Quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l’aspetto di giganti
(Karl Kraus)
Qual è lo stato salute dell’università italiana, in particolare di quelle facoltà che più di altre dovrebbero alimentare il settore culturale del paese? Sono stati superati gli effetti della pandemia o hanno contribuito ulteriormente a strutturare la crisi degli atenei? L’ultimo rapporto biennale dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario (ANVUR) risalente al 2023 riferisce, in sintesi, dell’aumento delle immatricolazioni ma anche del costante divario tra nord e sud, dell’abbandono prima della conclusione dei corsi e della diminuzione del numero dei laureati. L’ANVUR, creata con la Legge 24 novembre 2006 n. 286, si occupa principalmente di valutare la qualità delle attività delle Università e degli Enti di Ricerca destinatari di finanziamenti pubblici a favore della ricerca e dell’innovazione, svolgendo anche attività per migliorare, sotto molteplici aspetti, la qualità complessiva del sistema universitario.
Nell’ambito di questo rapporto, è da considerare con attenzione, tenuto conto dello scenario globalizzato in cui viviamo, il dato della quota di laureati tra 25 e 34 anni attestato al 28,3% che, seppur in aumento, evidenzia l’ampio divario tra l’Italia e altri Paesi avanzati, in cui la media è del 47,1% (dato OCSE). Illuminanti, oltre a quanto già esposto, sono i rapporti di AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che accorpa ottanta atenei italiani con l’intento di sviluppare ricerche e studi nell’ambito della formazione e che si avvale di una banca dati dove sono censiti i curricula di oltre tre milioni e mezzo di laureati, in costante aggiornamento.
Tra le ricerche e le statistiche svolte da questo ente, vi è anche quella che ha riguardato la valutazione dei percorsi accademici che, meno di altri, permettono una futura e adeguata occupazione. Con un tasso di disoccupazione pari al 33,3%, vi sono Corsi di Laurea il cui piano di studi implica insegnamenti quali la storia del cinema, la musica, il teatro, la drammaturgia, la tutela e la gestione del patrimonio culturale e le varie letterature. Queste facoltà non darebbero solide prospettive in relazione a un possibile impiego in questi ambiti e sono, dunque, tra le meno appetibili nel mercato del lavoro.
Nei percorsi di studio rivolti alla formazione per l’ambito del Turismo, il tasso di occupazione si attesta al 14,5%. Questi corsi prevedono insegnamenti giuridici, di marketing, le lingue estere, la storia dell’arte e dell’architettura, la sociologia. Anche in questo settore le opportunità lavorative si sono ridotte negli ultimi anni, dato da leggere anche in relazione agli anni di pandemia. Analoghe difficoltà riguardano Le lauree in Comunicazione, Media e Pubblicità, ossia quelle facoltà in cui gli insegnamenti principali sono i linguaggi dei media, il giornalismo, la pubblicità, la sociologia della comunicazione e le strategie di marketing. Al pari sono quelle in Design e Moda, in cui il tasso di disoccupazione sale al 22,9%, in un settore dove la richiesta di figure creative non è connessa al requisito di un elevato titolo di studio. Infine, le lauree in Archeologia e Antropologia risultano essere quelle più “inutili”, sempre secondo il report di AlmaLaurea. Il 33,3% dei giovani laureati in questo settore rimane senza un impiego nel campo specifico, in coerenza con gli studi svolti e in un orizzonte lavorativo che offre scarse opportunità. Fattore che implica il ripiego verso altre carriere, soprattutto l’insegnamento nelle scuole secondarie e più in generale verso occupazioni in ambito pubblico, accessibili mediante procedure concorsuali.
La premessa, utile per avere un quadro di situazione, consente anche di indagare un fenomeno emergente che evidenzia un fatto quanto meno curioso. Come si spiega perciò il proliferare di corsi, specializzazioni e master nel settore culturale a fronte del mancato allineamento nei fatti con gli scenari lavorativi? Sono disponibili ben centotrentasei tra corsi di specializzazione e master nel settore dell’Archeologia, Beni Culturali e Storia, il che rimanda al prevalere perverso del quantitativo sul qualitativo, a relegare le università a meri esamifici, invece di luoghi deputati all’approfondimento e alla diffusione della formazione culturale, declinata nei vari livelli e percorsi di studio. Queste soluzioni formative sono davvero in grado di sviluppare un percorso di carriera in ambito culturale? È di fatto possibile che coloro che conseguono questi titoli specifici ottengano un’occupazione di livello nei settori della valorizzazione dei beni artistici, negli studi autoriali e bibliografici, nelle docenza di storia, lingue e culture?
