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Libero di, occupato da… Tutela delle biblioteche e fruibilità

Carlo Maria Vassallo - Biblioteche
(Tempo di lettura: 5 minuti)

Se c’è un paradiso deve essere una biblioteca

U. Eco

Permane un esercizio utile rileggere la nostra Costituzione, per ricordare anzitutto a noi stessi che dobbiamo poter godere dei diritti ma che, parimenti, abbiamo anche dei doveri. È più che opportuno ispirarsi a quei principi fondamentali che si prefiggono di garantire il consapevole esercizio delle proprie libertà, nei limiti consentiti dalla legge, in virtù di uno dei precetti cardine introdotti illo tempore dal diritto romano: alterum non ledere. Siamo ancora la culla della cultura e del diritto?

Non so rispondere a questa domanda, o meglio fatico a volte a ritrovare quegli elementi oggettivi e reali che confermino, nei fatti, questo antico adagio tramutatosi oggi in un interrogativo spinoso. Penso, in particolare, alle occupazioni delle università, asseritamente motivate da esigenze umanitarie, dalla solidarietà e dal ripudio della guerra: contro la guerra è sempre legittimo manifestare pacificamente, non fosse altro per ragioni di coerenza in relazione alla premessa.

Assicuriamo quindi che venga rispettata la previsione degli artt. 11-21 della nostra Costituzione. In essa, tuttavia, al fine di assicurare l’equilibrio dei diritti e dei doveri erga omnes, vi sono anche gli artt. 13-14-17 che disciplinano e ribadiscono rispettivamente: l’intervento delle autorità di pubblica sicurezza e giudiziaria nei contesti di competenza, la libertà di movimento dei singoli, la necessità di garantire la sicurezza e l’incolumità pubblica. Rilevante altresì il principio di legalità in relazione alla legge penale, fermo restando il contenuto dell’art. 25 della Costituzione.

Questa premessa è necessaria quanto entrare nel merito delle questioni, per comprenderle e, possibilmente, contribuire alla loro soluzione quando divengono oltremodo problematiche, e per certi versi lesive. È lecito dunque manifestare ma, allo stesso modo, lo è poter accedere alla biblioteca per consultare un libro per motivi di studio, condotta quest’ultima coerente e filologica. Corretto? Apodittico si potrebbe dire. Tuttavia nei fatti non è così. Ad esempio, non è stato possibile, per più di un mese, accedere liberamente, rispettandone gli orari, alla biblioteca “Giovanni Tabacco” dell’Università degli Studi di Torino, “causa occupazione”. Allora? Come la mettiamo? Peraltro molti “studenti studiosi” e “docenti ortodossi” sono stati in difficoltà, non potendo fruire del servizio bibliotecario, ma questo pare non aver interessato praticamente nessuno, a cominciare dal magnifico rettore che, forse colpa della geografia storica, soffre si può dire della stessa sindrome di Carlo Alberto di Savoia, ha tentennato fino a qualche giorno fa.

In effetti ci sarebbe stato poco da tentennare, nel senso che questa occupazione pare non sia stata autorizzata e, pertanto, si configurerebbe, in astratto (?), la violazione penale di cui all’art. 633 C.P. “Invasione di terreni o edifici”. Si acquietino subito eventuali improvvidi azzeccagarbugli, perché in questo caso sarebbe applicabile la procedura d’ufficio, non a querela di parte (il legale rappresentante sarebbe il rettore stesso, sic!), essendo il numero degli invasori superiore a cinque, rilevando il c. 2 del predetto articolo. In questo paese, continuando a parafrasare il Manzoni, sembra che tutto debba essere risolto dagli sbirri e dai magistrati, attesa l’inerzia dell’azione politico-amministrativa. Tutto ciò non va proprio bene e genera ulteriori impatti negativi, ma diventa anche una necessità impellente, una risposta in emergenza, per colmare una sorta di vuoto dovuto alla mancanza di assunzione di responsabilità degli organi e istituzioni deputati.

