L’Arco di Costantino colpito dal fulmine e il cambiamento climatico
Com’è ammirevole colui che non pensa: “La vita è effimera”, vedendo un lampo
(Matsuo Bashō)
Ci apprestiamo a parlare di un monumento tra i più conosciuti dell’Urbe, ma anche dall’Orbi: l’Arco di Costantino. Sarà la sua vicinanza al Colosseo, ma certamente è una costruzione straordinaria, imponente, densa di significati, un condensato di quella che gli antichi romani chiamavano publica magnificentia. È il tributo che il Senatus volle concedere per commemorare l’impresa vittoriosa dell’Imperatore Costantino nei confronti di Massenzio, nella nota battaglia di Ponte Milvio, del 28 ottobre 312 d.C., su cui si sono spesi fiumi di inchiostro e non solo. Il monumento, collocato lungo il tragitto dei trionfi, fu inaugurato per i decennalia del magnus imperator nel 315 d.C.
Perché ne stiamo trattando su queste pagine, quale crimine o diavoleria è accaduta?
Il 3 settembre scorso, nella Capitale, durante uno dei sempre più frequenti fortunali, un fulmine si è scaricato sull’Arco, mandando in frantumi alcune delle sue parti che sono caduti sul terreno circostante. I frammenti, fortunatamente, sono stati tutti recuperati e messi al sicuro nei depositi del Parco Archeologico del Colosseo, in attesa che venga fatta una stima puntuale dei danni. Anche il ministro della Cultura uscente, seppur impegnato in ben altre procelle, ha voluto fare un sopralluogo in situ, unitamente al Capo Dipartimento per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale, Alfonsina Russo. Sul posto è già stato allestito un cantiere per procedere con le operazioni di manutenzione straordinaria: tutto a posto? Speriamo di sì, non vorremmo incappare in altre inaspettate sorprese.
Questo evento, al di là delle vicende di contorno, ci deve far riflettere. In primis su come ormai il nostro patrimonio culturale, in questo caso archeologico, sia esposto a eventi sfavorevoli come quelli del maltempo che, negli ultimi anni, si sono intensificati in termini di frequenza e di impatto negativo. Operare una prevenzione in questo ambito sarebbe quanto mai opportuno. Uno studio dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del CNR, condotto a partire dal 2021, ha previsto quali saranno i maggiori rischi futuri a cui sarà esposto il patrimonio culturale a causa del cambiamento climatico. I modelli utilizzati per monitorare i vari fattori di degrado dei beni, grazie allo sviluppo di algoritmi e funzioni avanzate, hanno delineato i possibili danni, la loro frequenza e la relativa incidenza. Le proiezioni, riferibili all’ultimo trentennio del secolo in corso, indicano tra i principali fattori di rischio l’aumento della temperatura, la carenza di acqua e lo stravolgimento dei cicli connessi alla siccità.
Questa è la scienza, che sembra combaciare ormai anche con una percezione diffusa di questi fenomeni, salvo non si voglia fantasticare o forse affidarsi agli dei facendoli resuscitare per esorcizzare il pericolo incombente: suona quasi come una sfrontata eresia.
Si potrebbero rispolverare proprio gli antichi riti romani di più remota ispirazione. Tra questi ve ne è uno che sembra calzare abbastanza bene con quanto accaduto pochi giorni fa: il fulgur conditum. Una forma di sacralizzazione del luogo dove si è manifestata la forza divina, che si trasforma in un seppellimento di quanto colpito, ricordato attraverso iscrizioni e, talvolta, strutture più complesse. Nella stessa capitale non mancano attestazioni importanti di questa ritualità, che coinvolge manufatti, edifici e perfino persone investite da folgori. Ne sono un esempio il tempio di Iunonis Lucinae e quello di Aedes Iovis in Campidoglio, investiti da tali prodigia. Ma ve ne sono anche altre testimonianze, disseminate in altri luoghi del nostro paese e oltre i confini nazionali.
Come sempre il nostro passato, la nostra cultura, la nostra storia, ci riservano delle sorprese. Veniamo ammoniti, come sosteneva Circerone, stimolati a cercare qualcosa di nuovo, se non altro per reinterpretarlo e per ricontestualizzarlo, virtuosamente, nella contemporaneità. Ci mancano, tuttavia, i sacerdotes bidantales, figure arcaiche che, interpreti di tali divini manifestazioni, sarebbe azzardato, se non irriverente, equiparare a cialtroneschi influencer o a santoni new age in cerca di gonzi a cui spillare pecunia. L’ars fulminum si incastona nella sapienza e nella tradizione. Per definizione queste due peculiarità si trasmettono con le giuste modalità affinché vengano comprese e introiettate. Pratiche dal profondo significato che, di fatto, mal si conciliano, stridono, con le frettolose forme di comunicazione odierne, che spesso travalicano nella banalità se non nella trivialità.
Abbiamo perso la capacità di osservare e di entrare in empatia con i fenomeni naturali, con quella sensibilità che costituisce un legame con il tutto. Certi eventi sono segnanti, e dovrebbero esserlo anche per chi non considera la dimensione sacra, nella misura in cui ci fanno riflettere e soprattutto ci ricordano che, per dirla con Jung, esiste una coscienza collettiva da preservare. In questa dimensione condivisa riecheggia l’instinctu divinitatis, collocato al di sopra di noi, oltre della comune e distratta comprensione, comunque la si pensi.
Opinionista