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Archeologia preventiva. Scenari e possibili soluzioni condivise

(Tempo di lettura: 5 minuti)

Gridare dopo che il danno è avvenuto non serve a nulla, specie se il danno è una ferita mortale
(G.K. Chesterton)

Il Codice degli Appalti (D.Lgs. 50/2016) ha considerato gli archeologi dal punto di vista di un primo inquadramento, dopo la L. 110/2014. Questa novità ha comportato che tali figure rientrassero nel novero di quelle competenti per la progettazione, insieme con architetti ed ingegneri e geologi. In questo senso si parla di archeologia preventiva, prevista, a livello internazionale, nella Convenzione Europea per la protezione del patrimonio archeologico della Valletta (1992) che il nostro paese ha ratificato nel 2015.

La Convenzione, permeata dalla sensibilità ambientale ispirata della Conferenza di Rio (1992), ha introdotto il principio del Polluter Pays, stabilendo che gli oneri di tutela siano a carico dei soggetti impegnati nei lavori di trasformazione territoriale, che peraltro attivano con questa procedura le stesse attività di tutela. L’Italia ha recepito tale principio con l’introduzione dell’art. 28 c. 4 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, in connessione con gli artt. 95-96 del Codice degli Appalti che introducono le linee guida in materia. La Convenzione de La Valletta ha introdotto, valutando lo sviluppo della particolare attività, la cosiddetta compliance driven archaeology e la developement funded archaeology. La materia archeologica pertanto non è più solo disciplina di ricerca, ma un ambito di competenze da cui sono assicurati specifici servizi tecnico-professionali.

Le normative europee delineano un sistema che pone in relazione le figure che, a vario titolo, partecipano alle procedure: developer, archaeological contractor e authority. Gli aspetti contrattuali sono normati dal rapporto privatistico intercorrente tra developer e archaeological contractor/consultant.  Il ruolo dell’authority (in Italia le Soprintendenze) è di stilare le prescrizioni del caso, concedere i permessi e verificare la correttezza della loro applicazione da parte delle parti interessate. Chi presta servizi tecnico-professionali è quindi una figura terza, assoggettata al controllo dall’organo di tutela, fatto che in numerosi paesi aderenti alla Convenzione ha previsto una serie di requisiti ed un apposito albo per garantire le competenze degli iscritti ed esercitare al meglio la libera professione di archeologo. Questa scelta è incentrata sulla separazione dei ruoli, soprattutto scongiura possibili sovrapposizione tra l’autorità di tutela e l’archeologo che si occupa di curare, per la parte di competenza, le fasi dei lavori.

L’assetto amministrativo di tutela del nostro paese, per quanto attiene questo ambito, fa capo alla Direzione Generale Educazione, ricerca e istituti culturali, che ha il compito di curare la tenuta dell’elenco degli operatori abilitati alla redazione del documento di valutazione archeologica (VPIA) nel progetto preliminare di opera pubblica (art. 25 d.lgs. 50/2016 Codice degli appalti). Detto elenco non è tuttavia un albo professionale di archeologi e l’iscrizione non è obbligatoria per chi esercita la libera professione. Nella piattaforma informatica dei professionisti dei beni culturali, l’elenco degli Archeologi di I fascia viene aggiornato nel caso in cui il professionista sia in possesso di diploma di laurea e specializzazione in archeologia o dottorato di ricerca in archeologia, dalla dicitura: Operatore abilitato alla verifica preventiva dell’interesse archeologico. La materia è gestita, a livello informatico, dal portale dell’archeologia preventiva del MiC. Sul portale sono altresì pubblicati:
– l’elenco dei dipartimenti e degli istituti universitari, compresi i centri interdipartimentali;
– il nominativo dei tre docenti di ruolo della scuola archeologica italiana di Atene, nei settori scientifico-disciplinari di ambito archeologico (art. 2 c. 1 del DM 60/2009).

Questo sistema migliora e rafforza davvero l’autonomia professionale degli archeologi? Le procedure del sistema sono davvero più efficienti?

Spesso le attività preventive in ambito archeologico sono commissionate da enti locali, piccole realtà che non hanno dimestichezza con la materia che presenta varie complessità. Si tratta infatti di entrare nel turbinoso vortice della gare di appalto che, seppur normate dal codice, lasciano margini all’incaricato anche a livello di subappalto che varia secondo l’entità dei lavori, a partire dalla redazione della verifica che deve essere eseguita tramite apposito template GIS rilasciato dall’Istituto Centrale per l’Archeologia (ICA). La decantata autonomia del professionista si riduce perciò sotto vari aspetti, confermando il rapporto asimmetrico e squilibrato che rileva spesso tra la Pubblica Amministrazione ed il privato, anche se si parla di appalti, contratti stabiliti e questioni tecniche.

