Restituzioni e rivendicazioni: rimane alta l’attenzione sul British Museum

In una nota di venerdì 17 maggio 2024, il museo londinese ha annunciato un importante risultato che porta così a un totale di 626 i pezzi recuperati dopo lo scandalo dello scorso agosto. Ma quanti sono invece gli oggetti della collezione, da decenni, al centro di controversie e richieste di rimpatrio?

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Arrivano da tutta Europa e dal Nord America gli ori e le gemme, 268 in tutto, che sono appena rientrati al British Museum. Si lavora senza sosta e ad ampio raggio geografico per rimediare agli ammanchi e al danno d’immagine. Le indagini hanno intercettato nuove piste che condurrebbero a circa altri 100 reperti e George Osborne, presidente del museo, non ha nascosto né l’iniziale preoccupazione né l’attuale soddisfazione: “Pochi si aspettavano di vedere questo giorno, e persino io avevo dei dubbi. Quando abbiamo annunciato la notizia devastante che gli oggetti dalla nostra collezione erano stati rubati, la gente ha comprensibilmente pensato che fosse finita lì: difficilmente ne avremmo rivisti più di una manciata. Questa è di solito la storia di furti come questo”. “Ma il team del British Museum – ha proseguito – non si è arreso. Grazie a un abile lavoro investigativo e a una rete di benefattori abbiamo ottenuto un risultato straordinario: più di 600 reperti sono tornati con noi e altri 100 sono stati identificati, in totale siamo riusciti a recuperare quasi la metà degli pezzi rubati. È un grande risultato, ma non ci fermiamo qui: la caccia agli oggetti mancanti continua. Invito chiunque abbia informazioni a seguire l’esempio di tutti coloro che ci hanno aiutato a mettersi in contatto”.

Ollie Croker, Project Curator Recovery Programme, e Sara Aly, Art Market Expert Recovery Programme, mostrano una parte delle gemme recuperate

Secondo le stime ufficiali sarebbero circa 2.000 in totale gli oggetti coinvolti nello scandalo del furto e danneggiamento della collazione. Su 1.500 reperti mancanti o rubati, ad oggi, 626 sono stati recuperati. Dei circa 500 oggetti danneggiati, ma fisicamente ancora presenti nel museo, 350 hanno subito l’asportazione di porzioni d’oro ormai irrecuperabili e approssimativamente altri 140 hanno riportato lesioni causate da utensili.

Il museo ha messo a disposizione un indirizzo email dedicato, recovery@britishmuseum.org, per tutti coloro che siano a conoscenza di informazioni utili al rinvenimento dei reperti mancanti o che in buona fede ne abbiano acquistati sul web.

Ma non è l’unico canale che il British Museum ha aperto sulla storia, la provenienza e il controverso possesso di alcuni importanti oggetti della sua collezione. Sul sito istituzionale, nello spazio dedicato alla stampa, da qualche tempo è attiva una sezione riservata ai Contested objects from the collection, che affronta e approfondisce otto questioni su cui periodicamente si riaccende l’attenzione diplomatica e mediatica.

Gli ori e le insegne reali del Regno degli Asante, oggi Repubblica del Ghana, sono una eredità storica, culturale e spirituale di quel popolo e la testimonianza dell’avidità coloniale britannica. Una parte dei 200 oggetti, realizzati in oro massiccio, fuso o ricoperti di foglia d’oro, sono stati saccheggiati dalle truppe britanniche durante le tre guerre anglo-asante (1873–4, 1895–6 e 1900–1), una parte è finita al British Museum sotto forma di indennità, altre come donazione o acquisto. Alle richieste di restituzione, la prima formale del 2 gennaio 1974 e quella del 2010, il museo ha risposto proponendo protocolli d’intesa che prevedono unicamente collaborazioni e prestiti a lungo termine. L’ultimo con il Manhyia Palace Museum di Kumasi risale a gennaio 2024, in occasione delle celebrazioni per il Giubileo d’argento di Asantehene, delle commemorazioni per il 150° anniversario della guerra anglo-asante del 1874 e i 100 anni dal ritorno di Asantehene Prempeh I a Kumasi, dopo che il colonialismo britannico lo aveva costretto all’esilio alle Seychelles.

