Degrado e saccheggio di beni culturali a Napoli. Il procuratore aggiunto Filippelli: «Lavoriamo tutti. Le istituzioni stanno dando un segnale di impegno e speranza»

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Classe 1968, Pierpaolo Filippelli entra in magistratura nella seconda metà degli anni Novanta. Inizia la sua carriera a Catania occupandosi di crimini contro la persona e contro il patrimonio, di misure di prevenzione personali e patrimoniali, di reati finanziari e fallimentari, di urbanistica e ambiente. Nel 2004 arriva alla Procura di Napoli, in prima linea nella lotta alla camorra in Campania, e presta servizio, per oltre un decennio, alla Direzione distrettuale antimafia. Negli ultimi mesi del 2015 ottiene il trasferimento e la promozione a procuratore aggiunto presso la Procura di Torre Annunziata. La stima dei colleghi, la capacità investigativa e organizzativa, la totale disponibilità alle esigenze dell’Ufficio, l’attitudine di coordinamento e collaborazione, una solida preparazione giuridica e l’impegno dimostrato nella promozione della cultura della legalità nelle scuole – tutti aspetti evidenziati nelle relazioni del Consiglio Giudiziario e della V Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura – nel 2021 lo riportano a Napoli, con i gradi di procuratore aggiunto, assumendo anche l’incarico di coordinatore del Gruppo intersezionale tutela dei beni culturali.

Il Gruppo intersezionale tutela dei beni culturali, che lei coordina per la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, è probabilmente un unicum sul territorio nazionale. Come nasce e di quante unità è composta?
«Sicuramente il Gruppo intersezionale è una peculiarità della Procura di Napoli, anche se non credo che sia l’unico gruppo di lavoro specializzato nel panorama dei giudici requirenti in Italia. Un gruppo simile e omogeneo c’è anche alla Procura di Roma, coordinato da Giovanni Conzo. Del resto, il compianto collega Paolo Giorgio Ferri a Roma è stato un apripista nel contrasto alle archeomafie e alla criminalità contro il patrimonio culturale, uno dei precursori di una moderna attività d’indagine in questo campo. La Procura di Napoli è stata tra le primissime a dotarsi, in origine, di un pool di magistrati specializzato all’interno della VII Sezione – Sicurezza Urbana – che tra l’altro in questo momento coordino – e che si occupa, tra le altre cose, di rapine, usura e reati contro il patrimonio. Nell’ambito di questo settore era stato creato un team dedicato ai reati contro il patrimonio culturale poi, grazie a una felice intuizione di Giovanni Melillo (procuratore a Napoli dal 2017 al 4 maggio 2022, quando è stato eletto al vertice della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, ndr), si pensò di creare un gruppo tematico, autonomo e intersezionale, aperto al contributo di esperienze e conoscenze di vari settori della Procura. E questa è la particolarità di Napoli. Quattro sostituti procuratori partecipano al Gruppo intersezionale tutela dei beni culturali e, nello specifico, due provengono dalla V Sezione – Tutela ambiente e territorio, un magistrato si occupa di reati contro l’incolumità pubblica, mentre il collega Vincenzo Piscitelli è incardinato nella XI Sezione – Sicurezza dei Sistemi Informatici. Avere due magistrati che si interessano di ambiente è un valore aggiunto perché la tutela dei beni culturali spesso confina con quella del paesaggio e dei beni monumentali. Lo è altrettanto il poterci avvalere di un collega che si occupa di sicurezza e incolumità pubblica perché, ad esempio, alcuni nostri monumenti, purtroppo, versano in stato di abbandono con pericolo di crollo».

Quali sono le tipologie di crimini contro il patrimonio culturale che prevalentemente si verificano nella città di Napoli e nella sua area metropolitana?
«Dal marzo 2022 abbiamo uno strumento normativo molto importante, una nuova legge che ha introdotto un titolo autonomo e che ci consente fattispecie meglio attagliate, alla necessità di contrasto ai reati contro i beni culturali, e pene più importanti. Stiamo utilizzando molto l’art. 518 duodeces, relativo a Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito dei beni culturali e paesaggistici. La norma offre un’ampia possibilità di applicazione».

