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Il British Museum ancora nei guai

(Tempo di lettura: 6 minuti)

Il 16 agosto 2023 ha segnato un prima e un dopo nei 270 anni di storia del British Museum. La notizia, rivelata dal Times, della sparizione e del danneggiamento di circa 2.000 reperti antichi greci e romani, gemme e pietre semipreziose, gioielli in oro e in argento, manufatti in vetro databili tra il 1500 a.C. e l’Ottocento, e altri piccoli oggetti della collezione non esposti al pubblico dai quali si è cercato anche di rimuovere le pietre e i metalli preziosi, è rapidamente apparsa sulla stampa nazionale e internazionale e ha fatto il giro del mondo. Una eco amplificata dal presunto coinvolgimento di Peter John Higgs, stimato curatore capo del dipartimento antica Grecia e Roma, dottorato in archeologia ed esperto di culture mediterranee aveva iniziato a lavorare al museo dal 1993 e a luglio era stato licenziamento in tronco per “grave cattiva condotta”. I vertici già nel 2021 erano stati avvisati delle ruberie e dell’infedeltà di un membro senior dello staff, ma ugualmente le segnalazioni di Ittai Gradel, un antiquario olandese che aveva intercettato alcuni manufatti in vendita su eBay, erano state respinte al mittente, anche con una certa arroganza, e cadute nel vuoto fino all’ottobre 2022 quando il board of trustees, ovvero il consiglio di amministrazione, era stato messo al corrente dando seriamente seguito alle accuse. Le indagini della polizia sono state formalmente avviate nel gennaio 2023.

L’inerzia nel verificare i fatti e nel prendere le opportune contromisure è stata determinante nel ritenere l’evento, una volta di dominio pubblico, uno scandalo “della massima gravità”. Il direttore Hartwig Fischer, che da sette anni era alla guida e già a fine luglio aveva anticipato che nell’estate 2024 avrebbe lasciato il British Museum, ha annunciato le sue immediate e irrevocabili dimissioni: “Negli ultimi giorni ho esaminato nel dettaglio gli eventi relativi ai furti al British Museum e all’inchiesta su di essi. È evidente che il British Museum non ha risposto in modo esauriente come avrebbe dovuto alle avvisaglie del 2021 e al problema che ora è emerso pienamente. La responsabilità di questo fallimento deve ricadere in ultima analisi sul direttore”. Un passo indietro accolto dal presidente George Osborne, che si è affidato a una figura di spessore ed esperienza per iniziare a traghettare il museo fuori dalle sabbie mobili. È dei primi di settembre la nomina a direttore ad interim di Sir Mark Jones: 72 anni, storico dell’arte e numismatico, già numero uno del Victoria and Albert Museum tra il 2001 e il 2011.

“Il fatto che il furto sia continuato per 30 anni solleva questioni molto preoccupanti che devono essere affrontate per ripristinare la fiducia nel principale museo del Regno Unito”, aveva scritto Martin Bailey su The Art Newspaper lo scorso 7 novembre, in occasione della pubblicazione dei termini entro cui si sarebbe mossa l’indagine indipendente della commissione incaricata di verificare la collezione, stilando un elenco completo e dettagliato degli ammanchi, le misure e le carenze di sicurezza, i processi e la governance, la performance del consiglio di amministrazione del museo. Del team fanno parte tre copresidenti, Sir Nigel Boardman (ex amministratore e avvocato), Lucy D’Orsi (capo della polizia dei trasporti britannica) e Ian Karet (avvocato ed esperto di diritto della beneficenza); e tre dipendenti senior, David Bilson (responsabile della sicurezza e dei servizi ai visitatori), Mark Coady (responsabile dell’audit interno) e Thomas Harrison (custode della collezione antica greca e romana).

Nel frattempo il British Museum ha citato in giudizio Higgs. L’accusa ha presentato un’istanza di 24 pagine contenente una serie di prove schiaccianti raccolte ad agosto 2023 nel corso di una perquisizione della polizia nell’abitazione dell’ex curatore: tra il 2009 e il 2018 ha “abusato della sua posizione di fiducia”e trafugato pezzi della collezione (in prima istanza era stato ipotizzato un arco temporale di trent’anni, ovvero l’intera durata del rapporto lavorativo), è stato incriminato del furto e del danneggiamento di almeno 1.800 oggetti e della vendita di centinaia di reperti. Il diretto interessato, sostenuto anche dalla famiglia, si è sempre dichiarato estraneo ai fatti. Il 26 marzo è iniziato il processo e la giudice Heather Williams, dell’Alta Corte di giustizia di Londra, ha disposto la diffusione dei dati sulle compravendite riconducibili agli account eBay e PayPal registrati all’imputato e intimato la restituzione, entro quattro settimane, dei manufatti ancora in suo possesso. Secondo quanto riportato da Artnet News, “Il Metropolitan Police Service (MPS) di Londra ha informato il museo che Higgs ha perfezionato 96 vendite di oggetti simili a quelli della collezione dal suo account eBay tra maggio 2014 e dicembre 2017. Le vendite sono state effettuate a circa 45 acquirenti diversi per importi relativamente bassi, a due o tre cifre, secondo le carte del tribunale”. Pare che l’ex curatore avesse adottato delle ingenue quanto infruttuose accortezze per camuffare la sua identità e avesse tentato di manipolare il database del museo per coprire i furti. Sono stati posti sotto sequestro 11 dispositivi elettronici e un quaderno nero dove erano annotati i numeri di registrazione di alcuni degli reperti rubati o danneggiati. Nell’abitazione di Higgs è stata inoltre ritrovata una collezione di monete e medaglie antiche in bronzo, appartenuta, secondo la giustificazione dell’uomo, a una parente deceduta, Mary Patricia Bellamy. Dai documenti presentati dalla difesa risulta che l’imputato soffre “di un grave stress mentale, di essere in cura per la salute mentale e la depressione, e di non essere in grado di rispondere efficacemente al procedimento”.