Se si tiene conto che si tratta di studenti che dovrebbero già possedere una solida base di preparazione per essere ammessi alla frequenza di questi master, saranno in seguito le competenze acquisite e maturate sul campo che faranno davvero la differenza, peccato che le possibilità di conseguire esperienze pratiche siano scarse e davvero referenziate. Orbene, c’è spazio per tutti nel campo della cultura? Coloro che ricoprono ruoli di rilievo sono davvero qualificati anche con riferimento al comparto pubblico?
Quella della cultura è un settore considerato in costante trasformazione, come è stato indicato nella pubblicità al bando corso/concorso per la formazione e la selezione di cinquanta dirigenti del Ministero della Cultura, da destinare sul territorio nazionale per la cura, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio. Questa procedura ha visto la collaborazione tra il MiC, la Scuola Nazionale dell’Amministrazione e la Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali che, oltre a curarne la logistica e l’organizzazione, ha sviluppato le attività formative concernenti le materie specialistiche. Tutto ciò sarà sufficiente per risolvere i tanti problemi di organico e strutturali delle articolazioni periferiche del MiC? Saranno implementate ulteriori risorse economico-finanziarie?
Aleggia in questo settore, forse più che in altri, lo spettro delle teorie mertoniane, in particolare della cosiddetta incapacità addestrata che si prefigura:
• nel caso in cui l’addestramento e l’abilità tecnica possono risultare inadeguate secondo l’evolvere delle condizioni;
• al manifestarsi del mutamento delle condizioni, ingenerando nuovi problemi e con l’addestramento specifico del funzionario che si esprime nella mancanza di adattamento nell’applicazione delle norme e nell’attuazione degli scopi prefissati;
• laddove la formazione specializzata si tramuta in deformazione professionale dei funzionari;
• al determinarsi di un rallentamento dell’apparato burocratico in presenza di cambiamenti ed imprevisti;
• quando l’addestramento e l’abilità tecnica, che in passato avevano restituito risultati positivi, possono risultare rimedi inadeguati a fronte dei cambiamenti.
I tanto decantati miti del posto fisso garantito sono ormai un retaggio del passato. Il comparto pubblico non si può esimere dall’essere competitivo per cui è fondamentale avere la possibilità di sbocchi di carriera in relazione alle competenza e alla formazione maturata, non basandosi esclusivamente sull’anzianità a discapito delle capacità, del dinamismo e dell’indipendenza del singolo in relazione all’organizzazione di riferimento. Anche coloro che hanno deciso di intraprendere la strada della libera professione non hanno di che bearsi. Queste figure, aprono spesso una partita IVA a regime forfettario. Ricordiamo, ad esempio che la figura dell’archeologo non ha un albo professionale ma solo un’associazione di categoria riconosciuta dal MISE. Il D.Lgs. 42/2004 nel disciplinare le attività di tutela, compresa quella archeologica, non si occupa di definire le professionalità aventi requisiti e competenze specifiche per svolgere attività in questo ambito. Analoga situazione riguarda consulenti-critici-esperti-storici dell’arte, spesso reclutati con contratti di collaborazione a termine, principalmente in ambito commerciale.
In ultima sintesi, considerato il quadro di situazione, con ciò che è sancito al massimo livello di principi di questa Nazione, possiamo affermare che non ce la passiamo affatto bene. Se ci riferiamo poi agli articoli 1 e 9 della nostra Costituzione, coerenti con i contenuti affrontati da questo articolo, non è possibile ignorare come il lavoro e la cultura non siano di fatto priorità nell’agenda politica del paese. Inquietante la prospettiva, visti gli esiti, se pensiamo alle future generazioni, a ciò che dovrebbe essere attuato nel loro interesse a fronte di un potenziale culturale enorme. Paradossalmente sembra che tutti propongano soluzioni senza vedere il problema vero che sarebbe da affrontare con la giusta motivazione.
Opinionista