 si è allagato il 70% del territorio del comune e i locali della biblioteca sono stati completamente sommersi: la potenza dell’acqua ha scardinato le porte rei antincendio e gli armadi compact, l’acqua ha raggiunto i 5 metri di altezza. Tutto il materiale archivistico librario è collassato ed è andata dispersa la maggior parte delle pratiche edilizie. Le operazioni di recupero sono state condotte in due cantieri diversi: dal 26 maggio al 1° giugno e dal 7 al 20 giugno. «In totale in biblioteca sono stati portati in salvo circa 214 metri lineari, la quasi totalità dei documenti presenti nell’archivio storico, mentre nella sede comunale poco più della metà del materiale, circa 270 metri». Le fasi iniziali sono state concitate per via della fretta perché fin da subito le muffe hanno preso il sopravvento. Le carte sono state pulite, imbustate e conferite alla sede Orogel di Cesena, che ha concesso l’uso dei congelatori per custodire il materiale in attesa di liofilizzazione, «e poi si spera – ha concluso Palmieri – di poter iniziare l’iter di restituzione alla cittadinanza e agli studiosi».

Fasi del salvataggio della documentazione dell’Archivio Storico Comunale di Castel Bolognese

È toccato infine a Giacomo di Thiene, Presidente nazionale dell’ADSI, tirate le somme del ricco convegno bolognese. «Non si sa più dove mettere gli oggetti – ha esordito cercando di sollevare la platea con una battuta – perché li metti a terra e arriva l’acqua, li metti in alto e arriva la tromba d’aria, li metti in mezzo e crolla il solaio». Riprendendo più seriamente, «qual è il valore dei beni culturali? È un valore immenso che definisce la qualità dell’ambiente in cui viviamo e chi nasce in una città italiana molto spesso non ne ha contezza, lo dà assolutamente per scontato». Il rapporto dell’Osservatorio sul patrimonio culturale, realizzato in collaborazione con la Fondazione Bruno Visentini, ha offerto un dato quantitativo circa questo valore e la distribuzione dei beni, intercettando l’inviluppo delle aree interne, la loro decrescita demografica ed economica: «se la gente non abita i territori, i territori non vengono curati e se le cose non vengono curate, si è detto più volte, degradano, deperiscono e alla fine i problemi arrivano a tutti. Se non si investe sui territori rappresenteranno una voce sempre più ampia di costo per lo stato, per le regioni, per i comuni». E se nessuno investe nelle aree interne, «tre restano le risorse di questi territori: le dimore storiche, l’architettura monumentale e l’architettura edilizia minore, che definisce comunque questi borghi, e il paesaggio, che è spesso caratterizzato dall’agricoltura». Risorse che cambiano anche la percezione sociale perché – ha rimarcato di Thiene – «il patrimonio culturale è identità. Il problema, molto spesso, è che la società e i cittadini se ne rendono conto dopo la tragedia, dopo che sono crollati i cipressi di Giardino Giusti, dopo che una strada ha attraversato una collina che prima era colma di viti». La prospettiva si cambia con l’educazione delle persone e con la formazione, perché «non è possibile che Italia si viva nell’emergenza permanente».

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