Peraltro, ritornando agli elenchi, vi sono corsi di Laurea Specialistica non più attivi (D.M. 509 del 3 novembre 1999) che, rientrando nella classe delle lauree specialistiche in storia dell’arte, 95/S, non sono presenti tra le scelte opzionabili in riferimento al titolo di studio. Eppure tale livello informativo risulta obbligatorio in fase di iscrizione e costituisce una barriera che impedisce l’accesso, se non compilato, anche nel caso in cui il professionista che voglia iscriversi sia in possesso di un titolo superiore del tutto adeguato al profilo come, per esempio, un Dottorato di ricerca (PhD) in Archeologia classica. D’altro canto pare che questo tipo di attività non siano sempre adeguatamente remunerate soprattutto se si considera il tempo e la mole della documentazione in relazione anche alla diretta conoscenza del territorio, aspetto che, in difetto, comporterebbe la necessità di effettuare più sopralluoghi e approfondimenti.

L’accertamento preventivo dell’interesse archeologico prevede l’attuazione di diverse operazioni che devono confluire ed essere formalizzate nel template GIS: una ricognizione con documentazione fotografica dell’area e/o del tragitto interessato dall’opera o nel luogo dove avverrà la costruzione; un esame della geomorfologia del territorio per individuare caratteristiche (frane, smottamenti, attività alluvionali) che possono aver influito sull’insediamento umano in quell’area o rendere difficoltosa l’individuazione di tali testimonianze; un esame della documentazione storica, cartografica e sulla toponomastica; la realizzazione di schede siti che censiscono le emergenze e le tracce che, afferenti a epoche diverse, integrino più puntualmente il parere espresso al termine; le conclusioni che, in ultimo, devono determinare il rischio assoluto e il rischio relativo di incorrere in stratigrafie antropizzate ed emergenze di vario genere. La procedura si perfeziona e si conclude nell’osservanza delle indicazioni del soprintendente, con riferimento anzitutto all’estensione dell’area di interesse e con la stesura finale della relazione archeologica in forma definitiva, a sua volta soggetta ad approvazione dal soprintendente competente per territorio. Tuttavia, in fase di definizione del progetto esecutivo, interviene il funzionario di soprintendenza che dà le proprie prescrizioni, assistendo, nel caso, ai sondaggi preventivi e agli scavi. Il funzionario riceve la VPIA, formula le proprie valutazioni e decide nel merito anche alla luce del parere fornito dal professionista che non è vincolante.

Al netto delle procedure burocratiche e delle questioni amministrative, questa particolare attività è di fondamentale importanza per la tutela del patrimonio archeologico, in una penisola come la nostra, notoriamente caratterizzata dalla presenza di numerose e variegate testimonianze mobili ed immobili. Cautela questa che se fosse stata presa in considerazione qualche decennio fa, avrebbe certamente evitato danni pesanti, soprattutto in quelle aree dove si è avuto uno sconsiderato consumo di suolo e, aggiungerei, condotte delinquenziali legate agli appalti, al movimento terra, anche con connivenze di criminalità organizzata.

È capitato ad ognuno di noi di interessarsi, più o meno direttamente, a vicende legate all’avvio di lavori di edificazione di un’opera pubblica: si pensi al ponte sullo Stretto di Messina. Da più parti provengono notizie allarmanti riguardanti l’impatto sull’ambiente, sulla reale sostenibilità del progetto e, soprattutto, sull’effettiva ricaduta positiva dell’economia qualora l’opera sia realizzata. In questo ambito non si è affatto sentito parlare di archeologia, o almeno non ne è stata data notizia e diffusione, preso atto che la VPIA è obbligatoria per le opere pubbliche, già a partire dalla fase progettuale. Eppure stante la rilevanza di un’opera del genere, non si può fare meno di porre attenzione sulla conoscenza sistematica del contesto archeologico, sin dalle prime fasi di pianificazione, programmazione e sviluppo degli interventi.

La tutela perciò deve realizzarsi con accortezza sui territori e non può prescindere da un’attenta valutazione degli aspetti culturali, sociali ed economici:  si dovrebbero evitare sterili quanto strumentali contrapposizioni ideologiche e, allo stesso tempo, occorrerebbe realizzare un bilanciamento delle risorse in un orizzonte di reale interesse ed utilità per il futuro, senza trascurare una componente che, se non attentamente inquadrata, potrebbe ingenerare pericolose conflittualità e comportare un danno irreversibile, perfino la perdita definitiva del bene. I casi sono numerosi, ricordiamo tra tutti, trattando l’ambito archeologico, il rogo doloso della villa romana di Faragola (FG) del 6 settembre 2017. Un reato rimasto senza colpevole.

La prevenzione, in senso più generale, è una pratica nobile, che richiede attenzione e dedizione. È un insieme di azioni che andrebbero coordinate, coinvolgendo il maggior numero di persone e di organizzazioni, siano esse statali o meno. Prevede l’impiego di ingenti risorse, sia umane sia finanziarie, ma non assicura un risultato istantaneo e tangibile secondo le dinamiche contemporanee: di fatto, se davvero funziona, nessuno se ne accorge. Del resto pare che un noto saggio orientale, se non erro Confucio, fosse solito affermare: niente è più visibile di ciò che è nascosto.

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