Le vicissitudini di cui è stato vittima il Complesso monumentale e Biblioteca dei Girolamini, secondo la direttrice Antonella Cucciniello, fanno di questo luogo un esempio paradigmatico di disattenzione nei confronti della tutela. Ritiene che vi siano altre situazioni potenzialmente analoghe in città?
«La dottoressa Cucciniello ha perfettamente ragione. Il caso del Complesso dei Girolamini è clamoroso ed eclatante, per citare Dante “E ‘l modo ancor m’offende” come sia stato “trattato” in termini di abbandono e spoliazione, purtroppo con la complicità di funzionari pubblici che avrebbero dovuto occuparsi della sua tutela e della sua salvaguardia. Con la direttrice Cucciniello e i Girolamini abbiamo stipulato un protocollo importante che ha dato i suoi frutti e che ci ha consentito di prestare molta attenzione alla biblioteca e alla chiesa. Tra l’altro una delle più belle chiese di Napoli. Lo scopo dell’accordo era quello di verificare se in passato vi erano state delle condotte di spoliazione, anche ai danni della chiesa, di mappare il materiale sottratto, al fine di aggiornare la Banca dati dei Carabinieri TPC, e quindi di avviare le attività investigative finalizzate al recupero. Abbiamo fatto un ottimo lavoro di ricostruzione attraverso atti giudiziari molto significativi dei primi anni Sessanta. Però non voglio sfuggire alla domanda: no, non nei termini e nella gravità che abbiamo conosciuto ai Girolamini. Nella logica dei protocolli che abbiamo stipulato con il Comune di Napoli, con la Curia e con la Soprintendenza, stiamo verificando lo stato di conservazione dei più importanti monumenti per avviare un’attività di tutela, recupero e salvaguardia. Stiamo dando molto spazio alle iniziative in collaborazione con l’Università: gli stagisti stanno conducendo una ricognizione sullo stato di conservazione di biblioteche, chiese e monumenti del centro storico».


La Biblioteca dei Girolamini (Foto: Wikimedia Commons)

Rimanendo nell’ambito dei protocolli siglati, quelli con il MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli e con i Girolamini, appunto, hanno già prodotto dei risultati concreti. In quale direzione si muove l’intesa recentemente sottoscritta con il Centro Interdipartimentale LUPT dell’Università degli Studi di Napoli Federico II?
«Anche questo protocollo è molto importante. Abbiamo affidato una ricognizione dello stato di conservazione e del relativo status giuridico di opere custodite in vari depositi. Vogliamo riprodurre, anche in riferimento ad altri depositi giudiziari e non giudiziari, il lavoro che abbiamo svolto in collaborazione con il MANN. Ad esempio, stiamo verificando i beni conservati presso il deposito del Seminario Arcivescovile per definire finalmente un quadro sempre più chiaro e aggiornato dei luoghi dai quali questi beni sono stati sottratti. La ricostruzione dello status giuridico ci permette di valutare ed eventualmente favorire la restituzione e – d’intesa con la Soprintendenza – il ritorno di questi beni nei luoghi di origine. Molte volte incappiamo in situazioni in cui il temporaneo diventa definitivo, e lo diventa senza che se ne abbia contezza: il deposito non è più un luogo di custodia, ma un posto dove le opere sono preda dell’indifferenza. Questa attività serve a riacquisire la memoria di situazioni, che in qualche modo sono state dimenticate, e a restituire nuovamente dei pezzi d’arte allo studio e alla fruizione pubblica. Inoltre all’Università abbiamo affidato – sempre insieme alla Soprintendenza e di volta in volta insieme alla Curia e al Comune – la creazione di una mappa aggiornata del rischio di aggressione al patrimonio culturale della città di Napoli. Ci interessa capire quali siano i monumenti maggiormente a rischio d’incuria, abbandono, saccheggio, a rischio di “stupro”, come spesso è accaduto: conoscere il patrimonio culturale, il suo stato di conservazione e i rischi di degrado e spoliazione, ci aiuta sotto tutti i punti di vista».