Ora pare si stia facendo la conta dei danni, vedremo dunque a chi saranno imputati a livello di responsabilità civile e penale. Speriamo, nel frattempo, non siano stati danneggiati e/o sottratti libri, che nessuno li abbia utilizzati in maniera impropria, magari per accendere falò onde scaldarsi e/o cuocere vivande invocando uno stato di necessità: mi fermo qui. Ora, qualcuno potrebbe obiettare: cosa c’entra tutto ciò col patrimonio culturale? C’entra sì. UniTo è un’università statale. La suddetta biblioteca è pubblica, per cui ciò che custodisce e raccoglie rientra a pieno titolo nella definizione di “Bene Culturale” contemplata dall’art. 10 c. 2 lettera C del Codice dei Beni Culturali “[…] le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico […]”. Non vorremmo proprio interpretare il ruolo di Cassandra, preconizzare scenari orwelliani o, ricorrendo alla metafora cinematografica, andare oltre e giungere alla prevenzione/repressione delle condotte illegali con metodi pre-crimine, alla maniera di Minority Report (maledetta tecnologia, sic!).

Tuttavia danneggiare e/o sottrarre Beni Culturali è un reato punito rispettivamente dall’art. 518-bis C.P. “Furto di beni culturali” (1) e dall’art. 518-duodecies C.P. “Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici” (2). Confidiamo perciò che tutto si risolva senza ulteriori polemiche o, peggio, senza violenze diffuse a fronte di un possibile innalzamento dalla tensione sociale. La legge, in ogni caso, va applicata e le università non possono essere un’oasi di impunità, sarebbe oltremodo oltraggioso e in antitesi con l’alta missione che si prefiggono: promuovere la ricerca, il progresso delle scienze e l’istruzione di livello superiore, soprattutto a favore delle future generazioni.

Le biblioteche vanno perciò tutelate e preservate: sono un patrimonio straordinario ed assolvono ad una funzione centrale per la diffusione della cultura e della formazione fino ai massimi livelli. Non corriamo più il rischio, passatemi il paradosso letterario, di avvelenare i libri per vietarne la consultazione, come accade ne Il nome della rosa. Corriamo semmai il pericolo di ammorbare, oltre al contesto di elezione, tutto l’ambiente di contorno. Vogliamo perciò tornare davvero a sorridere e a sperare, liberamente e laicamente, senza dover incappare nel timor domini propugnato dal Venerabile Jorge, il personaggio intransigente, reazionario e malvagio del romanzo di Eco. La modernità della nostra Costituzione e d’altro canto, purtroppo, la minore cognizione che si ha del suo contenuto etico e giuridico tra i cittadini, specie nei giovani, ci deve spingere a ribadire e a sviluppare, in ogni favorevole occasione, quei valori declinati nella Carta stessa: la dignità della persona, la cultura, l’ambiente e il patrimonio della nazione. Caspita! Avevo dimenticato proprio l’art. 9 della Costituzione! Perdonerete la dimenticanza o l’artificio retorico?

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Note

(1) Chiunque si impossessa di un bene culturale mobile altrui, sottraendolo a chi lo detiene, al fine di trarne profitto, per sé o per altri, o si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500.
La pena è della reclusione da quattro a dieci anni e della multa da euro 927 a euro 2.000 se il reato è aggravato da una o più delle circostanze previste nel primo comma dell’articolo 625 o se il furto di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini, è commesso da chi abbia ottenuto la concessione di ricerca prevista dalla legge.
Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili, ove previsto, o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 2.500 a euro 15.000.
(2) Chiunque, fuori dei casi di cui al primo comma, deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui, ovvero destina beni culturali a un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico ovvero pregiudizievole per la loro conservazione o integrità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 1.500 a euro 10.000.
La sospensione condizionale della pena è subordinata al ripristino dello stato dei luoghi o all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.

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