I Bronzi del Benin, complessivamente 900 pezzi che sono in parte esposti in una mostra permanente e in parte girano il mondo, rappresentano più l’“aggressiva espansione del potere coloniale” che il popolo a cui sono stati sottratti. Si tratta di oggetti in ottone e bronzo, sculture che includono placche in fusione riccamente decorate, teste commemorative, figure animali e umane, insegne reali e ornamenti personali provenienti da Benin City, a cui si aggiungono avori intagliati, opere d’arte contemporanea, tessuti, calchi e repliche e reperti archeologici. “Il British Museum intrattiene eccellenti rapporti di lavoro a lungo termine con colleghi e istituzioni nigeriani”, ma di restituzioni non ne vuol sentir parlare.

Le linee guida sulla gestione degli oltre 6.000 resti umani sono attualmente in fase di revisione: oltre all’eredità predatoria colonialista sono sul tavolo altre questioni di tipo etico.

Gli 80 oggetti che fanno parte della cosiddetta Collezione Maqdala sono il bottino di guerra razziato nella città-fortezza etiope distrutta nel 1868. Nonostante William Ewart Gladstone, quattro volte primo ministro britannico, abbia “criticato il saccheggio di Maqdala definendolo un episodio riprovevole e deplorevole”, il British Museum non ha mai considerato la restituzione di croci cerimoniali, calici, ombrelli processionali, armi, tessuti, gioielli e materiale archeologico. Nemmeno quella dei sacri tabot, per i quali è sotto indagine da parte dell’Information Commissioner’s Office (ICO).

Su Hoa Hakananai’a e Moai Hava, i due grandi moai in pietra razziati da Rapa Nui da un equipaggio britannico nel 1868, recentemente si sono accesi i riflettori del web: lamentele e insulti hanno preso di mira le pagine social del British Museum per spingere il museo al rimpatrio. Nonostante una richiesta avanzata nel luglio 2018, congiuntamente dal Consiglio degli Anziani, dalla Commissione per lo sviluppo dell’Isola di Pasqua dal comune di Rapa Nui, “il museo sta sviluppando un rapporto a lungo termine con la comunità di Rapa Nui, per dedicare tempo e risorse al personale alla ricerca collaborativa e alla reinterpretazione delle collezioni Rapa Nui a beneficio della comunità e del mondo in generale”. Ancora picche, insomma.

La controversia sui Marmi di Elgin è forse quella più conosciuta dall’opinione pubblica e anche quella diplomaticamente più discussa. La Grecia preme dal 1983 sul British Museum, sul governo britannico e sull’Unesco per ottenere la definitiva restituzione di tutte le sculture del Partenone di Atene ma, al di là della retorica delle buone intenzioni e l’intrattenimento omeopatico di buoni rapporti con il Museo dell’Acropoli, la pratica è più che mai blindata.

Come lo scudo aborigeno australiano, datato tra la fine XVIII e l’inizio XIX secolo, sia arrivato al museo di Londra è un mistero, certo è che non se ne andrà tanto facilmente. Il British Museum, pur ammettendo che si tratta probabilmente del “più antico scudo australiano conosciuto in qualsiasi collezione” e che “negli ultimi anni è diventato il simbolo della colonizzazione britannica dell’Australia e dell’eredità continua di quella colonizzazione”, continua a ignorare ogni richiesta di rimpatrio.

L’ultima questione, non certamente ultima per importanza, riguarda le opere d’arte saccheggiate dai nazisti nel periodo 1933-1945. Risalire alla provenienza, lecita o illecita, riannodare i fili della storia e ristabilire il giusto corso delle proprietà dei beni spoliati agli ebrei, e non solo, è un tema enorme: sottovalutato e tardivo in Italia, ha riscosso maggiore attenzione e fortuna altrove. Recentemente la Germania ha annunciato la sottoscrizione di un accordo dalla portata storica tra Ministero della Cultura, Stati federali e autorità locali: entro la fine dell’anno entrerà in vigore la possibilità di pretendere la restituzione degli oggetti requisiti dai nazisti senza alcun limite di prescrizione e senza il consenso dei musei. Il British Museum cerca di fare la sua parte.

Non ci risulta – ma potremmo sbagliarci – che altri piccoli o grandi musei, coinvolti nel possesso di reperti e opere d’arte rivendicati, abbiano percorso (almeno) la stessa strada di trasparenza informativa. Tuttavia, se l’attenzione sugli oggetti rubati o danneggiati della collezione rimane alta e, com’è giusto che sia, il museo chiede aiuto e collaborazione; d’ora in poi potrebbe essere altrettanto legittimo aspettarci – e pretendere – una maggiore sensibilità e disponibilità da parte del British Museum ad accogliere le istanze di paesi e popoli colonizzati e saccheggiati.

Staremo a vedere.

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