In Chiese chiuse (Giulio Einaudi editore, 2021), Tomaso Montanari scrive che Napoli è “l’epicentro del disfacimento delle antiche chiese”. Danilo Procaccianti, giornalista di Report, a più riprese – La messa è finita (7 novembre 2022), Questi fantasmi (21 novembre 2022) e Andate in pace (24 aprile 2023) – si è occupato degli abusi e delle fantasiose destinazioni d’uso degli edifici religiosi partenopei. Il 31 maggio 2024 i Carabinieri del Nucleo TPC di Napoli hanno posto i sigilli sull’ex canonica della Chiesa di San Biagio ai Taffettanari e l’immobile, finalmente sgombrato, è stato restituito al prefetto lo scorso 4 luglio. È cambiato il vento?
«Mi piace essere ottimista e sicuramente dico di sì, perché stiamo veramente lavorando tutti: l’insieme dei protocolli e la sinergia tra le istituzioni vuole dare un segnale di impegno e di speranza, di fiducia e di ottimismo. Le tante situazioni di abbandono si sono stratificate nel tempo e il fenomeno è molto ramificato. Ci rendiamo conto di quanto ci sia da fare, però l’impegno, non solo della Procura, ma anche delle forze dell’ordine e delle istituzioni, penso stia dando i suoi frutti. Al di là del dato delle chiese, un altro caso che citiamo con soddisfazione è quello della stazione Bayard: un monumento di straordinaria valenza storica – la ferrovia dalla quale è partito il primo treno d’Italia – che da decenni era stato abbandonato in una situazione di assoluto degrado. È stato sequestrato e adesso è stato riaffidato per un progetto di restauro, risanamento e valorizzazione. Da un punto di vista simbolico per noi è un risultato eccezionale».

Lei ha rappresentato la pubblica accusa nel processo (iniziato il 20 dicembre 2019 e concluso in primo grado il 20 settembre 2021) contro Giuseppe e Raffaele Izzo, i due tombaroli, padre e figlio residenti a Torre Annunziata, che hanno scavato oltre 70 metri di tunnel per saccheggiare la villa di Civita Giuliana, un sito a ridosso del Parco Archeologico di Pompei a cui sono stati arrecati danni gravi e irreparabili. L’introduzione di nuove fattispecie di reato – come si diceva – e l’inasprimento delle pene sono un deterrente sufficiente ed efficace per il contrasto agli scavi clandestini?
«Assolutamente. È chiaro che inasprire le pene significa ottenere prospettive di condanna maggiori con la possibilità di svolgere attività d’intercettazione che, sotto un limite edittale, non sono autorizzate, e significa evitare d’incappare nella tagliola delle prescrizioni dei reati. L’arsenale normativo nuovo è molto importante per un contrasto investigativo e repressivo, giudiziario in senso ampio a questo tipo di fenomeni. Forse alla riforma – che al collega Ferri sarebbe piaciuta – è mancato l’ultimo tassello: l’introduzione di un reato associativo autonomo, del tipo art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990 – Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. La fattispecie autonoma di Associazione a delinquere finalizzata a traffico di beni culturali avrebbe potuto anche suggerire una competenza della stessa Direzione distrettuale antimafia su questi tipi di reato: sappiamo che spesso le associazioni criminali, le mafie sul territorio, in qualche modo hanno un interesse nel gestire il traffico di opere d’arte e di reperti archeologici da scavi clandestini».

Dopo 11 anni e 124 udienze lo scorso 12 marzo è arrivata la sentenza di primo grado che ha assolto l’ex direttore della Biblioteca dei Girolamini e gli altri imputati dei reati di devastazione e saccheggio. De Caro è stato ugualmente condannato a 5 anni e 3 mesi. Il pubblico ministero aveva chiesto per tutti 10 anni di reclusione. Su questo processo incombe la prescrizione: perché è così difficile per i Girolamini ottenere verità e giustizia?
«Questo è un processo ancora pendente: non mi voglio sottrarre ma, per una doverosa disciplina sui processi ancora in corso, preferiamo non pronunciarci. La vicenda giudiziaria non è chiusa. Posso però dire che la Procura è ancora impegnata nell’attività importante di ricerca, di recupero e di restituzione dei volumi dispersi dei Girolamini».

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