Al momento sembra che siano stati trafugati circa 1.500 pezzi e che altri 500 siano “solo” stati danneggiati nel tentativo di rimuovere pietre o parti preziose. 350 di questi sono privi delle montature d’oro che, quasi certamente, sono state fuse e andate perse. Le buone notizie: sono stati rinvenuti 357 oggetti, 290 restituiti dal Museo Thorvaldsens di Copenaghen, 61 dall’antiquario Gradel e 6 da fonti diverse, e sarebbe in corso il recupero di altre 300 gemme. Le speranze invece di ritrovare i restanti reperti, circa 850, sono piuttosto ridotte a causa della carenza di documentazione, anche fotografica, utile al riconoscimento.

Bristish Museum, Great Court – Credit by Diliff – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Ma i guai per il British Museum non sono finiti qui. L’Information Commissioner’s Office (ICO) ha messo sotto indagine il museo con l’accusa di eccessiva segretezza su alcuni degli oggetti più sensibili della sua collezione: un gruppo di undici tavolette d’altare sacre etiopi, in legno e pietra, note come tabot, che rappresentano simbolicamente l’Arca dell’Alleanza e i Dieci Comandamenti. Facevano parte del tesoro imperiale saccheggiato dai soldati britannici come bottino di guerra, dopo la battaglia di Maqdala del 1868 e la sconfitta di Teodoro II (che si suicidò). In 150 anni non sono mai state esposte al pubblico: i tabot sono considerati così sacri che solo i sacerdoti possono vederli. Il museo ha deciso di rispettare il parere della Chiesa ortodossa etiope e, sembra, li custodisca in un speciale deposito sotterraneo, precluso anche all’esame dei curatori e degli amministratori del museo stesso. E quale sarebbe lo scopo di detenere dei manufatti che non possono essere studiati né fruiti dal pubblico? L’Etiopia ne reclama da tempo la restituzione, l’ultima nel 2019 in occasione di una visita al British Museum di Hirut Kassaw, ministro della Cultura etiope. Già nel 2005 The Art Newpaper aveva interrogato il museo londinese circa i beni razziati in Etiopia ottenendo sette pagine di risposta: tre cartelle di elenco, tre con le descrizioni (reperibili da chiunque) dei sei pezzi esposti, e una nota di accompagnamento. Nessuna novità poi fino all’agosto 2023 quando Returning Heritage, un’organizzazione senza scopo di lucro, che raccoglie informazioni sui beni culturali contestati e le richieste di restituzione, ha avanzato al museo una richiesta di Freedom of Information (FOI). Ricevuto del materiale incompleto ed evasivo in alcune sue parti, l’organizzazione ha recentemente presentato un reclamo all’ICO. La tesi è che il museo nasconda dettagli importanti sui tabot e sul loro rimpatrio. Al Guardian, che per primo ne ha dato notizia, Lewis McNaught, direttore di Returning Heritage, ha dichiarato: “Sembra molto strano che il museo non voglia spiegare perché sta trattenendo oggetti che può restituire”.

Lo scorso 28 marzo il consiglio di amministrazione del British Museum ha annunciato la nomina di Nicholas Cullinan, già alla guida della National Portrait Gallery, come nuovo direttore. Scelta evidentemente non gradita al primo ministro Rishi Sunak che si è scontrato con Osborne. Il presidente del museo ha respinto le interferenze di Downing Street, cui spetta la ratifica e non la scelta del candidato. Non è la prima volta che il governo del Regno Unito cerca di condizionare e di connotare politicamente le nomine nei consigli di amministrazione o alla direzione di musei e gallerie: personalità apertamente europeiste, favorevoli alla decolonizzazione delle istituzioni e alle restituzioni non sembrerebbero essere così benvenute. E la partita sui marmi del Partenone potrebbe essere tutt’altro che blindata: Osborne pare favorevole a una risoluzione della controversia sulla proprietà con un prestito o addirittura la restituzione dei fregi alla Grecia. Ipotesi entrambe fortemente avversate dalla politica.

Dunque la poltrona di Cullinan è bollente perché il suo incarico avrà inizio durante l’estate, non parte con il favore del primo ministro, e dovrà cimentarsi nel difficilissimo compito di ricostruire l’immagine del museo e la fiducia verso l’istituzione culturale. Quella che oggi è la cruna di un ago, potrebbe rivelarsi la spinta per una radicale rifondazione: che sia arrivato il tempo di drastiche quanto inedite decisioni di trasparenza, decolonizzazione e restituzione?

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